sabato 27 giugno 2009

Perché sono sempre più nauseato dalla scuola

Il titolo potrebbe essere anche: "perché non ci possiamo lamentare se noi insegnanti non siamo considerati come professionisti" e la risposta sarebbe estremamente semplice: "perché per la maggior parte non lo siamo".

Leggo che: “Attualmente, la scuola italiana non è in grado di premiare i capaci e i meritevoli e nello stesso tempo non è nemmeno in grado di aiutare efficacemente gli studenti e gli insegnanti in difficoltà” (http://www.lavoce.info/binary/la_voce/articoli/invalsi_pro_111.1245760092.pdf )
Si sottintende al solito l’idea della meritocrazia come capace di migliorare le cose nel campo educativo.
No. I capaci e i meritevoli non devono essere premiati, proprio come studenti e docenti in difficoltà non devono essere puniti.
I capaci vanno anch’essi aiutati e “studiati”. E i capaci non coincidono necessariamente con chi sperimenta o ha sperimentato il successo scolastico, dal momento che esiste un vizio valutativo nel sistema scolastico.
Abbiamo bisogno di riconoscere il successo formativo attraverso criteri esterni a quelli dell’attuale sistema scolastico e al tempo stesso di distinguerlo dal successo individuale a posteriori e in senso lato. Abbiamo dunque bisogno di definire con maggiore precisione l’idea di formazione culturale dell’individuo come processo e come competenze. E abbiamo bisogno di strumenti validi per misurare e valutare le abilità di processo degli studenti (quindi ben vengano i test INVALSI, purché ben fatti, ben calibrati e ben consegnati a docenti collaboratori, capaci di utilizzarli e comprenderli, piuttosto che a docenti che fanno “da tramite” per un controllo superiore che abbia fini diversi da quelli statistici). Una volta acquisito l’obiettivo formazione come valore indipendente dalla valutazione tradizionale scolastica, la valutazione diventa il campo studio della figura del docente ricercatore, non premiatore o punitore. L’attributo “meritevole” connota una categoria dannosa per la pedagogia perché implica una condizione di attesa di riconoscimenti del merito. E a sua volta questa condizione, proprio nei casi in cui si verifica in situazioni reali, è connessa all’eventualità che lo studente studi in funzione di tale merito riconosciuto.
La formazione dell’individuo comprende la ricerca e la creazione di ben più nobili e intrinseche motivazioni, quali la curiosità, l’esercizio del pensiero creativo, il tutto modificabile ed esprimibile nell’arco dell’intera vita (vedi LLP).
Il gap principale in questo momento è professionale. La professione del docente è più rivendicata che costruita, coltivata con il serio, costante e soprattutto condiviso lavoro di ricerca del docente. “Non siamo pagati abbastanza per fare anche i ricercatori”. Bene. Allora il circolo vizioso va chiuso qui. Non si accampa tutta questa professionalità che non c’è. Semplicemente si decide di fare gli impiegati.
La professionalità non c’è quando non ci accorgiamo che uno studente ha difficoltà; quando facciamo finta di non accorgerci "mettendo sei", perché comunque quello è un allievo che non dà fastidio o perché "deve maturare" (come se la sua maturazione fosse un processo naturale e staccato dal nostro compito formativo) o al massimo ci sussurriamo all'orecchio che “in effetti qualche difficoltà quel ragazzo ce l’ha”; o quando non possiamo fare a meno di accorgercene e sanzioniamo con “insufficienze gravi” e bocciature inevitabili chi, pur essendo un bravo ragazzo, “presenta difficoltà oggettive in tutte le materie”, senza sapere fare nulla di realmente professionale per evitare questo epilogo.

Non siamo professionisti quando non troviamo insieme ai ragazzi veramente capaci problemi da trattare e su cui misurarci, noi e loro. Pane per i loro e i nostri denti. Perché non possiamo dirci professionisti se non abbiamo e non sviluppiamo alcuna curiosità nel campo che pretendiamo di insegnare, sancendo un solco incolmabile tra la materia scolastica e la disciplina. Non siamo né professionisti né onesti quando caliamo ragazzi cosiddetti "bravi", ma buoni soltanto a sgobbare sui libri per ottenere agognati meriti, a figurare in attività che abbiamo creato e gestito noi. O quando ci sentiamo nudi nel ruolo di studente ricercatore insieme a studenti che vivono lo studio con passione maggiore della nostra. Non c’è professionalità quando l’insegnante non è capace di mettere a punto prove di verifica delle competenze e non si fida di quelle che fa mettendo voti dal cinque al sette per non sbilanciarsi, ma anche per non perdere tempo a fare qualcosa di più serio e attendidibile. Non c’è professionalità quando il docente non sa costruire dei percorsi adeguati a modificare i processi e a permetterne il riconoscimento. Quando una scuola, autonoma solo a chiacchiere, non è in grado di mettere a punto un servizio di osservazione del funzionamento e potenziamento dei processi cognitivi degli studenti che presentano difficoltà di studio anche fosse in una sola materia, sfruttando le professionalità, ad esempio, di chi ha esperienza di mediazione e applicazione del metodo Feuerstein, o creando all’occorrenza le capacità diagnostiche necessarie, quella scuola non può dirsi professionale sull’ambito che maggiormente le compete. Quella è una scuola in cui tutti gli insegnanti sono ugualmente impiegati a riconoscere meriti e demeriti.

Noi saremo professionisti se e quando lavoreremo sugli strumenti e i metodi necessari per aiutare tutti gli allievi a diventare pensatori migliori. Nella misura in cui riusciremo a realizzare quanto valutato a livello europeo dall'indagine OCSE-TALIS (Newsletter MPI 19 giugno): "considerare l’insegnamento un modo per favorire l’apprendimento autonomo degli studenti, piuttosto che un processo di trasmissione diretta delle informazioni".

PS: tutto ciò che auspico per la scuola degli studenti della secondaria accade quotidianamente nella formazione primaria. Quindi non è utopia.

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