lunedì 28 giugno 2010

Personalizzazione si può

logo_Seminario_ADIAnche quest'anno molti alunni sono risultati bocciati e sospesi. Tutto nella norma? È pur vero che le differenze nelle condizioni in ingresso dei ragazzi sono stratosferiche ma, in sostanza, non si fa che "ratificarle". Il modello di insegnamento a "catena di montaggio" è adeguato a tale eterogeneità? Conosciamo le reali difficoltà e le reali potenzialità dei ragazzi? Risposte dell'ADI al seminario "Perché mi bocci?" svoltosi a febbraio e al seminario "Personalizzazione si può" di agosto.

Sui concetti di varianza (eterogeneità), personalizzazione, modelli di scuola, che emergono come aspetti cruciali nei due seminari ADI, riporto alcuni brani da Benedetti Vertecchi, La Scuola Disfatta, Franco Angeli, pagg. 44-46 (citazioni in corsivo).

In relazione ai test OCSE-PISA che vedono la scuola italiana in fondo alla classifica rispetto alle scuole del nord Europa - anche per l'elevata eterogeneità tra allievi e tra scuole (es. nord-sud):
"Si può dichiarare che scopo della scuola è di assicurare a tutti il conseguimento di un certo repertorio di competenze, ma se avviene che in talune scuole tale repertorio sia stato effettivamente conseguito dalla grande maggioranza degli allievi e in altre no non si può non inferire che sui risultati dell'educazione scolastica hanno inciso variabili di origine non scolastica, nei confronti delle quali le iniziative di contrasto siano state assenti o comunque troppo deboli."

Relativamente al circolo virtuoso tra scuola e società, che richiede secoli e non decenni per instaurarsi (quella che in Italia riteniamo essere "l'istruzione di sempre" in realtà ha pressappoco la nosta età, per cui è giovanissima):
"La Finlandia può vantare una scolarizzazione assai più radicata nel tempo, che si traduce in un contesto sociale molto più favorevole all'istruzione"
Affermazione che si può proseguire dicendo che l'istruzione migliore e più uniforme costituirà una società migliore e con aspettative culturali maggiori e a loro volta più uniformi, come di fatto accade oggi in Finlandia, dove non ci sono "scuole d'eccellenza" né per risorse disponibili, né per risultati, ma dove, quindi, tutta la scuola è d'eccellenza.


"I dati ora diffusi mostrano che in Italia sta cambiando il modello di scolarizzazione, che da solidale tende a diventare competitivo (come, per esempio, quello degli Stati Uniti). I sistemi competitivi si caratterizano per la differenza accentuata tra la parte superiore e quella inferiore della distribuzione. Nel nostro caso, si sta sfrangiando solo la parte inferiore, mentre non ci sono segni che indichino miglioramenti verso la parte alta della distribuzione: è come dire che siamo in presenza di una competizione imperfetta, in cui le differenze aumentano solo perché peggiorano le condizioni degli studenti più deboli. [...] la crescita della scuola in Italia ha costituito un fenomeno abbastanza recente [...] ne deriva che il profilo culturale della popolazione italiana appare ancor oggi fortemente differenziato [...] Una conseguenza delle differenze di profilo culturale presenti nella popolazione è costituita dal fatto che, nella maggioranza dei casi, i ragazzi che frequentano le scuole secondarie vivono in un contesto famigliare di livello culturale modesto (mediamente, i genitori dei ragazzi che frequentano attualmente le scuole secondarie superiori dispongono di una licenza di scuola media). [...] Un modello di scolarizzazione solidale tende a modificare complessivamente il livello culturale della popolazione, favorendone l'accrescimento graduale. La maggiore attenzione è posta nel sostenere quegli allievi che, fruendo di condizioni meno favorevoli, incontrano maggiori difficoltà. Se si passa ad un modello competitivo, l'attenzione prevalente si sposta verso la parte più favorita della popolazione: in altre parole si rinuncia a perseguire un disegno di modifica complessiva del profilo culturale, perché si ritiene che sia socialmente preferibile avere una fascia di rendimento elevato. Il fatto è che il passaggio da un modello solidale ad uno competitivo non è praticabile, se non per fasce molto ristrette di popolazione, quando il livello culturale diffuso è modesto; si rischia infatti di ottenere la stessa stratificazione culturale già presente nella popolazione. E non serve qui ricordare che le esigenze di sviluppo della società italiana richiedono che frazioni ben più consistenti di quelle attuali dispongano di competenze di livello superiore. [...] attraverso l'educazione si contribuisce ad affermare l'identità dei paesi virtuosi."


