domenica 13 marzo 2011

Io, invece, mi accanisco!

Mi riferisco al problema che la prof.ssa Mastrocola vorrebbe risolvere banalmente, a mio avviso, creando scuole differenziate, di cui solo una destinata ai veri e pochi "studianti". Vedi ad esempio questo link. È un'idea molto pericolosa e ingiusta, anche perché "accarezza" molto il tentativo governativo in atto di succhiare risorse alla scuola pubblica: farla funzionare tagliandola, distruggendola, affossandola. Per inciso, ci sono ben altre tendenze, riguardo alla Scuola, alla "civiltà della conoscenza", alla "cittadinanza", già ben dettate dall'Unione Europea a Lisbona. Non abbiamo bisogno della frustrazione dei docenti per sapere dove andare. Anche la ricerca ha detto molto, un molto che sta ancora fuori dalla scuola e non si trova nei libri della Mastrocola. Dico innanzitutto che la Scuola non può rinunciare al suo compito principale. Non ha fatto tutto ciò che sarebbe possibile per assolverlo.
Non si può CANCELLARE il problema perché ANCORA non si riesce a risolverlo adeguatamente. Montaigne diceva: "quando un problema è senza soluzione allora è necessario eliminare il problema", ma si riferiva evidentemente a problemi di natura individuale. La condivisione e l'identificazione culturale sono il collante sociale fondamentale di un Paese, e possono essere realizzate in modo certamente più indolore di come la scuola vorrebbe continuare a fare con metodi che erano adeguati alla società di due o tre generazioni fa. Come ad esempio pensando di poter trasferire le proprie idee di bello, di buono ed utile, associate a determinati contenuti, a studenti che dovrebbero acquisirle belle e pronte, con gli stessi sensi e significati che forse lo stesso docente non ha ancora pienamente elaborato. Con tutta l'abnegazione, la buona volontà del mondo, ciò non è possibile perché contrario all'asserto fondamentale della pedagogia: che la conoscenza e la consapevolezza sono costruzioni individuali mediate dal dialogo sociale. Rifiuto l'idea che l'istruzione si possa snaturare per consentire ai delusi dell'insegnamento di avere davanti solo studenti desiderosi di seguire le orme del loro amato docente.
Credo che il mio insegnamento può essere utile e positivo qualunque siano gli ideali di vita dei miei studenti, altrimenti sto compiendo un errore, una riduzione. Ad esempio, l'imparare cosa significhi conoscere e comprendere, risolvere problemi, arrivare a capire che anche questo può essere buono e bello, oltre che utile, non possono essere acquisizioni destinate solo ad uno spaccato della società. La scuola può avere margini di successo nel dare questi strumenti a tutti. E dobbiamo farlo, a meno che non pensiamo che la cultura della comprensione, di E. Morin, per intenderci, sia accessibile solo per chi deve comandare (magari fosse, mi viene da pensare) o, peggio, che sia sostituibile dal sentimento religioso come unico capace di raggiungere tutti gli uomini.
Rifiuto l'idea che la scuola non sia modificante e serva anzi per cristallizzare ogni giovane in età evolutiva sul suo progetto di vita, qualunque esso sia, cioè sul suo contesto sociale, sul proprio micromondo.
Liberare un giovane implica sì capire che questa scuola non sta funzionando, ma anche poi dare a tutti, giovani e meno giovani, gli strumenti fondamentali per comprendere e scegliere sempre, non una sola volta nella vita.
Il mio accanimento è meno folle di quanto molti pensano, il mio compito è dolce, perché vedo che studenti che hanno i più disparati interessi, quando riesco comunque a ingaggiarli, quando si accorgono che la loro testa funziona, cambiano la luce nei loro occhi. Ma ciò accade solo se e quando riesco ad andare oltre il mio sentimento di insoddisfazione. Se non ce la facciamo, da soli, a gettare la frustrazione dietro le spalle, alleiamoci, cominciamo ad unirci, rimboccarci le maniche e agire per riuscire dove altri hanno fallito. Ma non buttiamo a mare i "non studianti" o i "chattanti", che sono i soli che possono darci qualche vera soddisfazione. E quante cose c'è da imparare per gli studianti della prof.ssa Mastrocola!
Adesso sono entusiasta dei modelli emergenti, un'idea promossa da diversi anni da J.Novak e A. Cañas. Sto cercando di metterla in pratica e di adattarla a tutti i miei precedenti studi e sperimentazioni, con e senza mappe concettuali.
I miei tentativi si possono trovare ad esempio in questo documento condiviso.
Rifiuto di basarmi su una vana speranza: "...con la speranza che la scelgano in tanti e che la cultura non abbandoni la nostra vita)", riferita alla scuola "per lo studio, quella per gli albatros, isolati, diversi, portati allo studio e negletti".

