giovedì 31 marzo 2011

la soluzione

Una scuola privata, ma pubblica!

Meritocrazia per i docenti, ma non per gli studenti.

Il valutare per merito i pazienti dell'ospedale li renderebbe forse più facilmente curabili e guaribili? Per gli studenti non occorre dire altro.

Quale meritocrazia dei docenti? non può essere basata sui pazienti salvati e non salvati come (pre)tende a fare l'INVALSI.

Deve basarsi semplicemente sulla quantità e qualità del lavoro. Queste sono facilmente misurabili, e riassumibili in due ruoli che mancano del tutto nella scuola:
il docente ricercatore
il docente trasparente

Per fare ricerca&azione occorre studiare sperimentare e riflettere, non interrogare e fare montagne di verifiche allo scopo di mettere voti e nella speranza vana che sia questa minaccia l'unica vera fonte di motivazione per gli studenti (questa falsità, a furia di forzarla, è stata trasformata in una realtà!) Occorre leggere molto, interagire con ricercatori del mondo accademico, partecipare a congressi, pagarseli, faticare per avere idee e soprattutto per adattarle nel lavoro in classe, trovare anche il tempo per documentare. Uscire dal ruolo fossilizzato del prof. Aristogitone. Il tempo necessario e questa particolare professionalità, l'investimento di passione, costano lavoro, e vanno pagate.

Rendere trasparente la lezione: sono tutti d'accordo tranne molti insegnanti. Le tecnologie per farlo sono meno costose di un cellulare. Anche documentare, rendere trasparenti e poi fruibili come materiali di studio le lezioni, richiede tempo e pazienza. E perciò va pagato.

La soluzione? offrire compensi aggiuntivi ai docenti disponibili ad assumersi questi nuovi ruoli (io lo faccio da anni, gratis, ma mi accontenterei di vedere realizzate queste idee dopo il mio pensionamento)

Chi li paga?

I genitori!
Pazzesco! E come?
1° scorporiamo dalle imposte il fabbisogno per l'istruzione pubblica e ricarichiamo solo la minima parte dei costi generali che interessa tutti i cittadini italiani. La parte destinata alle risorse (stipendi, tecnologie, strutture, personale di servizio ecc.) si ricarica in misura leggermente minore o uguale all'attuale, comunque in proporzione alla parte restante dei 740,
su tutti i genitori che hanno figli in età scolare, diciamo 4-18 anni, e scelgono la scuola pubblica. Dunque i genitori della scuola pubblica pagano tale quota base che è quella che serve per avere una scuola come l'attuale, cioè una vera schifezza (che è comunque migliore di molte scuole private).
Ma, se essi pagano una percentuale definita (non so, il 50 o il 100%) aggiuntiva rispetto a quella che già versano per l'istruzione pubblica, hanno diritto a qualche altra detrazione e soprattutto alla possibilità di scegliere determinati docenti.

Quali docenti? quelli che lavorano di più per organizzare viaggi d'istruzione e progetti di proprio interesse? Quelli che fanno la carriera da dirigente scolastico? Quelli che passano un sacco di tempo a promuovere la scuola e tenere rapporti con i privati ma non ne hanno per i loro alunni? No! Quelli che credono di di migliorare la loro professione e la qualità con la semplice esperienza e anzianità, con il buonismo, con la giusta filosofia di vita, con la tecnologia, con la minaccia dei voti? NOOOO! Queste cose le sanno fare tutti, non c'è bisogno di studiare né di faticare.
Dunque, tornando alle famiglie extrapaganti, queste potranno pretendere docenti che fanno (in modo ineccepibilmente documentato) i ricercatori e i documentatori della didattica. I quali saranno pagati in modo sostanziosamente proporzionato a tali funzioni specifiche della professione docente (che è diversa da quella di collaboratore del preside e dell'organizzatore di gadget pubblicitari).
Se-li-scel-go-no!!!
Non a costo fisso, come in una scuola privata, ma ad un sovrapprezzo proporzionato alla loro capacità contributiva. D'altra parte, per una cosa che interessa quasi tutti gli italiani è bene che quasi tutti facciano una percentuale di sacrificio. La scuola non si migliora con tagli, ipocrisie, demagogie e populismi.

