venerdì 22 luglio 2022

Lettera a un collega sulla libertà di insegnamento complicato

È molto tempo che non metto qualcosa nel mio blog. Lo faccio ora per farlo sentire meno solo e abbandonato.

Caro L.

mi fa piacere di leggerti e ti assicuro che comprendo bene la tua condizione rispetto alle classi, ai risultati ecc. per essermi spesso trovato nella stessa condizione e non solo, e di essermi sentito a volte come costretto a utilizzare strumenti pedagogici "oppositivi" spuntati che la scuola ti mette a disposizione per compensare i ritmi penalizzanti che in qualche modo ti impone, e di cui mi parli: verifiche, voti, genitori, minacce, note, ecc. Che più si scende in basso e più raggiungono l'effetto contrario a quello desiderato o, almeno, a quello a cui dovremmo tendere. 

D'altra parte sia per carattere sia per scelta razionale ho sempre rifiutato gli strumenti della seduzione, pensando che ognuno debba sempre essere lasciato in condizione di scegliere autonomamente, cosa che almeno a partire dal terzo anno mi ha condotto a successi parziali. Ma diversa la situazione al biennio, dove negli anni la presunzione è aumentata in proporzione inversa alla responsabilità individuale. Ciò che resta possibile sono dei tentativi pressoché inutili di usare il voto, anziché come "arma", come strumento per aiutare a far passare messaggi che riguardano la serietà, il coinvolgimento, l'amor proprio, la curiosità e l'associata bellezza del conoscere. 

Non rimane allora che spendersi nel cercare di "reinventarsi" la materia per mostrare che essa è comprensibile e in modo da far capire che quello che fai per "umanizzarla" (ma non banalizzarla) è anche un adattamento alle domande che possono venire facilmente dagli studenti che volta per volta hai. Diciamo che è una forma di seduzione più "onesta".

Questa strategia ha perlomeno il vantaggio che costituisce uno stimolo continuo a ri-comprendere, approfondire e capire e perfino scoprire cose nuove e quindi "sopravvivere" negli anni. Non capisco quelli che dicono "alla fine la chimica è sempre la stessa" (affermazione generalizzabile alla fisica, alla matematica ecc.), anche se ne intravedo le conseguenze pratiche. Piuttosto ho la certezza che studiare e progettare lezioni, verifiche, lavori di gruppo, avendo in mente un dialogo e un progetto con gli studenti sia il modo migliore per imparare qualsiasi cosa. Che trovarsi a dover insegnare una cosa sia il modo migliore per capirla, come sosteneva Alex Johnstone (vedi ad esempio qui https://michaelseery.com/alex-johnstones-10-educational-commandments/ il decimo comandamento), non vale solo per gli alunni, ma anche per gli insegnanti. Una "tecnica" che uso anche adesso che non ho più interazioni dirette con i ragazzi, per forza dell'abitudine.

La mia esperienza con il lato studente, invece, vedeva questo trovarsi sistematicamente di fronte a un bivio: da una parte la direzione più frequentemente scelta di aderire a un altro tipo di adattamento e semplificazione, una "seduzione poco onesta", quella che presenta la materia come una serie di procedure e asserzioni semplici e chiare da riprodurre, applicare ciecamente, dove ogni cosa è o giusta o sbagliata, dove non esistono dubbi da risolvere e problematizzazioni, contesti diversificati e significati da costruire. Per la maggioranza dei ragazzi questo approccio "assertivo", addestrativo e restitutivo è considerato più rassicurante: lo studio è una questione meccanica, di quantità, di applicazione di tecniche prefissate, non di coinvolgimento personale, costruzione critica e autonoma (ma anche sociale, verbalizzata e consensuale) di significati. È evidente che sia proprio questa la scelta che consente di utilizzare e anzi induce a manipolare i simboli e le "formule" come oggetti tal quali prescindendo dai loro significati, dai loro perché e relative giustificazioni nei contesti. 

Ciò peraltro riguarda essenzialmente le materie scientifiche, specie quelle "dure", che perciò diventano automaticamente meno rilevanti e alla moda rispetto al comparto umanistico (a parte quelli che amano la chimica perché sanno fare il i "sudoku" del bilanciamento delle equazioni di reazione - senza saper nulla della realtà di quelle reazioni - ancora, dunque una pura tecnica procedurale senza senso). Hai voglia a lamentarsi che in Italia lo STEM e le scienze siano considerate difficili, insignificanti e quindi non alla moda (hai presente la volpe e l'uva?) 