Come realizzare l'intervento specifico sugli studenti più svantaggiati? Attualmente gli atteggiamenti della classe docente sembrano oscillare solo tra due non-soluzioni, ugualmente sbagliate. Quella del "promuovere" l'insuccesso (buonismo?) e quella di bocciare il fallimento, spesso predestinato (giustizialismo? meritocrazia "imperfetta"?) Ciò che accomuna entrambe le pseudosoluzioni è l'incapacità di apportare modificazioni reali negli allievi con difficoltà. Non è affatto sufficiente il "non trascurare gli allievi con difficoltà" del codice deontologico dell'ADI (art. 27). Il paragone con l'ospedale è ancora una volta appropriato: per problemi speciali occorrono diagnosi precise e cure speciali, somministrate da specialisti. Occorrono poi condizioni di contesto idonee (divisioni, reparti, strutture, organizzazioni) e non ammucchiare tutti nella stessa routine.
Se abbiamo ragazzi con serie difficoltà nel fissare per iscritto un ragionamento o nel ricavare almeno qualche informazione dalla lettura di un testo, e capaci solo di rispondere a comandi verbali, dobbiamo prima riconoscere e poi prendere atto di tali differenze qualitative e sottoporre gli illitterati a programmi specifici che li mettano in grado di trasformare segni e simboli in significati, e non lasciarli in un contesto scolastico in cui gli stessi testi e gli stessi compiti siano utilizzati sia per chi è in grado di tradurli in significati, sia per chi non è (ancora) in grado di farlo.


L'eterogeneità nella scuola si abbatte con la personalizzazione degli interventi educativi, cosa non realizzabile se vi si trovano solo "bravi medici generici" e un'organizzazione indifferenziata. Si parla tanto di qualità... appunto: si parla!

Prof. Alfredo Tifi

L'orale all'esame di stato e la crisi del pensiero produttivo

Concetti, nozioni o processi: cosa vogliamo, sappiamo, dovremmo verificare - accertare?

Basta assitere ad uno o due esami orali per rendersi conto che, tesina a parte, le domande sono riconducibili al "vediamo se sai...", o: "vediamo cosa mi sai dire su..." e: "cosa significa..". o: "perché la tale cosa..."

In pratica agli esami si chiede ciò che lo studente potrebbe non sapere, come in una specie di interrogatorio, in cui si indaghi sulla qualità e quantità della "preparazione" individuale.
Esiste un'alternativa più giusta e più ricca di informazioni utili: chiedere ciò che egli sa in quanto frutto di un suo lavoro personale. Purtroppo questo non può essere fatto ora, senza un tempo di preparazione di due o tre anni, senza aver scelto di dare all'istruzione e ai nostri studenti un'altra impronta.

Gli studenti si bloccano, all'orale, perché non sanno "quella" cosa, più spesso perché non comprendono cosa viene loro esattamente richiesto in quel momento (l'idea che sta nella mente dell'esaminatore) o perché ciò che è stato richiesto è noto all'esaminando solo sotto altri punti di vista.
Insomma lo studente deve adattare "se stesso" a ciò che viene richiesto dall'esaminatore, il quale deve solo accertare il grado di rispondenza e, nei casi peggiori, il grado di "lontananza" dello studente da sé, dalla materia che egli rappresenta.
D'altra parte in un esame orale non si potrebbe profilare un rapporto di avvicinamento dell'esaminatore al pensiero dello studente nel senso di interazione e mediazione finalizzata a modificare le conoscenze del candidato (come accade normalmente nelle verifiche formative, durante l'anno scolastico). Quando ciò si verifica all'esame, serve solo a sottolineare l'inadeguatezza della preparazione dello studente.