Immaginate una scuola dove ci sia un 20 - 30 % di docenti ricercatori che comunicano tra di loro, si alleano su progetti educativi di ampio respiro, li attuano e li studiano, e fanno concorrenza all'università (che produce molto fumo o nulla per quanto riguarda la ricerca educativa) e un 50-60 % dei docenti che documentano, e mettono a disposizione della metacognizione degli alunni tutto ciò che costruiscono assieme ad essi, perché ciò non richiede particolare talento, ma frutta un bel gruzzolo alla fine del mese ed è utile al miglioramento della scuola.

Io dico che con una scuola, così resa più efficace, avremmo presto un maggior numero di famiglie con una capacità contributiva aumentata e ben disponibili a finanziare questo genere di scuola pubblica-privata, per i loro stessi figli, con un sacrificio equilibrato e sopportabile da tutti.

domenica 20 marzo 2011

così scrisse Elsa Morante

Interessante. L'ho ricevuto e pubblico a questo link, sperando arrivi presto il momento di cancellarlo.

domenica 13 marzo 2011

Io, invece, mi accanisco!

Mi riferisco al problema che la prof.ssa Mastrocola vorrebbe risolvere banalmente, a mio avviso, creando scuole differenziate, di cui solo una destinata ai veri e pochi "studianti". Vedi ad esempio questo link. È un'idea molto pericolosa e ingiusta, anche perché "accarezza" molto il tentativo governativo in atto di succhiare risorse alla scuola pubblica: farla funzionare tagliandola, distruggendola, affossandola. Per inciso, ci sono ben altre tendenze, riguardo alla Scuola, alla "civiltà della conoscenza", alla "cittadinanza", già ben dettate dall'Unione Europea a Lisbona. Non abbiamo bisogno della frustrazione dei docenti per sapere dove andare. Anche la ricerca ha detto molto, un molto che sta ancora fuori dalla scuola e non si trova nei libri della Mastrocola. Dico innanzitutto che la Scuola non può rinunciare al suo compito principale. Non ha fatto tutto ciò che sarebbe possibile per assolverlo.
Non si può CANCELLARE il problema perché ANCORA non si riesce a risolverlo adeguatamente. Montaigne diceva: "quando un problema è senza soluzione allora è necessario eliminare il problema", ma si riferiva evidentemente a problemi di natura individuale. La condivisione e l'identificazione culturale sono il collante sociale fondamentale di un Paese, e possono essere realizzate in modo certamente più indolore di come la scuola vorrebbe continuare a fare con metodi che erano adeguati alla società di due o tre generazioni fa. Come ad esempio pensando di poter trasferire le proprie idee di bello, di buono ed utile, associate a determinati contenuti, a studenti che dovrebbero acquisirle belle e pronte, con gli stessi sensi e significati che forse lo stesso docente non ha ancora pienamente elaborato. Con tutta l'abnegazione, la buona volontà del mondo, ciò non è possibile perché contrario all'asserto fondamentale della pedagogia: che la conoscenza e la consapevolezza sono costruzioni individuali mediate dal dialogo sociale. Rifiuto l'idea che l'istruzione si possa snaturare per consentire ai delusi dell'insegnamento di avere davanti solo studenti desiderosi di seguire le orme del loro amato docente.
Credo che il mio insegnamento può essere utile e positivo qualunque siano gli ideali di vita dei miei studenti, altrimenti sto compiendo un errore, una riduzione. Ad esempio, l'imparare cosa significhi conoscere e comprendere, risolvere problemi, arrivare a capire che anche questo può essere buono e bello, oltre che utile, non possono essere acquisizioni destinate solo ad uno spaccato della società. La scuola può avere margini di successo nel dare questi strumenti a tutti. E dobbiamo farlo, a meno che non pensiamo che la cultura della comprensione, di E. Morin, per intenderci, sia accessibile solo per chi deve comandare (magari fosse, mi viene da pensare) o, peggio, che sia sostituibile dal sentimento religioso come unico capace di raggiungere tutti gli uomini.
Rifiuto l'idea che la scuola non sia modificante e serva anzi per cristallizzare ogni giovane in età evolutiva sul suo progetto di vita, qualunque esso sia, cioè sul suo contesto sociale, sul proprio micromondo.
Liberare un giovane implica sì capire che questa scuola non sta funzionando, ma anche poi dare a tutti, giovani e meno giovani, gli strumenti fondamentali per comprendere e scegliere sempre, non una sola volta nella vita.
Il mio accanimento è meno folle di quanto molti pensano, il mio compito è dolce, perché vedo che studenti che hanno i più disparati interessi, quando riesco comunque a ingaggiarli, quando si accorgono che la loro testa funziona, cambiano la luce nei loro occhi. Ma ciò accade solo se e quando riesco ad andare oltre il mio sentimento di insoddisfazione. Se non ce la facciamo, da soli, a gettare la frustrazione dietro le spalle, alleiamoci, cominciamo ad unirci, rimboccarci le maniche e agire per riuscire dove altri hanno fallito. Ma non buttiamo a mare i "non studianti" o i "chattanti", che sono i soli che possono darci qualche vera soddisfazione. E quante cose c'è da imparare per gli studianti della prof.ssa Mastrocola!
Adesso sono entusiasta dei modelli emergenti, un'idea promossa da diversi anni da J.Novak e A. Cañas. Sto cercando di metterla in pratica e di adattarla a tutti i miei precedenti studi e sperimentazioni, con e senza mappe concettuali.
I miei tentativi si possono trovare ad esempio in questo documento condiviso.
Rifiuto di basarmi su una vana speranza: "...con la speranza che la scelgano in tanti e che la cultura non abbandoni la nostra vita)", riferita alla scuola "per lo studio, quella per gli albatros, isolati, diversi, portati allo studio e negletti".