giovedì 3 marzo 2011

Il giorno dopo del collegio docenti

Perché non vorrei firmare ancora nessuna mozione in difesa della scuola pubblica


Non mi basta la convinzione che la scuola pubblica sia migliore e più democratica di altre scuole confessionali e/o rivolte a famiglie benestanti. Non mi basta la convinzione che nella nostra scuola, tra i nostri colleghi, ci siano, individualmente, le migliori esperienze e professionalità di tipo specificamente educativo reperibili sul “mercato”. Non mi accontento della convinzione che solo nella nostra scuola resista e sia profondamente e culturalmente radicato, contro tutte le derive “materialiste” e “moraliste”, così dominanti tra giovani e rispettive famiglie, il valore superiore della conoscenza. Mi manca che per trasformare queste potenzialità in una scuola realmente migliore, per avere “i numeri” per poter difendere la scuola pubblica, occorre avere una visione chiara e condivisa di quali problemi ci vengono posti non dalle sprezzanti dichiarazione di chi ci governa, non dalle scuole private, ma dall’evidenza dei cambiamenti sociali, dalla maggior consapevolezza diffusa, anche fuori della scuola, di che cosa significhi oggi essere “competenti” e, se vogliamo, dall’Unione Europea che in realtà non fa altro che recepire tali necessità e stimolarci a guardare in avanti.
Rendere più competitiva la scuola “pubblica” significa oggi “dare” più competenze. È chiaro che cosa siano le competenze; dal collegio ho avuto la netta impressione che ciò fosse chiaro e questo è un notevole passo avanti rispetto al passato. Saper affrontare autonomamente situazioni nuove che comportino scelte, decisioni, consapevolezza nel recuperare opportune e significative conoscenze utili e, proprio per questo, non inerti. In poche parole risolvere problemi autentici, non standardizzati. Sappiamo che questo genere di abilità è tipico di chi ha esperienza in un campo, cosa che dai nostri studenti non si può pretendere. E sappiamo anche che l’avere esperienza di buon livello in un dato settore non aiuta neppure gli adulti esperti a risolvere problemi in un settore diverso e per loro nuovo. Queste due ovvietà ci dicono che una scuola basata sulla risoluzione dei problemi, sull’interpretazione di testi, sulla ricerca del significato, non sia fattibile con studenti normali. A causa di questo facile equivoco ci troviamo a insegnare sistemi formali e contenuti prima del loro scopo, prima dei contesti reali, prima che possa esserci una ragionevole speranza che un alunno “concreto” possa capirne il senso. Abbiamo vissuto personalmente la stessa esperienza di inversione pedagogica e riteniamo che essa sia la cosa migliore: “prima impara, poi saprai applicare, quindi capirai”. Anche i nostri studenti preferiscono in genere che il compito consista solo nella prima parte e temono la seconda. Non mi riferisco alle applicazioni pratiche, ma all’essere competente in senso generale, che è diverso da “ben addestrato”. Anche professionalmente parlando, il compito di insegnare contenuti è in principio più facile: oggi studi, domani dimostri di “possedere” un contenuto. Domani non possiedi il contenuto: prendi un votaccio. È dipeso dallo studio, la prossima volta ti basterà studiare e recupererai il votaccio. Tutto ciò è estremamente semplice. Eviterò di approfondire perché in cotanta semplicità ci rientri una minoranza dei nostri studenti. Ciò che ora è importante chiarire è che per imparare a risolvere problemi, per acquisire competenze, per imparare a interpretare testi e ad argomentare criticamente, lo studio, specialmente quello individuale, non funziona. L’unico modo di imparare a risolvere problemi consiste nell’avere problemi, recepire la loro natura e cercare di risolverli; per imparare ad argomentare occorre avere occasioni di scrivere ed esprimere il proprio pensiero e di vedere come questo è letto, interpretato da altri e riaggiustarlo. Per diverse ragioni, alcune ovvie le ho accennate, tutto ciò non è possibile farlo da soli. Quindi esistono le classi, gli insegnanti, le comunità di apprendimento… la scuola pubblica del futuro, che non è né quella attuale che vogliamo difendere senza cambiare nulla, né tanto meno quella del passato che alcuni di noi vorrebbero restaurare.
La parte più difficile consiste nel riconoscere la natura di un problema e l’insegnante potrebbe facilitare questo compito. Si tratta di acquisire la percezione delle variabili, capire dove ci si trova, dove si deve arrivare, quindi vedere l’ostacolo, comprendere il problema. Se si è aiutati ciò può avvenire anche senza una grande esperienza. Aiutare nel migliore dei modi, per me significa porsi più vicino al livello degli studenti, senza paura di apparire incompetenti. È naturale che ciò accada quando in classe o in laboratorio si affrontano problemi reali, nuovi anche per noi e – vi posso assicurare – i ragazzi non mi considerano incompetente quando lo faccio. Ciò che conta è che i ragazzi percepiscano la nostra curiosità ed è ovvio, pertanto, che noi si debba averne. Una volta compreso il principio che anche gli inesperti possono, in questa maniera, con questo genere di guida, imparare una disciplina, costruire significati e risolvere i problemi usando la disciplina, rimane il problema della valutazione. Non possiamo utilizzare la minaccia del voto per far sì che i nostri studenti vincano la paura di non essere all’altezza, di non riuscire, accettino la sfida della conoscenza e si impegnino in essa. La minaccia del voto può servire per “sciupare” mezzora del proprio tempo a imparare una cosa certa, che sarà richiesta con certezza nella verifica giorno dopo piuttosto che stare mezzora su Facebook, o fare un’altra attività d’interesse. Per la maggior parte dei ragazzi lo studio autonomo non è affatto sufficiente ad acquisire le competenze. Svolgere attività autonome e anche collaborative che siano la prosecuzione delle lezioni centrate sui problemi, questa costituisce una strategia qualitativamente diversa perché è di tipo collaborativo. Il metodo di verifica e valutazione penalizzante l’insuccesso è legato al modello di studio-insegnamento finalizzato al possesso di contenuti. Il più comodo da insegnare e da studiare. Ma il meno rilevante per moltissimi studenti. E il meno utile alla società, all’umanità, che necessita sempre più di individui capaci di riflessione e comprensione. Il nostro problema –secondario- consiste nel trovare il modo di valutare in modo umano il coinvolgimento, l’apprendimento e infine il rendimento in termini di competenze acquisite, senza penalizzare gli insuccessi ma, eventualmente, dopo attento esame delle situazioni, dopo aver compreso le reali cause dell’insuccesso, dopo un’autovalutazione dello studente, penalizzando la mancanza di impegno. Queste sono le condizioni al contorno perché si possa affrontare e risolvere il problema primario: il recupero della curiosità, del valore della conoscenza , l’ingaggio di tutti nei problemi, senza snaturare le discipline che insegniamo, senza riempire l’istruzione di inutili progetti.
Se esiste tra noi la volontà di difendere un’idea del genere di scuola futura che non tema competitori, da stupidi attacchi, allora sono disposto a firmare mozioni di difesa che parlano della nostra dignità.
Alfredo Tifi

martedì 11 gennaio 2011

dalle espressioni verbali alle mappe concettuali

Approfitto del mio blog quasi abbandonato per stendere una specie di sintesi dello stato attuale del mio personale modello educativo costruttivista in fase di realizzazione e rivolto al futuro immediato.
I termini sono generali, poi le tecnologie possono essere individuate.

1. il punto di partenza dell'approccio costruttivista non sono i concetti singoli ma le espressioni orali spontanee, con i loro "accavallamenti di idee", così come nascono da discussioni in classe, magari improntate alla risoluzione di un semplice problema. Queste espressioni devono essere immediatamente catturate, letteralmente e in forma scritta, quindi analizzate (punto 2)

2. L'analisi deve far sì che le idee accavallate siano distinte, riformulate sotto forma di proposizioni complete e l'introduzione di termini scientifici che, essendo nuovi, faticano ad apparire nel linguaggio naturale della comunità. Le proposizioni, che rappresentano il passaggio graduale dal linguaggio spontaneo al linguaggio con i concetti scientifici, sono rilette e riscritte rigirate e ricombinate in modi diversi, in una specie di "gioco" del linguaggio. Grazie al gioco del linguaggio prolungato è possibile imparare a usare in modo sensato e dinamico i concetti ad un livello di efficienza che sarebbe impensabile ottenere costruendo mappe concettuali. Manca però la consapevolezza epistemologica, che non si può ottenere da questo tipo di pratica.