Le critiche

Questo tipo di esame orale è profondamente sbagliato e rivelatore del malfunzionamento dell'istruzione.
Esso tende a verificare la sovrapponibilità della preparazione con un syllabus convenzionale che si dà per condiviso e universale.
In realtà non esiste tale syllabus universale e non si può pretendere (anche se ci trovassimo in un sistema scolastico di vecchio stampo) che debba essere condiviso.

La domanda del tipo: "vediamo cosa mi sai dire su..." è meno restrittiva e minacciosa di "vediamo se conosci...", ma comporta implicitamente un errore: "l'argomento che ti richiedo è della massima importanza; ciò che tu mi dirai dovrà essere il più possibile rispettoso del sapere universalmente stabilito su questo argomento". Insomma: "con ciò che dirai dovrai mortificare il meno possibile la conoscenza ufficiale esistente su questo argomento e la mia funzione qui è di controllare che tu lo faccia."
L'errore (la critica) non ha a che fare, come si potrebbe pensare, con il giogo imposto dal confronto col sapere ufficiale. Piuttosto il fatto che non conti ciò che lo studente è capace di produrre (o è stato capace di produrre in passato), in prima persona, intorno o relativamente a un tema, ma ciò che egli è in grado di riprodurre di quanto acquisito dalle fonti.

Se invece chiediamo "cosa è l'entalpia" o "cosa significa..." o "perché mettiamo qualche cosa in uno strumento", significa che vogliamo accertare la comprensione semantica, concettuale, e funzionale di alcuni termini e oggetti che riteniamo giustamente fondamentali in una disciplina e, altrettanto giustamente, determinanti per la formazione di una valutazione. Ma facciamo ciò soltanto per una percentuale infima del "bagaglio" disciplinare, per cui la cosa non ha molto senso rispetto all'obiettivo valutativo. D'altra parte l'obiettivo di verificare la comprensione degli elementi fondamentali di una disciplina potrebbe essere facilmente, uniformemente e validamente raggiuno con appositi test (e/o ci aspettiamo che sia stata già ampiamente valutata durante il triennio: perché non fidarsi, per questo, di quanto già fatto dalla scuola? Solo la scuola può essere garante delle valutazioni che ha elaborato; o preferiamo siano dei commissari-ispettori a controllare l'operato delle scuole?)

Che cosa succederebbe se un candidato o un docente esterno alla commissione ponesse una domanda qualsiasi all'esaminatore sulla materia comune? Possiamo essere certi che non avremmo mai situazioni imbarazzanti analoghe a quelle in cui si trova il candidato? Quanto le conoscenze di due docenti, anzi, due cultori della stessa materia, sono fedelmente sovrapponibili?

Infine: cosa rimane, nella cultura del candidato, di quanto preparato appositamente in funzione dell'esame, tre mesi o tre anni dopo l'esame?

Immagino che molti vorranno respingere queste critiche sia perché esse includono praticamente tutto ciò che normalmente si fa all'orale, sia perché non si ha esperienza alcuna di possibili conduzioni alternative dell'esame stesso.

Perciò suggerisco di rimandare la reazione istintiva di eccepire alle critiche, a dopo la lettura del seguente scenario d'esame - altrettanto naturale - tramite il quale spero di chiare le modalità alternative, il loro scopo, e le implicazioni a monte nell'istruzione.