giovedì 3 marzo 2011

Il giorno dopo del collegio docenti

Perché non vorrei firmare ancora nessuna mozione in difesa della scuola pubblica


Non mi basta la convinzione che la scuola pubblica sia migliore e più democratica di altre scuole confessionali e/o rivolte a famiglie benestanti. Non mi basta la convinzione che nella nostra scuola, tra i nostri colleghi, ci siano, individualmente, le migliori esperienze e professionalità di tipo specificamente educativo reperibili sul “mercato”. Non mi accontento della convinzione che solo nella nostra scuola resista e sia profondamente e culturalmente radicato, contro tutte le derive “materialiste” e “moraliste”, così dominanti tra giovani e rispettive famiglie, il valore superiore della conoscenza. Mi manca che per trasformare queste potenzialità in una scuola realmente migliore, per avere “i numeri” per poter difendere la scuola pubblica, occorre avere una visione chiara e condivisa di quali problemi ci vengono posti non dalle sprezzanti dichiarazione di chi ci governa, non dalle scuole private, ma dall’evidenza dei cambiamenti sociali, dalla maggior consapevolezza diffusa, anche fuori della scuola, di che cosa significhi oggi essere “competenti” e, se vogliamo, dall’Unione Europea che in realtà non fa altro che recepire tali necessità e stimolarci a guardare in avanti.
Rendere più competitiva la scuola “pubblica” significa oggi “dare” più competenze. È chiaro che cosa siano le competenze; dal collegio ho avuto la netta impressione che ciò fosse chiaro e questo è un notevole passo avanti rispetto al passato. Saper affrontare autonomamente situazioni nuove che comportino scelte, decisioni, consapevolezza nel recuperare opportune e significative conoscenze utili e, proprio per questo, non inerti. In poche parole risolvere problemi autentici, non standardizzati. Sappiamo che questo genere di abilità è tipico di chi ha esperienza in un campo, cosa che dai nostri studenti non si può pretendere. E sappiamo anche che l’avere esperienza di buon livello in un dato settore non aiuta neppure gli adulti esperti a risolvere problemi in un settore diverso e per loro nuovo. Queste due ovvietà ci dicono che una scuola basata sulla risoluzione dei problemi, sull’interpretazione di testi, sulla ricerca del significato, non sia fattibile con studenti normali. A causa di questo facile equivoco ci troviamo a insegnare sistemi formali e contenuti prima del loro scopo, prima dei contesti reali, prima che possa esserci una ragionevole speranza che un alunno “concreto” possa capirne il senso. Abbiamo vissuto personalmente la stessa esperienza di inversione pedagogica e riteniamo che essa sia la cosa migliore: “prima impara, poi saprai applicare, quindi capirai”. Anche i nostri studenti preferiscono in genere che il compito consista solo nella prima parte e temono la seconda. Non mi riferisco alle applicazioni pratiche, ma all’essere competente in senso generale, che è diverso da “ben addestrato”. Anche professionalmente parlando, il compito di insegnare contenuti è in principio più facile: oggi studi, domani dimostri di “possedere” un contenuto. Domani non possiedi il contenuto: prendi un votaccio. È dipeso dallo studio, la prossima volta ti basterà studiare e recupererai il votaccio. Tutto ciò è estremamente semplice. Eviterò di approfondire perché in cotanta semplicità ci rientri una minoranza dei nostri studenti. Ciò che ora è importante chiarire è che per imparare a risolvere problemi, per acquisire competenze, per imparare a interpretare testi e ad argomentare criticamente, lo studio, specialmente quello individuale, non funziona. L’unico modo di