domenica 26 febbraio 2012

Un biennio con i piedi per terra

In questo post rispondo a tre domande utili a individuare la presa del progetto di insegnamento scientifico "P.R.O.F.I.L.E.S." sulla realtà educativa di un biennio ITIS (anzi, ora ITT).

PROFILES
Professional Reflection-Oriented Focus on Inquiry Learning and Education through Science
Studio sull'insegnamento delle materie scientifiche: Scheda delle risposte per la formulazione delle idee
Quali caratteristiche dell'insegnamento delle scienze considera utili e pedagogicamente desiderabili per l'individuo nella società di oggi e nel futuro prossimo?
Dovrebbe pensare ad adolescenti alla fine della scuola dell’obbligo (intorno all’età di 15/16 anni).
Lo spazio per ciascuna risposta è libero
1° Situazione/Contesto e/o Motivo: Quali situazioni e motivazioni possono essere considerate importanti e in quale contesto dovrebbero avvenire le lezioni delle materie scientifiche per stimolare, interessare e appassionare gli studenti alle scienze?
Se c’è una cosa che caratterizza il mio insegnamento è il continuo studio, osservazione e di conseguenza il continuo cambiamento, si spera verso un miglioramento. Per cui non ho alcuna certezza cristallizzata. Al massimo posso elaborare le mie “convinzioni del momento”, quelle che dovranno regolare la mia azione futura.
Continuo a credere, come in passato, che l’Inquiry Based Learning o IBL (concetti di pensiero “inquisitivo” contrapposto ad “accettativo”) sia la base stessa della comprensione profonda e che questo rimane il nostro obiettivo del quinquennio, raggiungibile per tutti anche se limitatamente ad alcune discipline o meglio aree disciplinari. Ora penso che, come nostra responsabilità formativa, non sia necessario che questo obiettivo sia raggiunto a 360 gradi. Ma deve essere qualcosa in più delle competenze singole, o se vogliamo una specie di macrocompetenza, che deve essere raggiunta. Questo può essere tradotto in “padronanza concettuale almeno in alcuni settori disciplinari”. In altre parole, così come le competenze implicano le conoscenze, così a sua volta la padronanza concettuale settoriale implica le competenze.
Detto ciò sulle finalità, veniamo a ciò che secondo le mie visioni attuali dovrebbe accadere prima, nel primo biennio e, suppongo, anche alle medie.
  1. L’IBL non è attuabile autonomamente dai ragazzi, ma solo in presenza del mediatore adulto esperto, come guida alla lettura e rilettura ripetuta della realtà, tenendo conto che a), diversamente da noi, che abbiamo già la padronanza dei concetti scientifici, l’aspetto linguistico costituisce la prima necessità e la priorità per i nostri allievi, b) la parola - significato non è insegnabile per trasmissione diretta, ma solo attraverso l’uso ripetuto in contesto di collaborazione con il maestro, strategia che Vygotskij chiama “imitazione” tenendo ben distinto questo termine dall’imitazione delle scimmie; c) non arriviamo a costruire la padronanza (uso cosciente e volontario, capacità autonoma di costruire una definizione adatta al contesto), ma a prepararla. In pratica il nostro compito è “suppletivo” di ciò che i ragazzi del biennio in maggioranza non possono ancora essere in grado di fare da soli: usare volontariamente il concetto in situazione. Essi possono ripetere per imitazione i modi di usarlo. Per questa ragione, essi non riusciranno a risolvere veri problemi da soli.
  2. Ciò nonostante l’imitazione collaborativa (una mediazione che già si rivolge alla futura evoluzione) deve essere fatta anche sulla risoluzione di problemi, specialmente del tipo che si basa sulla realtà sperimentale, per preparare sia la concettualizzazione vera successiva, sia l’autonomia nel problem solving. In questo modo facciamo due cose fondamentali: prepariamo lo “scaffolding” ai concetti scientifici e al tempo stesso costruiamo una base di concetti spontanei quotidiani, cioè la base di esperienza comune che è ugualmente necessaria sia per costruire la lingua madre, sia per costruire un sapere disciplinare. In altre parole dobbiamo permettere l’accumulo di esperienze e, per quanto riguarda la comprensione di queste, essere “pazienti ed imitabili”, perché ciò che essi sono in grado da fare oggi solo col nostro supporto, diventeranno capaci di farlo in poco tempo da soli. Non dobbiamo avere alcuna fretta su questo.