L'allievo X è impegnato nel colloquio orale della materia Y, col prof. Z.
Dimmi X, qui vedo nel tuo portfolio questa tua applicazione sull'argomento Y' da te svolta in quarto e poi perfezionato in quinto. Potresti raccontarmi che cosa hai scoperto su questo argomento-ricerca-approfondimento, e come? attraverso quali fonti e quali esperienze personali? Magari potresti dirmi poi perché ti sei avvicinato ad esso e, infine, quali concetti della disciplina Y sono entrati in gioco e in che modo?
La stessa cosa poi si ripete con altri docenti in altre materie.
La commissione si riunisce per valutare il grado di padronanza, autenticità delle applicazioni descritte, dei processi e capacità di argomentazioni che lo studente è in grado di attuare, assistita dai commissari interni che conoscono meglio la storia dell'alunno e, in base a tali evidenze, stabilisce in che grado lo studente è divenuto "cultore" della disciplina e quanto strutturate/marginali siano le competenze utilizzate rispetto ai nuclei disciplinari in ciò che egli ha prodotto (anche se non autonomamente), ma è in grado di padroneggiare individualmente.

Ritengo che tale tipo di esame sia molto più indicatore dello spessore culturale di un alunno, che sia capace di fornire il giusto rilievo agli esiti veramente importanti, e non valutabili nelle prove scritte, di un lungo percorso di istruzione; riconoscendo i processi di accesso alla e fruizione della conoscenza che l'allievo ha costruito con adeguato training durante gli anni di scuola; approccio alla conoscenza ed abilità di processo che saranno, queste, importanti per tutta la vita.
Ritengo che questo tipo di esame sia anche facile da realizzare, con studenti aventi normali capacità, che però sarebbero resi differenti dagli attuali, da tutta la necessaria preparazione precedente.

La preparazione precedente
  1. In ogni materia del triennio ogni studente dovrebbe produrre una o due applicazioni-approfondimenti-studi di casi ecc., per ogni anno, ed eventualmente due in quarta e due in quinta.
  2. Questi lavori potrebbero essere svolti anche in collaborazione con altri studenti della stessa classe, o anche di classi diverse.
  3. I lavori potrebbero avere un utilizzo immediato come ad esempio progettazione di attività di laboratorio o opere da realizzare nella didattica coinvolgendo la classe.
  4. I lavori dovrebbero originarsi da problematiche o stimoli interni alla disciplina, e sia i docenti, sia gli studenti dovrebbero essere vigili e propensi a proporre e individuare sviluppi del materiale curriculare partendo dagli stimoli sempre presenti nelle discipline e nelle loro applicazioni (ciò sia per il rispetto stesso delle discipline insegnate e del loro valore culturale).
  5. I lavori sarebbero obbligatori e nel portfolio sarebbe riportata la cronologia della loro realizzazione e la valutazione.
  6. La valutazione dovrebbe esprimere il grado di coinvolgimento e revisione personale, basata sui rilievi dei pari, dell'insegnante e personali, l'attinenza disciplinare e una volta completato, di padronanza espositiva (la capacità dell'allievo di argomentare quanto da egli stesso presentato). La valutazione dovrebbe essere espressa, su ciascuno di questi parametri, su una scala a tre valori, di cui il primo e secondo sarebbero accettabili e il terzo indichirebbe l'insufficienza.
Ovviamente lo studente saprebbe che all'esame di stato il suo portfolio sarebbe esaminato e in parte richiesto oralmente, permettendogli una valutazione complessiva fino 30 punti, cioè più di quelli ottenibili con il credito scolastico.

A cosa potrebbe servire tutto ciò?
1. riportare la curiosità tra i banchi di scuola;
2. introdurre una componente di personalizzazione nell'istruzione;
3. abituare gli studenti a produrre, piuttosto che sempre riprodurre;
4. fornire a tutti l'opportunità di fare la conoscenza con la comprensione profonda, almeno su alcuni argomenti disciplinari o correlati alle discipline;
5. rivalutare il valore di riferimento culturale e strumentale delle discipline, aventi esistenza indipendente da quanto proposto da un singolo insegnante e da un singolo manuale (opponendosi alla tendenza a identificare la materia con l'insegnante o, nella migliore delle ipotesi, con il libro di testo scolastico);
6. responsabilizzare gli studenti nei confronti dello studio come progetto di sviluppo personalizzato.