Ed è ancora per questo che la matematica diventa automaticamente suprematista anche senza "volerlo" essere: proprio perché viene direttamente infusa nella chimica e nella fisica per tutti gli aspetti quantitativi senza far sì che gli studenti si possano rendere conto che il processo di matematizzazione è concettuale; nel senso che necessariamente si deve prima far uso dei concetti fisici e chimici e, solo una volta chiariti i significati dei simboli negli specifici contesti, la pura tecnica matematica potrà andar via liscia. Se quel che uno farà, poi, avrà per lui o lei un senso, ciò dipenderà non dalla correttezza delle azioni matematiche che farà, ma dall'aver chiara l'interfaccia concreta tra rappresentazioni simboliche e contesti concreti + concetti disciplinari a forte componente quantitativa. Quindi si lascia credere agli studenti che, a parte una maggiore varietà di simboli, la "matematica della matematica" sia la medesima che entra in gioco nelle relazioni tra le misure e i modelli della fisica o della chimica. 

Se poi si aggiunge che l'insegnamento stesso della matematica è in media metodologicamente di tipo più procedurale e tecnico-addestrativo che non concettualmente problematizzante, è evidente che si insinui nella mente dei ragazzi che la chiave della sicurezza sia nel seguire procedure rigorose ed univoche e non nel ragionare sulle molteplici possibilità e con la propria testa. 

Il paradosso è che questa convinzione è pervasiva nonostante i risultati, gli insuccessi e le insufficienze in matematica mostrino costantemente e in tutto lo stivale che si tratta di un atteggiamento mentale tutt'altro che sicuro e capace di garantire il successo. È evidente che lo stesso atteggiamento mentale interessi in ugual misura anche gli insegnanti, altrimenti non si giustificherebbe il persistere della situazione cronica. 

A questa scelta predominante, per lo più inconsapevole, secondo cui la chiarezza risiederebbe nella prescrittività del da farsi e non nel risultato dell'attivarsi proattivo per chiedersi e comprendere i perché, sfuggono solo due categorie di studenti che si rendono conto che possono facilmente controllare e avvantaggiarsi di proposte pedagogiche dove almeno alcuni aspetti delle discipline sono costruiti attraverso dubbi, domande, problematizzazioni, partendo da contesti concreti: 1. quelli che sono già un po' più maturi, autonomi e capaci e che perciò riescono a gestire anche proposte antagoniste contemporaneamente da insegnamenti diversi, e 2. alcuni tra quelli, "burnt out" dello studio quantitativo e restitutivo che però scorgono più possibilità di comprensione concettuale qualitativa, sentendosi più liberi di usare il loro intuito e discernimento, e altre "scorciatoie" che richiedono solo un po' di coinvolgimento personale; che ricevono da tutto ciò maggiori conferme e sicurezza. 

Si tratta, anche sommando i due gruppetti, quasi sempre di minoranze risicate. 

Ma nonostante le grosse difficoltà ho sempre cercato di far capire i vantaggi del metodo basato sul pensiero e la riflessione e avuto conferme che l'approccio fosse accessibile ad un'ampia maggioranza, per cui ho sempre mantenuto la barra dritta, ignorato alunni (o i loro genitori) che avevano 3 o 4 in matematica, o quelli che avevano 8 ma per fare 1/2 + 1/4 dovevano fare il minimo comun denominatore con carta e penna, quando entrambi sostenevano che fosse la mia materia, dove "toccava" sapere il senso delle cose che si facevano, a essere difficile. Così come ho cambiato scuola quando ciò mi era precluso. 
È difficile far capire a un docente che il senso racchiuso in una procedura tecnica non sempre si trasmette nella testa di chi attua quella procedura. Se poi ci si attende che questi significati siano generalizzati il 'non sempre' può essere tradotto in 'mai'. Ad entrambi i docenti e alunni mancano esperienze di verbalizzazione, problematizzazione, narrazione. Col risultato che ciò che essi possono dire per giustificare ciò che essi fanno consiste essenzialmente nel ripetere ciò che essi hanno fatto. Si crea una situazione di stallo in cui entrambi si convincono che tutto ciò è "logico" e non occorra ragionare su altro. E finisce così che l'insegnamento scientifico è puro addestramento e non ha più nulla di formativo.
Talmente difficile che conviene rinunciarvi e tenersi la nomina di insegnante complicato. 
Spero per te che rimani nella bolgia, che esista ancora questa libertà di "insegnamento complicato", e che ti sia ancora possibile ritagliartela alla faccia del ptof, delle mille burocrazie, e dei colleghi che non si fanno o non scorgono alcun problema. E se ti capitasse in futuro uno dei tanti dirigenti che semplicemente non vogliono avere problemi con voti difformi scaturiti da obiettivi e metodi difformi, aggiusta preventivamente i voti e fallo contento. Se riesci a far lavorare intensamente i ragazzi, i voti puoi perfino inventarteli. A lui/lei dirigente d'azienda non interessa altro. Non vale la pena perderci tempo e non farti schiacciare.