martedì 28 luglio 2015

Il pensiero computazionale tra Platone e Aristotele

Iacoboni (i neuroni specchio, Bollati Boringhieri) racconta che le scoperte sulla comunanza percettiva e motoria nelle aree F4 e F5 del "macaco nemestrino" compiute negli anni ottanta, le stesse aree dove di lì a poco si sarebbero scoperti i neuroni specchio, fu in qualche modo anticipata da Merleau-Ponty, con un approccio filosofico "fenomenologico". La corrente, a cui aderiva anche Martin Heidegger, proponeva di "tornare alle cose stesse". Iacoboni riconosce in questo atteggiamento filosofico un'attitudine di fatto aristotelica che contrappone a quella platonica del "subire la seduzione del Santo Graal", del voler cioè "scoprire l'essenza ultima dei fenomeni, finendo così con l'impantanarsi nella riflessione astratta".
Nel caso di Feynman per esempio è sempre prevalso l'atteggiamento fenomenologico che nel fisico americano comunque è sempre stato finalizzato a mettere a punto sistemi di descrizioni e spiegazioni alternativi e innovativi, mentre Einstein ha utilizzato entrambi gli approcci: quello fenomenologico per esempio nel caso di tutti i lavori del 1905, ma anche quello platonico nella ricerca della relatività generale e delle teorie di unificazione, dove si è, in effetti, "impantanato".
L'orientamento fenomenologico, prosegue Iacoboni, "suggeriva di concentrare l'attenzione sugli oggetti e sui fenomeni del mondo e sulla nostra esperienza interiore di quegli stessi oggetti e fenomeni." Dunque consiste in pratica nel liberarsi di schemi dominanti anche se questi sembrano molto naturali, come per esempio l'idea che esistano nel cervello compartimenti separati per il movimento, per le percezioni e per le elaborazioni. Il "concentrarsi sulle cose stesse" cioè sulla fenomenologia, effettivamente ci può aiutare a liberarci di paradigmi che spesso agiscono anche "a nostra insaputa". Questo approccio coincide praticamente con il newtoniano "ipotesi non fingo" e, se esso non scivola nello sperimentalismo fine a se stesso, è solo grazie al fatto che la mente umana, la mente del ricercatore, è naturalmente e spontaneamente predisposta ad elaborare spiegazioni a dare un senso ai dati sperimentali ed a costruire teorie. Iacoboni racconta che quel gruppo di ricerca, l'équipe di Rizzolatti, non sprecò anni nel "tentativo di formulare regole computazionali astratte e complesse allo scopo di spiegare le osservazioni apparentemente bizzarre che andavano accumulando".
Questa affermazione ci ricorda invece che i metodi computazionali servono soltanto quando si può confidare su dei meccanismi certi, che in quel caso, essendo costituiti da uno schema preconcetto erroneo, non avrebbero mai potuto approdare a qualcosa di utile. In altre parole i metodi computazionali non possono servire per avere idee nuove su come è fatta la realtà e neppure per rendersi conto che tali idee sono necessarie.
Iacoboni conclude così la narrazione del percorso dal suo punto di vista di filosofo-storico della Natura della Scienza: “furono invece capaci di applicare alla ricerca neurofisiologica un approccio nuovo, indice di una mente aperta, approccio che io definisco «fenomenologia neurofisiologica» solo grazie a questa loro attitudine innovativa fu possibile rendersi conto che nel cervello percezione e azione sono un processo unitario.” Qui la "mente aperta" è consistita essenzialmente nel dare il giusto peso alle evidenze sperimentali e a teorizzare quel tanto che bastasse per avere un quadro coerente dei fenomeni, senza condizionamenti teorici impliciti o espliciti, ossia l'aver "lasciato parlare gli esperimenti" che però, come sappiamo bene, non produce proprio nulla se la mente non è ben aperta e predisposta. D'altra parte il sostenere che percezione e azione sono un processo unitario, più che una teoria vera e propria è una descrizione di come deve essere fatto in grandi linee un dato sistema complesso, il che prelude e prepara ad una ricerca teorica più approfondita che abbia quella forma o caratteristica come precondizione ineliminabile. Possiamo parlare di " forma teorica".
Ciò non dimostra, però, che il metodo platonico che pone l'obiettivo in uno scopo teorico, come forma della teoria desiderata o come metodo generale per costruire spiegazioni, sia sempre scarsamente proficuo se assunto come punto di vista metodologico. Non lo è stato, inutile, né per Einstein né per Vygotskij.
A proposito di quest'ultimo è interessante il paragrafo "spiegazione contro descrizione" da "il processo cognitivo" di Vygotskij, Bollati Boringhieri pag 95, dove si mettono a confronto due approcci della ricerca psicologica: quello fenotipico cioè descrittivo, e quello genotipico, considerato esplicativo, cioè rivolto alla ricerca degli effettivi rapporti dinamico-causali che per Vygotskij coincidono con la prospettiva evolutiva. L'analisi oggettiva per Vygotskij comprende una spiegazione scientifica delle manifestazioni esterne (idiosincrasie fenotipiche) e del processo in esame. Vygotskij dice: «la nostra ricerca sul linguaggio dei bambini piccoli ci porta al principio fondamentale formulato da Lewin: due processi fenotipicamente identici o simili potrebbero essere radicalmente diversi tra loro nei loro aspetti dinamico-causali e viceversa; due processi che sono molto vicini nella loro natura dinamico-causale potrebbero essere molto differenti fenotipicamente. L'approccio fenotipico categorizza i processi secondo le loro somiglianze esteriori. Marx commentò l'approccio fenotipico in una forma più generale quando affermò che "se l'essenza degli oggetti coincidesse con la forma delle loro manifestazioni esterne allora ogni scienza sarebbe superflua".»