Le implicazioni per i docenti e la scuola
L'insegnamento delle discipline dovrebbe maggiormente focalizzarsi sulle basi costitutive, sui linguaggi e sui loro significati, per permettere l'accesso basilare a tutti.
Le applicazioni rispetto all'attuale dovrebbero essere limitate per consentire lo sviluppo dei lavori personalizzati (a differenza delle cosiddette tesine e progetti extracurriculari, che si vanno a sommare al lavoro dello studente, finendo spesso con l'interferire e per l'essere realizzabili in modo completo solo per una parte degli studenti).
La capacità di composizione del testo scritto, della lettura con comprensione dovrebbero essere esercitate in tutte le materie, compresa la matematica, e non solo in Italiano.

sabato 27 giugno 2009

Progetto INVALSI: più supporto pedagogico alle scuole e meno statistica

Progetto meritocratico di Valutazione INVALSI del valore aggiunto

http://www.lavoce.info/binary/la_voce/articoli/invalsi_pro_111.1245760092.pdf

Non mi sembra un buon sistema ed ho molte riserve su di esso.

Come insegnante dovrei avere la possibilità, un’occasione di riflessione e di un luogo per poter esprimere le riserve.

L’idea del valore aggiunto non mi sembra sufficientemente rispettosa della singolarità delle vite dei singoli studenti e anche di quella dei singoli insegnanti.

Inoltre il singolo risultato in termini di valore aggiunto, per quanto messo in correlazione con alcuni parametri socioeconomici facilmente ottenibili, non credo riuscirà mai a cogliere il risultato sperato, cioè di misurare la qualità dei team di docenti che si sono succeduti o dell’efficacia del sistema scuola verso quel singolo alunno. Anche in termini di tendenza centrale, ho dei dubbi che dalla somma di tanti artefatti, tanti valori aggiunti assegnati a tanti allievi, si possa ricavare un indicatore valido, cioè ripulito da ogni effetto di contesto, per quella scuola o per quel docente - team di docenti.

Mi pare che la semplificazione sia eccessiva … e forse non necessaria.

Critico lo scopo di tutto questo impianto, cioè quello di poter riuscire a premiare, cioè incentivare meglio scuole e docenti.

I docenti hanno bisogno di essere osservati e aiutati da esperti a capire cosa va o non va nelle relazioni educative specificamente messe in atto qui ed ora, senza temere ripercussioni negative future e che sfuggono al loro controllo.

Non credo che i docenti abbiano bisogno di misurare se stessi e nel contempo fare da cavie in un esperimento statistico che invece di osservare e aiutare le professionalità pretende di inferirle a posteriori.

Forse anche gli alunni avrebbero diritto a una valutazione in tempo reale piuttosto che una a posteriori, “a danno compiuto”.

Il modello soggiacente è questo:

Siamo certi che voi avete le professionalità necessarie e sufficienti per ottenere risultati ottimali e comunque non vogliamo entrare nel merito. Se però tali risultati non si ottengono è perché voi non siete sufficientemente valutati, differenziati e soprattutto incentivati affinché tutte le risorse di cui disponete siano realmente messe in campo. Quindi adesso noi mettiamo in atto il miglior sistema del mondo per valutare, dagli effetti, dalle condizioni iniziali e al contorno, qual è il vostro reale impatto sull'apprendimento. Siatene consapevoli. Starà a voi darvi da fare.”

Quale potrà essere la risposta a questo?