  3. Per quanto riguarda il ruolo dell’esperienza e dell’agire con le mani credo che a) l’idea che i ragazzi si costituiscono della nostra scienza sia legata positivamente a questo aspetto e, quindi, facciamo bene a sfruttare questo legame e a far uso del laboratorio; b) al tempo stesso non dobbiamo abusarne per una serie di ragioni, prima di tutte il ridotto tempo a disposizione, poi il fatto che il fine, il risultato di ogni attività pratica lascia un segno forte che a volte non solo oscura tutto ciò che è significativamente correlato all’attività nel suo insieme, ma è addirittura in conflitto con ciò che volevamo insegnare (vedi ad esempio la buretta: con i piccoli (1° anno) la soluzione satura si ottiene solo quando tutto il sale si è sciolto; con i grandi (2°-3° anno), la reazione è completa solo al viraggio); c) soprattutto il laboratorio deve essere il punto di partenza e non l’esperienza totalizzante in se stessa, per avere tanti ancoraggi e sviluppi successivi relativi al nostro compito principale che è quello di preparare individui che saranno in grado, almeno in alcuni campi, di usare autonomamente in modo differenziato, volontario e consapevole i significati e le parole associate. In poche parole dobbiamo fare poche esperienze significative che abbiano qualche aspetto investigativo, e poi lavorarci molto e poi molto sopra a tavolino.
  4. Aspetti affettivi e valutativi. Metto insieme queste due cose per evitare all’origine il malinteso: “facciamoli appassionare in qualunque modo e con qualunque trucco o seduzione, quindi la carica affettiva sarà da sé sufficiente a sviluppare qualunque livello di apprendimento e, in questa ottica, rimandiamo il problema di se e come valutare l’apprendimento effettivo”. Se siamo professionisti sappiamo due cose:
    a) che la passione per qualcosa è un prodotto o conseguenza della confidenza e familiarità con quella cosa e non una precondizione innata o una causa dell’acquisizione della confidenza con quella cosa. Infatti vediamo invariabilmente che quando i ragazzi cominciano a capirci-capire, a sentirsi “confidenti”, al tempo stesso diventano appassionati e disposti a cimentarsi anche in compiti leggermente più complessi cognitivamente. Il viceversa non è affatto vero. Partire dal presupposto che una passione pregressa di uno studente per i razzi possa essere connesso ad una sua propensione e garanzia di una “spinta aumentata” ad arrivare a qualcosa in più della confidenza per i razzi, cioè alla comprensione e alla sua “disponibilità ad assorbire”, magari “trasmissivamente” leggi e teorie fisiche e chimiche che stanno dietro al funzionamento e alla fabbricazione dei razzi, ipoteticamente collegabili a tutto il programma di chimica del triennio, è non solo una ingenuità, una pia illusione, ma anche qualcosa di molto grave e irresponsabile dal punto di vista professionale.