Posso concludere che la concezione platonica, che si può trovare estrapolando la corretta visione di Marx, e la concezione aristotelica, esemplificata dalla corrente fenomenologica di Merleau-Ponty, sono entrambe assunzioni metodologiche valide nella ricerca su sistemi particolarmente complessi e rese di fatto coincidenti dall'essenza stessa della scienza, che è la ricerca del senso, cioè di spiegazioni capaci di giustificare, come minimo descrivendo in un quadro unico e coerente, i diversi dati empirici in nostro possesso.

In questo senso il cosiddetto pensiero computazionale si riduce a mero strumento tecnologico, successivo all'ideazione teorica, utile allo sfruttamento pratico delle teorie della natura per risolvere problemi, o alla progettazione combinatoriale degli esperimenti da fare, e nel gestire informazioni " massive". Ma NON a fornire la comprensione della natura e neppure della natura dei problemi che è pur in grado di risolvere. 

Trovo perciò veramente singolare che il " Computational Thinking", oggi pompato da Google come disciplina scolastica, sia subdolamente venduto come surrogato del pensiero critico e creativo scientifico e come tale accettato dalla miope e pessima scuola di Renzi (che ha tra l'altro avallato il taglio alle scienze sperimentali perpetrato dalle riforme precedenti). Si dovrebbe perlomeno considerare la lunga esperienza alla primaria con il LOGO e il secolare sforzo di Casadei dell'università di Bologna di integrare il pensiero computazionale a scuola (es. col prolog) con ben altre motivazioni e modalità (senza tagliare le scienze), competenze regolarmente ignorate dai riformatori occulti paraministeriali. 

Per questa ennesima supposta inflitta dall'alto al sistema educativo italiano esistono solo due spiegazioni possibili: la cecità, oppure il fatto che il calcolo computazionale nella nuvola o col device costa molto meno di laboratori e docenti che facciano praticare agli studenti il vero pensiero critico scientifico e la creatività controllata dalla realtà oggettiva, più difficile di quella virtuale; in più ci saranno già agenzie di formazione con la bava alla bocca, i soliti "amici del ministero", già pronte a guadagnarci, come fu per le LIM. Oppure, più probabilmente, ambedue le cose.

domenica 26 aprile 2015

Pensiero laterale e barometri

Stimolato da un post di FB sul pensiero laterale di deBono, associato a questa pagina "meme fasullo di Internet",
ho pensato di rivedere qualche vecchio ricordo su de Bono e di verificare la leggenda metropolitana su Bohr. Se fosse stato veramente Bohr, George Gamov avrebbe parlato copiosamente dell'episodio! 