3. Questo tipo di consapevolezza deve essere costruito prima come mappe mentali (non intendendo quelle sulla carta o al computer, ma quelle nella testa, nella mente). Come? modificando il gioco del linguaggio in modo da richiedere che cosa è collegato a che cosa, o quale proposizione viene prima e quale viene dopo, come conseguenza, il "gioco dei perché", ecc. Ci si accorgerà che nel fare ciò non si partirà da zero, ma che molte delle proposizioni erano già state connesse e gerarchizzate spontaneamente dagli studenti durante gli esercizi col registro linguistico base della disciplina. Si tratta semplicemente di recuperare in termini di consapevolezza tutti i collegamenti strutturali necessari ad avere una visione globale della materia o, per l'esattezza, di un dato dominio della materia.

Per come è strutturato il linguaggio umano, il senso non è portato da singole parole, e ciò che avviene spontaneamente non è la formazione di connessioni tra concetti (dotati di significato ma non di senso), ma piuttosto lo stabilirsi di connessioni tra proposizioni (comprensive di senso e di concetti).

Ovviamente una disciplina (es. la chimica) può essere dotata di un proprio linguaggio specifico altamente logico e simbolico e anche concreto-manipolativo, esperenziale.
Il docente dovrà evitare che tali linguaggi "interni", simbolici, tecnici, iconici, pittografici, ecc., dominino le pratiche disciplinari e dovrà curare che ogni tipo di discussione sia ritradotta nel normale registro scritto-orale. Evitare dunque l'oggettificazione dei segni e dei simboli, come normalmente si fa in matematica e nelle materie scientifiche. Quindi la principale innovazione da fare nell'insegnamento delle materie scientifiche non consiste nel fare più laboratorio o nell'usare più tecnologie, ma nel rendere l'insegnamento-apprendimento di queste materie più dipendenti dal linguaggio e più simili alle materie umanistiche. Praticamente la "scoperta dell'acqua calda".

PS: il punto 3 è più complesso di quello che pensavo. Ci sono differenze qualitative rilevanti tra la capacità di mantenere significati costruiti usando le stesse strategie su argomenti simili in primo (quattordicenni, nessuna stabilità) e in terzo (sedicenni, discreta stabilità nel medio termine) o in quarto. Ciò meriterebbe un'indagine più approfondita. Forse Vygotsky viene in aiuto nello spiegare questa differenza come risultato della transizione ancora non teminata dalle struttire di generalizzazoine per complessi a quella per concetti scientifici. Occorre comunque un modello più specifico per adattare la strategia dei giochi linguistici al biennio.

4. Una volta che si comincia a costruire il sistema nella mente, lo studente potrà rendersi conto di lacune e incoerenze, sarà in grado di utilizzarlo per formulare un ragionamento nuovo. Pertanto la fase successiva è l'utilizzo dei concetti scientifici appena conquistati per risolvere veri problemi, per affrontare casi.

Questi sono i presupposti indispensabili per poter raggiungere una comprensione profonda degli argomenti disciplinari per tutti, cosa non più opzionale nell'educazione secondaria moderna. La presenza di tale tipo di comprensione è riconoscibile in tante forme: capacità di produrre argomenti, capacità di affrontare problemi nuovi, capacità di riconoscere l'esistenza di problemi e accorgersi di difetti nei testi e nelle impostazioni di fonti esterne, capacità di ricostruire l'essenza di un testo quando questa non è esplicita. L'apprendimento significativo (dei significati e della loro struttura) in sé non è affatto sufficiente per questo tipo di prestazioni. Esso è perfettamente compatibile con un approccio "accettativo" alla conoscenza, cioè opposto a quello critico richiesto nella comprensione profonda.

5. A questo punto la mappa concettuale può essere costruita a) per aiutare a gestire la complessità della struttura dei significati, b) per favorire il confronto tra diverse epistemologie elaborate da diversi studenti, c) per facilitare l'integrazione della cultura costruita localmente con gli artefatti culturali esterni alla comunità di apprendimento. Ma in ogni caso si deve partire dalla convinzione che la mappa concettuale 1. non è il punto di arrivo e 2. non sarà mai rappresentativa di tutto ciò che si conosce e si sa fare grazie alla competenza nell'utilizzo del linguaggio disciplinare nei diversi e numerosissimi contesti che si presentano in una disciplina.

Il programma è chiaro e da me già testato con un certo successo, in un anno di lavoro, in cui ho ottenuto studenti in grado di parlare di chimica organica certamente meglio di altri gruppi precedenti. Alla fine di un percorso, iniziato da molto prima, ho raggiunto una certa consapevolezza (derivata non solo dall'esperienza sul campo, ma dalla lettura approfondita di autori di riferimento, tra cui soprattutto Vygotsky) di ciò che è accaduto, di ciò che andava fatto e che ho fatto e del perché deve essere fatto.

Le tecnologie, come possono aiutare, semplificare, le diverse fasi? A suggerirci come fare ciò che va fatto?

lunedì 28 giugno 2010

Personalizzazione si può

logo_Seminario_ADIAnche quest'anno molti alunni sono risultati bocciati e sospesi. Tutto nella norma? È pur vero che le differenze nelle condizioni in ingresso dei ragazzi sono stratosferiche ma, in sostanza, non si fa che "ratificarle". Il modello di insegnamento a "catena di montaggio" è adeguato a tale eterogeneità? Conosciamo le reali difficoltà e le reali potenzialità dei ragazzi? Risposte dell'ADI al seminario "Perché mi bocci?" svoltosi a febbraio e al seminario "Personalizzazione si può" di agosto.

Sui concetti di varianza (eterogeneità), personalizzazione, modelli di scuola, che emergono come aspetti cruciali nei due seminari ADI, riporto alcuni brani da Benedetti Vertecchi, La Scuola Disfatta, Franco Angeli, pagg. 44-46 (citazioni in corsivo).

In relazione ai test OCSE-PISA che vedono la scuola italiana in fondo alla classifica rispetto alle scuole del nord Europa - anche per l'elevata eterogeneità tra allievi e tra scuole (es. nord-sud):
"Si può dichiarare che scopo della scuola è di assicurare a tutti il conseguimento di un certo repertorio di competenze, ma se avviene che in talune scuole tale repertorio sia stato effettivamente conseguito dalla grande maggioranza degli allievi e in altre no non si può non inferire che sui risultati dell'educazione scolastica hanno inciso variabili di origine non scolastica, nei confronti delle quali le iniziative di contrasto siano state assenti o comunque troppo deboli."