    b) A ciò l’aspetto valutativo è strettamente connesso. La valutazione autentica concerne ogni fase del passaggio dall’esperienza alla confidenza, allo sviluppo del dizionario, alla capacità di imitare e poi della comprensione e infine allo sviluppo di una competenza specifica. Questo è indispensabile perché come professionisti dobbiamo essere consapevoli del processo e deve esserci una presa su ciò che funziona e ciò che non funziona in ciascuna delle varie fasi. La difficoltà semmai è nell’abituarsi a osservare i dettagli nell’ottica di un piano a lungo termine, nel fare questo senza inibire lo sviluppo della confidenza che precede e permette un livello almeno potenziale di “passione” (le due cose non sono incompatibili, anche se spesso lo diventano per un uso sbagliato del significato che si dà alle valutazioni o per un eccessivo valore dato al learning object come “oggetto di passione”). Qui si tratta di restituire alla valutazione il ruolo di verità condivisa e di forza positiva. Ho una verifica: un problema che era a rischio è stato fatto bene grazie al fatto che l’idea di imitazione ha funzionato e pare aver dato dei frutti. Altri quesiti sono andati male in essi si richiedeva il possesso di più concetti autonomi? Forse; ma se nel frattempo che io ci rifletto sopra, dovessi dare a questa verifica il senso tradizionale di voto nel suo insieme, stempererei quella positività del problema ben fatto (sulla concentrazione e diluizione di una soluzione) nella negatività del punteggio complessivo. Sarebbe come dire: questo lo avete saputo fare “solo” grazie ai miei aiuti e alle mie “concessioni” (ho rimandato due volte il compito, e grazie alle tre ore di lezione guadagnate, la mia collaborazione è potuta continuare anche quando avete provato a casa a rifarlo da soli nello studio) ma rimanete sostanzialmente dei somari perché molti concetti non li avete per niente acquisiti ed è ciò che il voto sta a testimoniare. I ragazzi si prenderebbero il 3 o il 4 senza problemi, come spesso accaduto in passato. Ma in realtà commetterei un errore. Un errore già commesso ripetutamente. Nella valutazione non ha alcun senso “sommare”. Tute le nostre valutazioni devono essere esclusivamente formative, tranne quelle delle competenze, sommative, la cui provenienza dovrebbe essere esterna al sistema. Pe me ha senso dire: “vediamo perché questa cosa ha funzionato: non ci speravo, non perché voi non foste all’altezza, ma perché è un compito difficile e io non mi sento all’altezza di avere sempre la soluzione in mano per aiutarvi a capire meglio qualcosa. Facciamo tesoro del fatto che quel quesito sia andato bene. Non avete copiato nonostante ci fosse stata in gioco una insufficienza, avete fatto bene perché c’è qualcosa, nelle attività svolte in questi giorni, che vi ha aiutato a diventare capaci, e adesso dobbiamo capire bene, io per primo, che cosa è stato”. Con lo stesso spirito andiamo ad analizzare, dopo, le risposte errate degli altri quesiti. Questo significa creare una comunità di apprendimento che lavora in modo concorde e sinergico verso dei target comuni, piuttosto che una comunità schizofrenica come quella che vuol farci fare chi si riempie la bocca di “meritocrazie” e voti.
Certo, è molto più facile creare questo tipo di situazioni, motivazioni e contesto: 1. La disciplina è fondamentale e adotto delle tattiche per ottenere sempre una classe perfettamente attenta per 50 minuti; 2. Dire: “Se voi state attenti alle spiegazioni non avrete nessun problema con me (con questa materia)”; 3. Ottenere che 1 + 2 sia uguale a buoni voti e quindi buon feedback basato sui numeri anziché sulle prove di competenza effettive, esterne al rapporto classe docente. È evidente che insegnanti di questo tipo, nelle classi dove non vola una mosca, dove non ci sono problemi di processi e strategie, dove i voti volano dai rari 5 al 6 e al top del 7, avranno qualche difficoltà con i test delle competenze e con qualunque tipo di valutazione esterna.


2° Contenuto: Quali contenuti, metodologie e temi relativi alle materie scientifiche si dovrebbero trattare nelle lezioni?
Contenuti: è molto più importante la continuità che il sillabo. Il sillabo è ciò che quella comunità di apprendimento costruisce e non qualcosa di predefinito. Accanto a ciò c’è un numero di strumenti di base (concetti e abilità), propri della disciplina che in un modo o nell’altro devono essere acquisiti, per lo meno a livello di confidenza. Sarebbe importante accordarsi su quali, perché poi i test delle competenze trasversali e disciplinari delle classi parallele dovrebbero essere mirati esclusivamente su questa base comune.
Per esempio, in prima, accanto ai concetti imprescindibili di sostanza, trasformazione chimica, molecola, atomo, elemento e formula, trovo importante tutto ciò che permette di lavorare a più riprese sui rapporti e calcoli proporzionali: errore relativo, densità, concentrazione delle soluzioni, rapporto stechiometrico atomico/molecolare e in massa. Se a ciò aggiungiamo qualche nozione ultraelementare sulla struttura dell’atomo e semplici tecniche di pesata e di separazione (per poter scoprire gli aspetti quantitativi delle trasformazioni chimiche e utili a definire i campi linguistici in cui usare i termini sostanza, miscuglio, soluzione, reagire, combinare, mescolare, unire, e non a imparare queste tecniche in sé come dei piccoli periti chimici), abbiamo fatto il programma di prima. Quello di seconda non aggiungerà chissà che.