Comunque quello studente così singolare, se ciò che racconta il prof. Calandra è vero, meriterebbe almeno un nome e cognome. Ma veniamo alla parte che mi interessa veramente.

De Bono ci ricorda che la scuola insegna solo a ricordare e riprodurre procedure. I nostri studenti dicono: "come si faceva questo?"
Li stiamo riducendo a riproduttori o " restitutori" di contenuti e procedure cieche (prive di significato).
Il pensiero laterale è invece un pensiero produttivo, che non è "ragionamento logico", ma sfrutta l'implicito, la mente viaggiante a ruota libera.
Innanzitutto è un grave errore pensare che i nostri studenti desiderino quel tipo di scuola che richiede di pensare liberamente e con la propria testa in ogni disciplina,  quando loro ritengono di saperlo fare a sufficienza per le loro questioni, per lo più non scolastiche, che li interessano. Dalla scuola si aspettano e preferiscono ricevere certezze, procedure da applicare ciecamente e senza coinvolgimento (a parte quello connesso con premi e punizioni), e si ribellano all'idea del rischio extra che sarebbe correlato alla sfida di un vero problema. Giustamente, considerano sufficiente il rischio di insuccesso che si corre nel riprodurre procedure certe. Punto di vista inevitabile e comprensibile, almeno finché il sistema di valutazione continuerà a premiare la quantità e la correttezza di risultati su prestazioni e non la qualità di processi, il coinvolgimento attivo, con percorsi e attività adeguati.
De Bono sottovaluta però l'aspetto evolutivo della mente. Il pensiero produttivo, o laterale, di un preadolescente creativo non è per niente lo stesso di quello di un adulto. I livelli di consapevolezza sono totalmente diversi se l'adulto ha sviluppato un pensiero per concetti. La consapevolezza, che permette di distanziarsi dalla propria creazione e riprodurla anche senza avere i pezzi sotto mano, e senza dovere ogni volta ricominciare tutto da capo, è data dal fatto di dare un nome alle cose, anche astratte, ossia dal pensiero per concetti. Sono i concetti che "catturano le intuizioni" e le mettono nella memoria semantica, rendendole accessibili al pensiero "verticale", logico che - come ammette lo stesso de Bono - è altrettanto importante di quello laterale. Sono sempre i concetti, le parole, a permettere di dare significato e trascendenza alle cose che la nostra mente produce in questo " spazio libero".

Ecco perché il problem solving e il metodo della scoperta puro e gran parte dell'ibse non funzionano.

Non fanno nulla per aiutare lo sviluppo del pensiero per concetti, che accompagna l'adolescenza se e solo se l'adolescente si trova nel l'adeguato contesto socioculturale. Non si tratta di sviluppare i concetti o insegnare i concetti, ma di sviluppare "strutture di generalizzazione" capaci di sistematizzazione a partire dalle strutture di generalizzazione che non ne sono capaci (pre-concettuali) e che si sono sviluppate precedentente. Una "strumentazione" mentale tanto nuova e diversa da quella del 12-enne quanto il pensiero che produce è diverso da quello che ri-produce. La scuola non è sufficientemente (concettualmente) consapevole delle differenze  tra stadi di sviluppo e tra le strutture di generalizzazione che sono state oggetto delle indagini sperimentali di Vygotskij, pluriconfermate da esperimenti successivi, e trasformate in una teoria socioculturale coerente. 