imparare a risolvere problemi consiste nell’avere problemi, recepire la loro natura e cercare di risolverli; per imparare ad argomentare occorre avere occasioni di scrivere ed esprimere il proprio pensiero e di vedere come questo è letto, interpretato da altri e riaggiustarlo. Per diverse ragioni, alcune ovvie le ho accennate, tutto ciò non è possibile farlo da soli. Quindi esistono le classi, gli insegnanti, le comunità di apprendimento… la scuola pubblica del futuro, che non è né quella attuale che vogliamo difendere senza cambiare nulla, né tanto meno quella del passato che alcuni di noi vorrebbero restaurare.
La parte più difficile consiste nel riconoscere la natura di un problema e l’insegnante potrebbe facilitare questo compito. Si tratta di acquisire la percezione delle variabili, capire dove ci si trova, dove si deve arrivare, quindi vedere l’ostacolo, comprendere il problema. Se si è aiutati ciò può avvenire anche senza una grande esperienza. Aiutare nel migliore dei modi, per me significa porsi più vicino al livello degli studenti, senza paura di apparire incompetenti. È naturale che ciò accada quando in classe o in laboratorio si affrontano problemi reali, nuovi anche per noi e – vi posso assicurare – i ragazzi non mi considerano incompetente quando lo faccio. Ciò che conta è che i ragazzi percepiscano la nostra curiosità ed è ovvio, pertanto, che noi si debba averne. Una volta compreso il principio che anche gli inesperti possono, in questa maniera, con questo genere di guida, imparare una disciplina, costruire significati e risolvere i problemi usando la disciplina, rimane il problema della valutazione. Non possiamo utilizzare la minaccia del voto per far sì che i nostri studenti vincano la paura di non essere all’altezza, di non riuscire, accettino la sfida della conoscenza e si impegnino in essa. La minaccia del voto può servire per “sciupare” mezzora del proprio tempo a imparare una cosa certa, che sarà richiesta con certezza nella verifica giorno dopo piuttosto che stare mezzora su Facebook, o fare un’altra attività d’interesse. Per la maggior parte dei ragazzi lo studio autonomo non è affatto sufficiente ad acquisire le competenze. Svolgere attività autonome e anche collaborative che siano la prosecuzione delle lezioni centrate sui problemi, questa costituisce una strategia qualitativamente diversa perché è di tipo collaborativo. Il metodo di verifica e valutazione penalizzante l’insuccesso è legato al modello di studio-insegnamento finalizzato al possesso di contenuti. Il più comodo da insegnare e da studiare. Ma il meno rilevante per moltissimi studenti. E il meno utile alla società, all’umanità, che necessita sempre più di individui capaci di riflessione e comprensione. Il nostro problema –secondario- consiste nel trovare il modo di valutare in modo umano il coinvolgimento, l’apprendimento e infine il rendimento in termini di competenze acquisite, senza penalizzare gli insuccessi ma, eventualmente, dopo attento esame delle situazioni, dopo aver compreso le reali cause dell’insuccesso, dopo un’autovalutazione dello studente, penalizzando la mancanza di impegno. Queste sono le condizioni al contorno perché si possa affrontare e risolvere il problema primario: il recupero della curiosità, del valore della conoscenza , l’ingaggio di tutti nei problemi, senza snaturare le discipline che insegniamo, senza riempire l’istruzione di inutili progetti.
Se esiste tra noi la volontà di difendere un’idea del genere di scuola futura che non tema competitori, da stupidi attacchi, allora sono disposto a firmare mozioni di difesa che parlano della nostra dignità.
Alfredo Tifi