Di metodologia ho detto ciò che contava nella precedente risposta. L’IBL è importante, ma non bisogna illudersi che l’IBL sia intrinsecamente motivante. Non potrà esserlo finché non sarà realmente autonomo. Al biennio se è autonomo vuol dire che non richiede padronanza concettuale, quindi è inutile. Se è utile dobbiamo aspettare al triennio prima di parlare di autonomia. La passione verso l’oggetto di indagine dell’IBL al biennio è un fatto molto relativo e dipendente al 90% da cosa fa l’insegnante per mediare gli aspetti di inquiry e quanto sia capace di tradurre ciò che routine non è in oggetto di interesse nonostante la scarsa padronanza concettuale. Anche nei casi più felici non credo si potrà parlare di “innamoramento”. Quando la classe si appassiona alla tecnica di titolazione, e ciò accade poiché arriva a una discreta padronanza operativa, io sono molto preoccupato, e non felice, per La Chimica. E ripenso alle scimmie di Köhler citate da Vygotskij. Questa mia preoccupazione si stempera solo nel momento che vedo, in seconda E, che alcuni ragazzi non vengono a chiedere né a me ne all’ITP come devono fare i calcoli, e arrancano bene in quella che costituisce la vera finalità dell’esperienza: migliorare il campo di esperienza di uso dei concetti quantitativi. Significa che prima, nonostante le batoste delle verifiche e del test delle competenze, ho creato ed è rimasto qualcosa di ciò su cui abbiamo lavorato per mesi. I frutti positivi sono quelli del lavoro svolto in classe, non quelli del ripetere la pratica addestrativa. C’è ancora, però una minoranza di ragazzi che non sanno ugualmente muoversi in nessun modo, non riescono ad imitare, non hanno nulla da imitare, e non calcolano, e neppure chiedono come fare. Quasi sempre sono segnati da un gap, da un differenziale che si trascinano dietro da lungo tempo, fino a diventare una pregiudiziale. Uno svantaggio che si cristallizza sempre di più e che se non facciamo nulla per prevenirlo e ripristinarlo cognitivamente, è destinato a diventare un’invalidità permanente. Non credo che risolverei qualcosa illudendomi io stesso o dando a questi l’illusione che titolare con precisione sia un aspetto centrale della chimica del biennio.
Un altro accenno posso farlo sul cooperative learning. Ci sono delle scuole di pensiero che accomunano l’intervento mediativo dei pari a quello dell’insegnante esperto e vedono nella metodologia cooperative learning il prodotto unico possibile della teoria socioculturale. Né Vygotskij né Feuerstein, collegati in modo tanto intimo quanto misterioso, hanno mai detto qualcosa del genere. Il dialogo, l’ascoltarsi reciproco o anche autonomo, il formulare tutte le proposizioni possibili in un contesto fortemente comunicativo sono aspetti rilevanti e imprescindibili della teoria socioculturale. Ma nel movimento verso la presa di coscienza, il lavoro del mediatore adulto che consiste nella funzione suppletiva di cui ho già parlato all’inizio, è solo in minima parte sostituibile da ciò che può accadere nel gruppo cooperativo eterogeneo (con studenti relativamente “meno inesperti”). Specialmente al biennio il ragazzo “relativamente più esperto” non è affatto esperto dal punto di vista metacognitivo. È tale e quale agli altri, quindi incapace di alcuna reale mediazione. Rimane comunque importante, per una componente variabile, ma non totalizzante del tempo classe, la discussione nel gruppo cooperativo finalizzata a generare un prodotto verbalizzato e cosciente, un apporto diversificato dei singoli gruppi alla riflessione collettiva finale, dove però i singoli ritornino ad essere singoli individui, con il loro rapporto individuale con l’insegnante, in una mediazione diretta dal docente che rimane il RUI: responsabile ultimo indispensabile. In questo senso “solo”, per me è importante il CL. È evidente che, rispetto alla discussione sempre condotta frontalmente con tanti singoli, l’insegnante potrà avere una maggior ricchezza, fondatezza e una maggior condivisione e reciprocità, nei punti di partenza utili, facendo emergere questi “primi passi”, ma anche misconcetti, nei gruppi. Basta poi avere il tempo di gestire, restituire feedback individuali, su ciò che è stato prodotto dai gruppi in tempi brevi. Da questo punto di vista la nostra scelta di mantenere le ore di 53 minuti, per favorire chi fa lezioni frontali e metodologie trasmissive (per cui la classe si annoierebbe comprensibilmente in lezioni frontali di maggior durata), è una scelta pessima. In Finlandia il modulo orario minimo è di 75 minuti e ci sono sempre 15 minuti di intervallo tra l’uno e l’altro. Ma lì non si fanno lezioni dalla cattedra. Siamo noi che vogliamo la parcellizzazione, la frammentazione e il disorientamento. Poi, sono inutili gli ampi sorrisi, le accoglienze e i corsi di recupero come unica alternativa possibile alle sufficienze regalate, in primo.