Relativamente al circolo virtuoso tra scuola e società, che richiede secoli e non decenni per instaurarsi (quella che in Italia riteniamo essere "l'istruzione di sempre" in realtà ha pressappoco la nosta età, per cui è giovanissima):
"La Finlandia può vantare una scolarizzazione assai più radicata nel tempo, che si traduce in un contesto sociale molto più favorevole all'istruzione"
Affermazione che si può proseguire dicendo che l'istruzione migliore e più uniforme costituirà una società migliore e con aspettative culturali maggiori e a loro volta più uniformi, come di fatto accade oggi in Finlandia, dove non ci sono "scuole d'eccellenza" né per risorse disponibili, né per risultati, ma dove, quindi, tutta la scuola è d'eccellenza.


"I dati ora diffusi mostrano che in Italia sta cambiando il modello di scolarizzazione, che da solidale tende a diventare competitivo (come, per esempio, quello degli Stati Uniti). I sistemi competitivi si caratterizano per la differenza accentuata tra la parte superiore e quella inferiore della distribuzione. Nel nostro caso, si sta sfrangiando solo la parte inferiore, mentre non ci sono segni che indichino miglioramenti verso la parte alta della distribuzione: è come dire che siamo in presenza di una competizione imperfetta, in cui le differenze aumentano solo perché peggiorano le condizioni degli studenti più deboli. [...] la crescita della scuola in Italia ha costituito un fenomeno abbastanza recente [...] ne deriva che il profilo culturale della popolazione italiana appare ancor oggi fortemente differenziato [...] Una conseguenza delle differenze di profilo culturale presenti nella popolazione è costituita dal fatto che, nella maggioranza dei casi, i ragazzi che frequentano le scuole secondarie vivono in un contesto famigliare di livello culturale modesto (mediamente, i genitori dei ragazzi che frequentano attualmente le scuole secondarie superiori dispongono di una licenza di scuola media). [...] Un modello di scolarizzazione solidale tende a modificare complessivamente il livello culturale della popolazione, favorendone l'accrescimento graduale. La maggiore attenzione è posta nel sostenere quegli allievi che, fruendo di condizioni meno favorevoli, incontrano maggiori difficoltà. Se si passa ad un modello competitivo, l'attenzione prevalente si sposta verso la parte più favorita della popolazione: in altre parole si rinuncia a perseguire un disegno di modifica complessiva del profilo culturale, perché si ritiene che sia socialmente preferibile avere una fascia di rendimento elevato. Il fatto è che il passaggio da un modello solidale ad uno competitivo non è praticabile, se non per fasce molto ristrette di popolazione, quando il livello culturale diffuso è modesto; si rischia infatti di ottenere la stessa stratificazione culturale già presente nella popolazione. E non serve qui ricordare che le esigenze di sviluppo della società italiana richiedono che frazioni ben più consistenti di quelle attuali dispongano di competenze di livello superiore. [...] attraverso l'educazione si contribuisce ad affermare l'identità dei paesi virtuosi."


Come realizzare l'intervento specifico sugli studenti più svantaggiati? Attualmente gli atteggiamenti della classe docente sembrano oscillare solo tra due non-soluzioni, ugualmente sbagliate. Quella del "promuovere" l'insuccesso (buonismo?) e quella di bocciare il fallimento, spesso predestinato (giustizialismo? meritocrazia "imperfetta"?) Ciò che accomuna entrambe le pseudosoluzioni è l'incapacità di apportare modificazioni reali negli allievi con difficoltà. Non è affatto sufficiente il "non trascurare gli allievi con difficoltà" del codice deontologico dell'ADI (art. 27). Il paragone con l'ospedale è ancora una volta appropriato: per problemi speciali occorrono diagnosi precise e cure speciali, somministrate da specialisti. Occorrono poi condizioni di contesto idonee (divisioni, reparti, strutture, organizzazioni) e non ammucchiare tutti nella stessa routine.
Se abbiamo ragazzi con serie difficoltà nel fissare per iscritto un ragionamento o nel ricavare almeno qualche informazione dalla lettura di un testo, e capaci solo di rispondere a comandi verbali, dobbiamo prima riconoscere e poi prendere atto di tali differenze qualitative e sottoporre gli illitterati a programmi specifici che li mettano in grado di trasformare segni e simboli in significati, e non lasciarli in un contesto scolastico in cui gli stessi testi e gli stessi compiti siano utilizzati sia per chi è in grado di tradurli in significati, sia per chi non è (ancora) in grado di farlo.


L'eterogeneità nella scuola si abbatte con la personalizzazione degli interventi educativi, cosa non realizzabile se vi si trovano solo "bravi medici generici" e un'organizzazione indifferenziata. Si parla tanto di qualità... appunto: si parla!

Prof. Alfredo Tifi

L'orale all'esame di stato e la crisi del pensiero produttivo

Concetti, nozioni o processi: cosa vogliamo, sappiamo, dovremmo verificare - accertare?

Basta assitere ad uno o due esami orali per rendersi conto che, tesina a parte, le domande sono riconducibili al "vediamo se sai...", o: "vediamo cosa mi sai dire su..." e: "cosa significa..". o: "perché la tale cosa..."

In pratica agli esami si chiede ciò che lo studente potrebbe non sapere, come in una specie di interrogatorio, in cui si indaghi sulla qualità e quantità della "preparazione" individuale.
Esiste un'alternativa più giusta e più ricca di informazioni utili: chiedere ciò che egli sa in quanto frutto di un suo lavoro personale. Purtroppo questo non può essere fatto ora, senza un tempo di preparazione di due o tre anni, senza aver scelto di dare all'istruzione e ai nostri studenti un'altra impronta.

Gli studenti si bloccano, all'orale, perché non sanno "quella" cosa, più spesso perché non comprendono cosa viene loro esattamente richiesto in quel momento (l'idea che sta nella mente dell'esaminatore) o perché ciò che è stato richiesto è noto all'esaminando solo sotto altri punti di vista.
Insomma lo studente deve adattare "se stesso" a ciò che viene richiesto dall'esaminatore, il quale deve solo accertare il grado di rispondenza e, nei casi peggiori, il grado di "lontananza" dello studente da sé, dalla materia che egli rappresenta.
D'altra parte in un esame orale non si potrebbe profilare un rapporto di avvicinamento dell'esaminatore al pensiero dello studente nel senso di interazione e mediazione finalizzata a modificare le conoscenze del candidato (come accade normalmente nelle verifiche formative, durante l'anno scolastico). Quando ciò si verifica all'esame, serve solo a sottolineare l'inadeguatezza della preparazione dello studente.