  1. Il problema pedagogico di ciò che manca a livello di formazione docente verrà messo da parte
  2. A livello organizzativo ogni scuola effettivamente farà dei passi avanti. Dei servizi utili verranno messi a disposizione da bravi manager anche a parità di investimenti e risorse, sulla base della competitività. Per paura di una perdita di iscritti la logica aziendale troverà volontari per miglioramenti quantitativi e a buon mercato, che potranno portare a un incrementare il “valore aggiunto” di una scuola, ma non potranno portare al miglioramento qualitativo della formazione per ogni singolo studente.
  3. Non ci saranno né il tempo per insegnare ad ogni studente a pensare meglio né le risorse per formare ogni docente a lavorare con metodi migliori nelle classi, risorse per formare alcuni docenti come esperti di apprendimento e difficoltà di apprendimento. Ma tutti si daranno un gran da fare per imparare a risolvere i quesiti nazionali dell’INVALSI. Non sempre in maniera onesta (cioè basta su processi di problem solving generali, ma bensì sulla classificazione per tipi e sulla ripetizione meccanica, cioè sull’addestramento). Usciranno appositi manuali da parte dell’editoria scolastica, e questi diventeranno più importanti dei libri di testo, mentre gli stessi libri di testo si omologheranno alle prove strutturate INVALSI nella scelta di temi esempio. Dopo un po’ l’INVALSI non saprà più che cosa inventarsi (con i test OCSE-PISA questo non accade perché sono inediti). Non sono d’accordo sul punto D-31: “Se le domande sono fatte bene, esercitarsi a rispondere significa apprendere. L'inferenza è indebita, perché potrebbe essere fatta, semmai, solo dopo aver accertato il trasferimento delle abilità acquisite in contesti sufficientemente diversi, cosa che non può essere fatta immediatamente e all'interno delle stesse tipologie di test, né può essere fatta in modo asoggettivo. Che ciò possa avvenire o meno dipende da cosa si intenda per esercitarsi. Se ci sarà un mediatore competente dell’apprendimento, sarà possibile costruire i principi generali specificamente utili e necessari a quel dato soggetto e potenziare le sue sue funzioni cognitive carenti, e allora sarà concepibile il transfert. Quindi il saper risolvere tipologie di problemi, per quanto queste siano generali, di per sé non implica il raggiungimento degli obiettivi formativi che si pretende di misurare. Questo aspetto è piuttosto grave: si pensa che si possano migliorare microsistemi educativi senza avere ipotesi e teorie su di esso, semplicemente per tentativi ed errori. Questa è la scuola dei quiz della patente, non la scuola fatta da professionisti. La filosofia determinista "etichettatoria" che soggiace a tutto l'impianto è inaccettabile.
  4. La scuola degli artefici e protagonisti della cultura e della libertà di insegnamento diventerà la scuola della "preparazione al valore aggiunto", dove saranno le scadenze delle prove INVALSI a decidere quale metodo sarà più opportuno da usare per gli alunni di ogni fascia di età, piuttosto che l’esperienza professionale accumulata in anni di insegnamento e le conseguenti scelte individuali. Si andrà così verso un’omologazione.

Non credo che noi abbiamo bisogno di tutto questo. Di cosa c’è invece bisogno?

Di test tipo quelli dell’OCSE – PISA, ma fatti da campioni di studenti in ogni scuola, su più fasce di età, come da scadenze previste dall’INVALSI. Ma solo una volta ogni tre-quattro anni. Non occorrono i differenziali e valutazioni evolutive e contestualizzate con precisione forse impossibile da ottenere. Sono sufficienti valutazioni in senso assoluto dello stato dell'arte dell'apprendimento alle varie fasce d'età in ogni scuola. Il confronto tra dati triennali o quadriennali, non individuali ma complessivi, sarebbe sufficiente per far sì che ogni istituto che lo voglia veramente possa comprendere, progettare e aggiustare il tiro. I risultati costituirebbero uno strumento utile per costruire la consapevolezza nazionale e a livello d’istituto, di ciò che va e non va nelle competenze di processo degli alunni di tutte le età, per costruire delle task force e progetti formativi e professionalizzanti per i docenti che, riconoscendo di non essere adeguati ai nuovi compiti, sarebbero sì incentivati a formarsi e impegnati a supportare le necessarie revisioni dell’impianto metodologico a favore di tutti. Se vedo che molti alunni di 15 anni non fanno neppure un tentativo per trovare la linea più breve per collegare cinque città su una mappa tra di loro, sinceramente non mi interesssa quanto sapessero fare o meno tre anni fa e con chi, ma mi chiedo se ritengo accettabile la totale assenza di capacità interpretative del testo o di problem solving, e la risposta è - sulla media per n alunni- negativa in assoluto, per quell'età, indipendentemente da ogni altra valutazione differenziale che potrei aver fatto sui singoli alunni. La scuola potrebbe benissimo dimostrare se e cosa ha attivato per cercare di migliorare questo aspetto dal punto di vista metodologico e dell'organizzazone didattica nei tre anni successivi al test. Il metodo del valore aggiunto crea invece informazione aggiuntiva ridondante, pagata con il denaro pubblico, perché la capacità generale di aggredire un problema e non rimanere con le mani in mano, una volta acquisita non si può perdere. Qui si parla di formazione, non di addestramento.