La scuola va avanti ancora per tentativi ed errori, più che altro è brava a lamentarsi, con insegnanti che si basano esclusivamente sulla propria esperienza, costruita per lo più tutta su una stessa fascia d'età, dove invece la teoria socioculturale fornisce oggi il necessario quadro teorico per non considerare tutti gli studenti dell'istruzione secondaria così come si considerano essi stessi: "sempre uguali nel tempo" a dispetto di ogni evidenza o, peggio, "uguali all'insegnante", dato che "la logica è logica, ed è uguale per tutti" (come pensa la maggior parte dei colleghi di matematica).

Quindi attenzione ad appoggiarsi troppo sull'affermazione finale del ragazzo: "ne ho abbastanza dei professori che vogliono insegnarmi come pensare". Molti colleghi saranno già pronti a prenderlo come alibi per non fare nulla e degradare la conoscenza della psicologia dell'età evolutiva a sterile " psicologismo". È nostro compito invece costruire una didattica per l'apprendistato cognitivo e insegnare proprio a pensare meglio, costruire teste ben fatte, e non "rispettare" la presupponenza di una minoranza di studenti giustificabile solo in presenza di professori che ottusamente "pretendono 'LA' risposta "giusta" (quella da loro conosciuta e che ne esclude altre), ossia misurare la pressione al livello stradale e in cima al grattacielo e poi applicare la formula giusta.

POST SCRIPTUM: collaborazione analogico - verbale
Durante la mia 2R domenicale (running reflection) mi sono reso conto che con questo post rischio di dare l'impressione che il quadro teorico di Vygotskij costituisca un punto d'arrivo definitivo. Niente di tutto ciò. La descrizione di V. si riferisce allo sviluppo dei concetti nel contesto del pensiero verbale. Ho pensato infatti che molto si potrà ancora fare per avere una descrizione valida integrando la teoria di V. con concetti più moderni. Il fenomeno della transizione dalla struttura di generalizzazione per pseudo-concetti (complessi) a quella per concetti propri, in particolare, è sempre una progressione lenta e non qualcosa che "scatta" all'improvviso da una modalità all'altra. Se vediamo una persona creativa preadolescente come una persona che ha buone capacità di rievocare pezzi della propria memoria episodica (completa al livello percettivo ed emotivo, piena di senso ma non prettamente verbale, e scarsamente consapevole), rilevando analogie (pensiero analogico) sull'oggetto problematico e di riflessione, e se consideriamo che lo stesso soggetto, qualche anno dopo potrebbe aver sviluppato un gran bagaglio di conoscenze dichiarative senza che queste abbiano alcuna capacità di interagire con le prime, allora non è possibile che il tipo di sviluppo descritto da V. non sia altro che l'avvio di una sorta di "collaborazione" tra il pensiero verbale e quello analogico, ricco di immagini e percezioni statiche? Il pensiero verbale immette degli statement di conoscenza dichiarativa, accademica, in loop fonologici della memoria di lavoro, prolungandone in tal modo il tempo di permanenza, mentre il pensiero analogico, implicito, che lavora in parallelo e persino quando non siamo del tutto coscienti, si dà da fare a provare associazioni e testarle fino a riuscire a "sovrapporle" alle parole, come nubi che finalmente riescono a radunarsi e dar luogo alla pioggia fertilizzatrice.
Credo che questo processo, che richiede aiuto, tempi lunghi ed esperienze di successo, corrisponda con quanto V. fa avvenire nella zona di sviluppo prossimale. In altre parole il pensiero creativo di un adulto che ha una buona padronanza nell'uso evocativo di concetti astratti estende di molto il campo di esperienza da cui attingere, le possibilità di controllo reciproco tra le due modalità di pensiero, aumentando la creatività vera (che non è quella artistica, ma quella permette di riconoscere e risolvere problemi inediti). Questa "collaborazione", una volta divenuta in qualche modo consapevole, permette anche di approcciare in modo diverso lo studio di questioni teoriche astratte, perché lo studente non si accontenta più di relazioni puramente logiche o gerarchiche, o di definizioni, tra i concetti, ma pretende di ricostruire lo stesso senso concreto che caratterizza altri concetti di cui ha esperienza più diretta. Passa cioè dalla conoscenza puramente dichiarativa a quella per lui significativa.