Le critiche

Questo tipo di esame orale è profondamente sbagliato e rivelatore del malfunzionamento dell'istruzione.
Esso tende a verificare la sovrapponibilità della preparazione con un syllabus convenzionale che si dà per condiviso e universale.
In realtà non esiste tale syllabus universale e non si può pretendere (anche se ci trovassimo in un sistema scolastico di vecchio stampo) che debba essere condiviso.

La domanda del tipo: "vediamo cosa mi sai dire su..." è meno restrittiva e minacciosa di "vediamo se conosci...", ma comporta implicitamente un errore: "l'argomento che ti richiedo è della massima importanza; ciò che tu mi dirai dovrà essere il più possibile rispettoso del sapere universalmente stabilito su questo argomento". Insomma: "con ciò che dirai dovrai mortificare il meno possibile la conoscenza ufficiale esistente su questo argomento e la mia funzione qui è di controllare che tu lo faccia."
L'errore (la critica) non ha a che fare, come si potrebbe pensare, con il giogo imposto dal confronto col sapere ufficiale. Piuttosto il fatto che non conti ciò che lo studente è capace di produrre (o è stato capace di produrre in passato), in prima persona, intorno o relativamente a un tema, ma ciò che egli è in grado di riprodurre di quanto acquisito dalle fonti.

Se invece chiediamo "cosa è l'entalpia" o "cosa significa..." o "perché mettiamo qualche cosa in uno strumento", significa che vogliamo accertare la comprensione semantica, concettuale, e funzionale di alcuni termini e oggetti che riteniamo giustamente fondamentali in una disciplina e, altrettanto giustamente, determinanti per la formazione di una valutazione. Ma facciamo ciò soltanto per una percentuale infima del "bagaglio" disciplinare, per cui la cosa non ha molto senso rispetto all'obiettivo valutativo. D'altra parte l'obiettivo di verificare la comprensione degli elementi fondamentali di una disciplina potrebbe essere facilmente, uniformemente e validamente raggiuno con appositi test (e/o ci aspettiamo che sia stata già ampiamente valutata durante il triennio: perché non fidarsi, per questo, di quanto già fatto dalla scuola? Solo la scuola può essere garante delle valutazioni che ha elaborato; o preferiamo siano dei commissari-ispettori a controllare l'operato delle scuole?)

Che cosa succederebbe se un candidato o un docente esterno alla commissione ponesse una domanda qualsiasi all'esaminatore sulla materia comune? Possiamo essere certi che non avremmo mai situazioni imbarazzanti analoghe a quelle in cui si trova il candidato? Quanto le conoscenze di due docenti, anzi, due cultori della stessa materia, sono fedelmente sovrapponibili?

Infine: cosa rimane, nella cultura del candidato, di quanto preparato appositamente in funzione dell'esame, tre mesi o tre anni dopo l'esame?

Immagino che molti vorranno respingere queste critiche sia perché esse includono praticamente tutto ciò che normalmente si fa all'orale, sia perché non si ha esperienza alcuna di possibili conduzioni alternative dell'esame stesso.

Perciò suggerisco di rimandare la reazione istintiva di eccepire alle critiche, a dopo la lettura del seguente scenario d'esame - altrettanto naturale - tramite il quale spero di chiare le modalità alternative, il loro scopo, e le implicazioni a monte nell'istruzione.

L'allievo X è impegnato nel colloquio orale della materia Y, col prof. Z.
Dimmi X, qui vedo nel tuo portfolio questa tua applicazione sull'argomento Y' da te svolta in quarto e poi perfezionato in quinto. Potresti raccontarmi che cosa hai scoperto su questo argomento-ricerca-approfondimento, e come? attraverso quali fonti e quali esperienze personali? Magari potresti dirmi poi perché ti sei avvicinato ad esso e, infine, quali concetti della disciplina Y sono entrati in gioco e in che modo?
La stessa cosa poi si ripete con altri docenti in altre materie.
La commissione si riunisce per valutare il grado di padronanza, autenticità delle applicazioni descritte, dei processi e capacità di argomentazioni che lo studente è in grado di attuare, assistita dai commissari interni che conoscono meglio la storia dell'alunno e, in base a tali evidenze, stabilisce in che grado lo studente è divenuto "cultore" della disciplina e quanto strutturate/marginali siano le competenze utilizzate rispetto ai nuclei disciplinari in ciò che egli ha prodotto (anche se non autonomamente), ma è in grado di padroneggiare individualmente.

Ritengo che tale tipo di esame sia molto più indicatore dello spessore culturale di un alunno, che sia capace di fornire il giusto rilievo agli esiti veramente importanti, e non valutabili nelle prove scritte, di un lungo percorso di istruzione; riconoscendo i processi di accesso alla e fruizione della conoscenza che l'allievo ha costruito con adeguato training durante gli anni di scuola; approccio alla conoscenza ed abilità di processo che saranno, queste, importanti per tutta la vita.
Ritengo che questo tipo di esame sia anche facile da realizzare, con studenti aventi normali capacità, che però sarebbero resi differenti dagli attuali, da tutta la necessaria preparazione precedente.

La preparazione precedente
  1. In ogni materia del triennio ogni studente dovrebbe produrre una o due applicazioni-approfondimenti-studi di casi ecc., per ogni anno, ed eventualmente due in quarta e due in quinta.
  2. Questi lavori potrebbero essere svolti anche in collaborazione con altri studenti della stessa classe, o anche di classi diverse.
  3. I lavori potrebbero avere un utilizzo immediato come ad esempio progettazione di attività di laboratorio o opere da realizzare nella didattica coinvolgendo la classe.
  4. I lavori dovrebbero originarsi da problematiche o stimoli interni alla disciplina, e sia i docenti, sia gli studenti dovrebbero essere vigili e propensi a proporre e individuare sviluppi del materiale curriculare partendo dagli stimoli sempre presenti nelle discipline e nelle loro applicazioni (ciò sia per il rispetto stesso delle discipline insegnate e del loro valore culturale).
  5. I lavori sarebbero obbligatori e nel portfolio sarebbe riportata la cronologia della loro realizzazione e la valutazione.
  6. La valutazione dovrebbe esprimere il grado di coinvolgimento e revisione personale, basata sui rilievi dei pari, dell'insegnante e personali, l'attinenza disciplinare e una volta completato, di padronanza espositiva (la capacità dell'allievo di argomentare quanto da egli stesso presentato). La valutazione dovrebbe essere espressa, su ciascuno di questi parametri, su una scala a tre valori, di cui il primo e secondo sarebbero accettabili e il terzo indichirebbe l'insufficienza.
Ovviamente lo studente saprebbe che all'esame di stato il suo portfolio sarebbe esaminato e in parte richiesto oralmente, permettendogli una valutazione complessiva fino 30 punti, cioè più di quelli ottenibili con il credito scolastico.