La necessità a regime di testare ogni anno tutti gli alunni di ciascuna delle fascie d'età stabilite è generata dal bisogno di avere il differenziale per ogni alunno e per ogni docente. Come se fosse necessario dover controllare che quell'alunno X ha compiuto un progresso formativo nel problem solving a 10 anni con l'insegnante buono X1 e poi ha perduto questa capacità con l'insegnante cattivo X2 dopo due anni. Che ciò possa accadere o meno, tale livello di monitorabilità dovrebbe servire perché l'insegnante X1 avrebbe bisogno di punizioni e X2 di incentivi. E dovremmo accettare tali livelli di individualizzazione mentre sappiamo che a livello generale e su certe competenze e atteggiamenti gli studenti tornano effettivamente indietro durante il quinquiennio seguente alla primaria segnalandoci malfunzionamenti sistemici della scuola. E tutto in omaggio al postulato meritocratico. Quella dei premi e delle penalizzazioni è una fissazione, un criterio preordinato che non si deve mettere in discussione. Salvo poi rendersi conto, nei dettagli attuativi, che dovrà essere soggetto a mille sotto-criteri – anche soggettivi – di assegnazione di meriti e penalità. Il problema delle soggettività, d’altra parte, viene affibbiato alla gestione interna delle singole scuole, senza alcuna garanzia che in tale ambito il tanto decantato criterio meritocratico sia ancora rispettato-rispettabile: difficile farlo se un lavoro è in parte d’equipe e in parte no e se non si sa bene da dove provengono i “valori aggiunti”.

Per re-direzionare la destinazione del sistema di valutazione verso obiettivi più immediati (e meno costosi), cioè verso incentivi rivolti direttamente alla formazione docente, occorre un’operazione di verità da parte di tutti i lavoratori della scuola.

In mancanza di questa operazione sembra in effetti non esservi alternativa alla macchinosità messa in piedi dall’INVALSI: “noi vi diamo i test, voi comparate i risultati con le vostre valutazioni degli studenti. Se queste non concordano fate mente locale a ciò che insegnate e a come lo insegnate. Magari state usando dei metodi non efficaci per imparare a sviluppare e mettere il pensiero in forma scritta, ad affrontare problemi nuovi, forse non incentivate la metacognizione, magari penalizzate gli errori e incentivate strategie meccaniche per il “sei”, percepite come più affidabili, mentre i nostri test richiedono l’esplorazione delle diverse soluzioni possibili, forse fate lezioni frontali ed educate alla passività e all'individualismo della conoscenza, forse non stimolate l’apprendimento cooperativo e la condivisione degli apprendimenti ecc… Comunque sia sono affari vostri. Fate mente locale su genesi , diagnosi, prognosi dei problemi, e ricordate sempre che per la vostra scuola si profila all’orizzonte la mannaia della penalizzazione”.