I temi sono quelli che emergono dalla trattazione dei contenuti: cosa sono le trasformazioni chimiche, come è fatta la materia. Non basta? Credo siano più che sufficienti. Forse non sono intrinsecamente appassionanti, ma il nostro dovere ha a che fare con questo compito ben preciso che non è per niente facile anche se i concetti sono pochi. Può essere importante, una volta conquistata questa confidenza, usarla per estenderla a qualcosa di appassionante e accattivante che c’è dietro le trasformazioni chimiche e le domande su come è fatta la materia. Ma se i ragazzi non sono preparati cognitivamente, l’applicazione accattivante (e questa è una mia opinione) è una cosa effimera e deontologicamente sbagliata.


3° Abilità: Quali abilità o competenze e attitudini sono da sviluppare e migliorare per istruire gli studenti nelle materie scientifiche?
Occorre dividere le abilità o competenze in due categorie: quelle di base e quelle specifiche disciplinari.
Tra quelle di base metterei molte abilità linguistiche, come l’uso dei connettivi logici, es. il “perché”, il “perciò”, il se… allora… ecc. per costruire le basi del pensiero causativo, dei ragionamenti. Se non prepariamo l’uso di queste parole è impensabile richiedere una spiegazione di un qualcosa o progettare un piano di lavoro per la risoluzione di un problema due cose senza le quali non parliamo di scienze ma di nozionismo. Sempre tra le abilità di base, o trasversali, metterei quelle matematiche: il ragionamento proporzionale; riconoscere l’operazione singola da usare in problemi basati su rapporti di frazioni pure (multipli e sottomultipli) anche in relazione ai decimali, alla valutazione degli ordini di grandezza, i rapporti di distribuzione e contenenza tra variabili discrete e continue: saper leggere mg/L come “numero di milligrammi per ogni Litro”. Il concetto di variabile, per cui nella frase “in questa scuola per ogni studentessa ci sono 4 studenti maschi” non sia tradotto 1F = 4M, dove i simboli “F”, “=”, “M”, sono visti come sostituti delle parole “femmina”, “ci sono”, “maschi”.
È evidente che all’acquisizione di queste competenze dovrebbero lavorare insieme tutti i docenti del biennio.
Per quanto riguarda le competenze specifiche disciplinari non dovrebbero esserci problemi a includere il tutte le competenze relative al passaggio dal livello simbolico a quello sostanziale-fenomenologico e dal simbolico al particellare e viceversa. Per esempio, quante molecole, quanti atomi, quante diverse sostanze, quanti elementi sono compresi o indicati nella scrittura 3H2O + 2SO3.
Insomma, abbiamo sempre a che fare col linguaggio: linguaggio relativo al testo descrittivo – esplicativo; l’uso di segni matematici, entrambi in prestito all’ambito linguistico specifico della chimica.
In effetti imparare una disciplina non è molto diverso dall’imparare la lingua madre. In entrambi i percorsi ci sono dei concetti spontanei che iniziano a viaggiare verso l’alto fino a convergere nelle strutture concettuali preparate dall’istruzione. Ne l’una né l’altra si possono dire concluse in due soli anni. In entrambi i casi le regole grammaticali non bastano: occorrono l’esperienza concreta e l’esperienza mediata, consistente nella possibilità di cimentarsi, imitare e mettersi in gioco nella nuova lingua.