A cosa potrebbe servire tutto ciò?
1. riportare la curiosità tra i banchi di scuola;
2. introdurre una componente di personalizzazione nell'istruzione;
3. abituare gli studenti a produrre, piuttosto che sempre riprodurre;
4. fornire a tutti l'opportunità di fare la conoscenza con la comprensione profonda, almeno su alcuni argomenti disciplinari o correlati alle discipline;
5. rivalutare il valore di riferimento culturale e strumentale delle discipline, aventi esistenza indipendente da quanto proposto da un singolo insegnante e da un singolo manuale (opponendosi alla tendenza a identificare la materia con l'insegnante o, nella migliore delle ipotesi, con il libro di testo scolastico);
6. responsabilizzare gli studenti nei confronti dello studio come progetto di sviluppo personalizzato.

Le implicazioni per i docenti e la scuola
L'insegnamento delle discipline dovrebbe maggiormente focalizzarsi sulle basi costitutive, sui linguaggi e sui loro significati, per permettere l'accesso basilare a tutti.
Le applicazioni rispetto all'attuale dovrebbero essere limitate per consentire lo sviluppo dei lavori personalizzati (a differenza delle cosiddette tesine e progetti extracurriculari, che si vanno a sommare al lavoro dello studente, finendo spesso con l'interferire e per l'essere realizzabili in modo completo solo per una parte degli studenti).
La capacità di composizione del testo scritto, della lettura con comprensione dovrebbero essere esercitate in tutte le materie, compresa la matematica, e non solo in Italiano.

sabato 27 giugno 2009

Progetto INVALSI: più supporto pedagogico alle scuole e meno statistica

Progetto meritocratico di Valutazione INVALSI del valore aggiunto

http://www.lavoce.info/binary/la_voce/articoli/invalsi_pro_111.1245760092.pdf

Non mi sembra un buon sistema ed ho molte riserve su di esso.

Come insegnante dovrei avere la possibilità, un’occasione di riflessione e di un luogo per poter esprimere le riserve.

L’idea del valore aggiunto non mi sembra sufficientemente rispettosa della singolarità delle vite dei singoli studenti e anche di quella dei singoli insegnanti.

Inoltre il singolo risultato in termini di valore aggiunto, per quanto messo in correlazione con alcuni parametri socioeconomici facilmente ottenibili, non credo riuscirà mai a cogliere il risultato sperato, cioè di misurare la qualità dei team di docenti che si sono succeduti o dell’efficacia del sistema scuola verso quel singolo alunno. Anche in termini di tendenza centrale, ho dei dubbi che dalla somma di tanti artefatti, tanti valori aggiunti assegnati a tanti allievi, si possa ricavare un indicatore valido, cioè ripulito da ogni effetto di contesto, per quella scuola o per quel docente - team di docenti.

Mi pare che la semplificazione sia eccessiva … e forse non necessaria.

Critico lo scopo di tutto questo impianto, cioè quello di poter riuscire a premiare, cioè incentivare meglio scuole e docenti.

I docenti hanno bisogno di essere osservati e aiutati da esperti a capire cosa va o non va nelle relazioni educative specificamente messe in atto qui ed ora, senza temere ripercussioni negative future e che sfuggono al loro controllo.

Non credo che i docenti abbiano bisogno di misurare se stessi e nel contempo fare da cavie in un esperimento statistico che invece di osservare e aiutare le professionalità pretende di inferirle a posteriori.

Forse anche gli alunni avrebbero diritto a una valutazione in tempo reale piuttosto che una a posteriori, “a danno compiuto”.

Il modello soggiacente è questo:

Siamo certi che voi avete le professionalità necessarie e sufficienti per ottenere risultati ottimali e comunque non vogliamo entrare nel merito. Se però tali risultati non si ottengono è perché voi non siete sufficientemente valutati, differenziati e soprattutto incentivati affinché tutte le risorse di cui disponete siano realmente messe in campo. Quindi adesso noi mettiamo in atto il miglior sistema del mondo per valutare, dagli effetti, dalle condizioni iniziali e al contorno, qual è il vostro reale impatto sull'apprendimento. Siatene consapevoli. Starà a voi darvi da fare.”

Quale potrà essere la risposta a questo?

  1. Il problema pedagogico di ciò che manca a livello di formazione docente verrà messo da parte
  2. A livello organizzativo ogni scuola effettivamente farà dei passi avanti. Dei servizi utili verranno messi a disposizione da bravi manager anche a parità di investimenti e risorse, sulla base della competitività. Per paura di una perdita di iscritti la logica aziendale troverà volontari per miglioramenti quantitativi e a buon mercato, che potranno portare a un incrementare il “valore aggiunto” di una scuola, ma non potranno portare al miglioramento qualitativo della formazione per ogni singolo studente.
  3. Non ci saranno né il tempo per insegnare ad ogni studente a pensare meglio né le risorse per formare ogni docente a lavorare con metodi migliori nelle classi, risorse per formare alcuni docenti come esperti di apprendimento e difficoltà di apprendimento. Ma tutti si daranno un gran da fare per imparare a risolvere i quesiti nazionali dell’INVALSI. Non sempre in maniera onesta (cioè basta su processi di problem solving generali, ma bensì sulla classificazione per tipi e sulla ripetizione meccanica, cioè sull’addestramento). Usciranno appositi manuali da parte dell’editoria scolastica, e questi diventeranno più importanti dei libri di testo, mentre gli stessi libri di testo si omologheranno alle prove strutturate INVALSI nella scelta di temi esempio. Dopo un po’ l’INVALSI non saprà più che cosa inventarsi (con i test OCSE-PISA questo non accade perché sono inediti). Non sono d’accordo sul punto D-31: “Se le domande sono fatte bene, esercitarsi a rispondere significa apprendere. L'inferenza è indebita, perché potrebbe essere fatta, semmai, solo dopo aver accertato il trasferimento delle abilità acquisite in contesti sufficientemente diversi, cosa che non può essere fatta immediatamente e all'interno delle stesse tipologie di test, né può essere fatta in modo asoggettivo. Che ciò possa avvenire o meno dipende da cosa si intenda per esercitarsi. Se ci sarà un mediatore competente dell’apprendimento, sarà possibile costruire i principi generali specificamente utili e necessari a quel dato soggetto e potenziare le sue sue funzioni cognitive carenti, e allora sarà concepibile il transfert. Quindi il saper risolvere tipologie di problemi, per quanto queste siano generali, di per sé non implica il raggiungimento degli obiettivi formativi che si pretende di misurare. Questo aspetto è piuttosto grave: si pensa che si possano migliorare microsistemi educativi senza avere ipotesi e teorie su di esso, semplicemente per tentativi ed errori. Questa è la scuola dei quiz della patente, non la scuola fatta da professionisti. La filosofia determinista "etichettatoria" che soggiace a tutto l'impianto è inaccettabile.
  4. La scuola degli artefici e protagonisti della cultura e della libertà di insegnamento diventerà la scuola della "preparazione al valore aggiunto", dove saranno le scadenze delle prove INVALSI a decidere quale metodo sarà più opportuno da usare per gli alunni di ogni fascia di età, piuttosto che l’esperienza professionale accumulata in anni di insegnamento e le conseguenti scelte individuali. Si andrà così verso un’omologazione.

Non credo che noi abbiamo bisogno di tutto questo. Di cosa c’è invece bisogno?

Di test tipo quelli dell’OCSE – PISA, ma fatti da campioni di studenti in ogni scuola, su più fasce di età, come da scadenze previste dall’INVALSI. Ma solo una volta ogni tre-quattro anni. Non occorrono i differenziali e valutazioni evolutive e contestualizzate con precisione forse impossibile da ottenere. Sono sufficienti valutazioni in senso assoluto dello stato dell'arte dell'apprendimento alle varie fasce d'età in ogni scuola. Il confronto tra dati triennali o quadriennali, non individuali ma complessivi, sarebbe sufficiente per far sì che ogni istituto che lo voglia veramente possa comprendere, progettare e aggiustare il tiro. I risultati costituirebbero uno strumento utile per costruire la consapevolezza nazionale e a livello d’istituto, di ciò che va e non va nelle competenze di processo degli alunni di tutte le età, per costruire delle task force e progetti formativi e professionalizzanti per i docenti che, riconoscendo di non essere adeguati ai nuovi compiti, sarebbero sì incentivati a formarsi e impegnati a supportare le necessarie revisioni dell’impianto metodologico a favore di tutti. Se vedo che molti alunni di 15 anni non fanno neppure un tentativo per trovare la linea più breve per collegare cinque città su una mappa tra di loro, sinceramente non mi interesssa quanto sapessero fare o meno tre anni fa e con chi, ma mi chiedo se ritengo accettabile la totale assenza di capacità interpretative del testo o di problem solving, e la risposta è - sulla media per n alunni- negativa in assoluto, per quell'età, indipendentemente da ogni altra valutazione differenziale che potrei aver fatto sui singoli alunni. La scuola potrebbe benissimo dimostrare se e cosa ha attivato per cercare di migliorare questo aspetto dal punto di vista metodologico e dell'organizzazone didattica nei tre anni successivi al test. Il metodo del valore aggiunto crea invece informazione aggiuntiva ridondante, pagata con il denaro pubblico, perché la capacità generale di aggredire un problema e non rimanere con le mani in mano, una volta acquisita non si può perdere. Qui si parla di formazione, non di addestramento.

La necessità a regime di testare ogni anno tutti gli alunni di ciascuna delle fascie d'età stabilite è generata dal bisogno di avere il differenziale per ogni alunno e per ogni docente. Come se fosse necessario dover controllare che quell'alunno X ha compiuto un progresso formativo nel problem solving a 10 anni con l'insegnante buono X1 e poi ha perduto questa capacità con l'insegnante cattivo X2 dopo due anni. Che ciò possa accadere o meno, tale livello di monitorabilità dovrebbe servire perché l'insegnante X1 avrebbe bisogno di punizioni e X2 di incentivi. E dovremmo accettare tali livelli di individualizzazione mentre sappiamo che a livello generale e su certe competenze e atteggiamenti gli studenti tornano effettivamente indietro durante il quinquiennio seguente alla primaria segnalandoci malfunzionamenti sistemici della scuola. E tutto in omaggio al postulato meritocratico. Quella dei premi e delle penalizzazioni è una fissazione, un criterio preordinato che non si deve mettere in discussione. Salvo poi rendersi conto, nei dettagli attuativi, che dovrà essere soggetto a mille sotto-criteri – anche soggettivi – di assegnazione di meriti e penalità. Il problema delle soggettività, d’altra parte, viene affibbiato alla gestione interna delle singole scuole, senza alcuna garanzia che in tale ambito il tanto decantato criterio meritocratico sia ancora rispettato-rispettabile: difficile farlo se un lavoro è in parte d’equipe e in parte no e se non si sa bene da dove provengono i “valori aggiunti”.

Per re-direzionare la destinazione del sistema di valutazione verso obiettivi più immediati (e meno costosi), cioè verso incentivi rivolti direttamente alla formazione docente, occorre un’operazione di verità da parte di tutti i lavoratori della scuola.

In mancanza di questa operazione sembra in effetti non esservi alternativa alla macchinosità messa in piedi dall’INVALSI: “noi vi diamo i test, voi comparate i risultati con le vostre valutazioni degli studenti. Se queste non concordano fate mente locale a ciò che insegnate e a come lo insegnate. Magari state usando dei metodi non efficaci per imparare a sviluppare e mettere il pensiero in forma scritta, ad affrontare problemi nuovi, forse non incentivate la metacognizione, magari penalizzate gli errori e incentivate strategie meccaniche per il “sei”, percepite come più affidabili, mentre i nostri test richiedono l’esplorazione delle diverse soluzioni possibili, forse fate lezioni frontali ed educate alla passività e all'individualismo della conoscenza, forse non stimolate l’apprendimento cooperativo e la condivisione degli apprendimenti ecc… Comunque sia sono affari vostri. Fate mente locale su genesi , diagnosi, prognosi dei problemi, e ricordate sempre che per la vostra scuola si profila all’orizzonte la mannaia della penalizzazione”.

In conclusione sono d’accordo con l’impianto descritto nella parte C del documento della commissione INVALSI, ma non sulla destinazione e sulle conseguenze legate a tale obiettivo. È la finalizzazione meritocratica che renderà il progetto, se attuato, mal funzionante e farraginoso. Preferirei che gli esperti di cui si parla, oltre che preparare test, venissero messi anche a disposizione per supportare i docenti, aiutarli a leggere le dinamiche delle relazioni educative e a migliorare direttamente la loro professionalità. Mi sembrerebbe molto meno macchinoso. L’ingente richiesta di risorse per attuare il progetto a regime merita che questo vada a fruttificare qualcosa in più di un puro criterio di incentivazione: un criterio di comprensione del modello educativo vigente e l’elaborazione intenzionale di modelli migliori basati sulle indicazioni generali che risultano dai test. A livello nazionale, ad esempio, cosa si fa a livello di riflessione e critica metodologica basata sui test OCSE-PISA? Nella mia scuola il test è stato fatto ed è passato come una brezza d’aria. Sono convinto che più del 60% dei docenti non sappia neppure che si è svolto. Prima di entrare nei dettagli dei progetti di autonomia dei singoli istituti, che richiederanno test a regime su tutti gli studenti, e quindi grossi investimenti, perché non si traggono intanto le indicazioni generali e non si apre un dibattito sulla base dei dati già in nostro possesso? Perché sembra esserci un rifiuto di girare un po’ di risorse in progetti nazionali ri-professionalizzanti?

Leggo ora che c'è qualcuno che condivide le mi critiche e ne fa anche altre:

http://www.unibg.it/dati/bacheca/682/34469.pdf

Perché sono sempre più nauseato dalla scuola

Il titolo potrebbe essere anche: "perché non ci possiamo lamentare se noi insegnanti non siamo considerati come professionisti" e la risposta sarebbe estremamente semplice: "perché per la maggior parte non lo siamo".

Leggo che: “Attualmente, la scuola italiana non è in grado di premiare i capaci e i meritevoli e nello stesso tempo non è nemmeno in grado di aiutare efficacemente gli studenti e gli insegnanti in difficoltà” (http://www.lavoce.info/binary/la_voce/articoli/invalsi_pro_111.1245760092.pdf )
Si sottintende al solito l’idea della meritocrazia come capace di migliorare le cose nel campo educativo.
No. I capaci e i meritevoli non devono essere premiati, proprio come studenti e docenti in difficoltà non devono essere puniti.
I capaci vanno anch’essi aiutati e “studiati”. E i capaci non coincidono necessariamente con chi sperimenta o ha sperimentato il successo scolastico, dal momento che esiste un vizio valutativo nel sistema scolastico.
Abbiamo bisogno di riconoscere il successo formativo attraverso criteri esterni a quelli dell’attuale sistema scolastico e al tempo stesso di distinguerlo dal successo individuale a posteriori e in senso lato. Abbiamo dunque bisogno di definire con maggiore precisione l’idea di formazione culturale dell’individuo come processo e come competenze. E abbiamo bisogno di strumenti validi per misurare e valutare le abilità di processo degli studenti (quindi ben vengano i test INVALSI, purché ben fatti, ben calibrati e ben consegnati a docenti collaboratori, capaci di utilizzarli e comprenderli, piuttosto che a docenti che fanno “da tramite” per un controllo superiore che abbia fini diversi da quelli statistici). Una volta acquisito l’obiettivo formazione come valore indipendente dalla valutazione tradizionale scolastica, la valutazione diventa il campo studio della figura del docente ricercatore, non premiatore o punitore. L’attributo “meritevole” connota una categoria dannosa per la pedagogia perché implica una condizione di attesa di riconoscimenti del merito. E a sua volta questa condizione, proprio nei casi in cui si verifica in situazioni reali, è connessa all’eventualità che lo studente studi in funzione di tale merito riconosciuto.
La formazione dell’individuo comprende la ricerca e la creazione di ben più nobili e intrinseche motivazioni, quali la curiosità, l’esercizio del pensiero creativo, il tutto modificabile ed esprimibile nell’arco dell’intera vita (vedi LLP).
Il gap principale in questo momento è professionale. La professione del docente è più rivendicata che costruita, coltivata con il serio, costante e soprattutto condiviso lavoro di ricerca del docente. “Non siamo pagati abbastanza per fare anche i ricercatori”. Bene. Allora il circolo vizioso va chiuso qui. Non si accampa tutta questa professionalità che non c’è. Semplicemente si decide di fare gli impiegati.
La professionalità non c’è quando non ci accorgiamo che uno studente ha difficoltà; quando facciamo finta di non accorgerci "mettendo sei", perché comunque quello è un allievo che non dà fastidio o perché "deve maturare" (come se la sua maturazione fosse un processo naturale e staccato dal nostro compito formativo) o al massimo ci sussurriamo all'orecchio che “in effetti qualche difficoltà quel ragazzo ce l’ha”; o quando non possiamo fare a meno di accorgercene e sanzioniamo con “insufficienze gravi” e bocciature inevitabili chi, pur essendo un bravo ragazzo, “presenta difficoltà oggettive in tutte le materie”, senza sapere fare nulla di realmente professionale per evitare questo epilogo.

Non siamo professionisti quando non troviamo insieme ai ragazzi veramente capaci problemi da trattare e su cui misurarci, noi e loro. Pane per i loro e i nostri denti. Perché non possiamo dirci professionisti se non abbiamo e non sviluppiamo alcuna curiosità nel campo che pretendiamo di insegnare, sancendo un solco incolmabile tra la materia scolastica e la disciplina. Non siamo né professionisti né onesti quando caliamo ragazzi cosiddetti "bravi", ma buoni soltanto a sgobbare sui libri per ottenere agognati meriti, a figurare in attività che abbiamo creato e gestito noi. O quando ci sentiamo nudi nel ruolo di studente ricercatore insieme a studenti che vivono lo studio con passione maggiore della nostra. Non c’è professionalità quando l’insegnante non è capace di mettere a punto prove di verifica delle competenze e non si fida di quelle che fa mettendo voti dal cinque al sette per non sbilanciarsi, ma anche per non perdere tempo a fare qualcosa di più serio e attendidibile. Non c’è professionalità quando il docente non sa costruire dei percorsi adeguati a modificare i processi e a permetterne il riconoscimento. Quando una scuola, autonoma solo a chiacchiere, non è in grado di mettere a punto un servizio di osservazione del funzionamento e potenziamento dei processi cognitivi degli studenti che presentano difficoltà di studio anche fosse in una sola materia, sfruttando le professionalità, ad esempio, di chi ha esperienza di mediazione e applicazione del metodo Feuerstein, o creando all’occorrenza le capacità diagnostiche necessarie, quella scuola non può dirsi professionale sull’ambito che maggiormente le compete. Quella è una scuola in cui tutti gli insegnanti sono ugualmente impiegati a riconoscere meriti e demeriti.

Noi saremo professionisti se e quando lavoreremo sugli strumenti e i metodi necessari per aiutare tutti gli allievi a diventare pensatori migliori. Nella misura in cui riusciremo a realizzare quanto valutato a livello europeo dall'indagine OCSE-TALIS (Newsletter MPI 19 giugno): "considerare l’insegnamento un modo per favorire l’apprendimento autonomo degli studenti, piuttosto che un processo di trasmissione diretta delle informazioni".

PS: tutto ciò che auspico per la scuola degli studenti della secondaria accade quotidianamente nella formazione primaria. Quindi non è utopia.