In conclusione sono d’accordo con l’impianto descritto nella parte C del documento della commissione INVALSI, ma non sulla destinazione e sulle conseguenze legate a tale obiettivo. È la finalizzazione meritocratica che renderà il progetto, se attuato, mal funzionante e farraginoso. Preferirei che gli esperti di cui si parla, oltre che preparare test, venissero messi anche a disposizione per supportare i docenti, aiutarli a leggere le dinamiche delle relazioni educative e a migliorare direttamente la loro professionalità. Mi sembrerebbe molto meno macchinoso. L’ingente richiesta di risorse per attuare il progetto a regime merita che questo vada a fruttificare qualcosa in più di un puro criterio di incentivazione: un criterio di comprensione del modello educativo vigente e l’elaborazione intenzionale di modelli migliori basati sulle indicazioni generali che risultano dai test. A livello nazionale, ad esempio, cosa si fa a livello di riflessione e critica metodologica basata sui test OCSE-PISA? Nella mia scuola il test è stato fatto ed è passato come una brezza d’aria. Sono convinto che più del 60% dei docenti non sappia neppure che si è svolto. Prima di entrare nei dettagli dei progetti di autonomia dei singoli istituti, che richiederanno test a regime su tutti gli studenti, e quindi grossi investimenti, perché non si traggono intanto le indicazioni generali e non si apre un dibattito sulla base dei dati già in nostro possesso? Perché sembra esserci un rifiuto di girare un po’ di risorse in progetti nazionali ri-professionalizzanti?

Leggo ora che c'è qualcuno che condivide le mi critiche e ne fa anche altre:

http://www.unibg.it/dati/bacheca/682/34469.pdf

Perché sono sempre più nauseato dalla scuola

Il titolo potrebbe essere anche: "perché non ci possiamo lamentare se noi insegnanti non siamo considerati come professionisti" e la risposta sarebbe estremamente semplice: "perché per la maggior parte non lo siamo".

Leggo che: “Attualmente, la scuola italiana non è in grado di premiare i capaci e i meritevoli e nello stesso tempo non è nemmeno in grado di aiutare efficacemente gli studenti e gli insegnanti in difficoltà” (http://www.lavoce.info/binary/la_voce/articoli/invalsi_pro_111.1245760092.pdf )
Si sottintende al solito l’idea della meritocrazia come capace di migliorare le cose nel campo educativo.
No. I capaci e i meritevoli non devono essere premiati, proprio come studenti e docenti in difficoltà non devono essere puniti.
I capaci vanno anch’essi aiutati e “studiati”. E i capaci non coincidono necessariamente con chi sperimenta o ha sperimentato il successo scolastico, dal momento che esiste un vizio valutativo nel sistema scolastico.
Abbiamo bisogno di riconoscere il successo formativo attraverso criteri esterni a quelli dell’attuale sistema scolastico e al tempo stesso di distinguerlo dal successo individuale a posteriori e in senso lato. Abbiamo dunque bisogno di definire con maggiore precisione l’idea di formazione culturale dell’individuo come processo e come competenze. E abbiamo bisogno di strumenti validi per misurare e valutare le abilità di processo degli studenti (quindi ben vengano i test INVALSI, purché ben fatti, ben calibrati e ben consegnati a docenti collaboratori, capaci di utilizzarli e comprenderli, piuttosto che a docenti che fanno “da tramite” per un controllo superiore che abbia fini diversi da quelli statistici). Una volta acquisito l’obiettivo formazione come valore indipendente dalla valutazione tradizionale scolastica, la valutazione diventa il campo studio della figura del docente ricercatore, non premiatore o punitore. L’attributo “meritevole” connota una categoria dannosa per la pedagogia perché implica una condizione di attesa di riconoscimenti del merito. E a sua volta questa condizione, proprio nei casi in cui si verifica in situazioni reali, è connessa all’eventualità che lo studente studi in funzione di tale merito riconosciuto.
La formazione dell’individuo comprende la ricerca e la creazione di ben più nobili e intrinseche motivazioni, quali la curiosità, l’esercizio del pensiero creativo, il tutto modificabile ed esprimibile nell’arco dell’intera vita (vedi LLP).
Il gap principale in questo momento è professionale. La professione del docente è più rivendicata che costruita, coltivata con il serio, costante e soprattutto condiviso lavoro di ricerca del docente. “Non siamo pagati abbastanza per fare anche i ricercatori”. Bene. Allora il circolo vizioso va chiuso qui. Non si accampa tutta questa professionalità che non c’è. Semplicemente si decide di fare gli impiegati.
La professionalità non c’è quando non ci accorgiamo che uno studente ha difficoltà; quando facciamo finta di non accorgerci "mettendo sei", perché comunque quello è un allievo che non dà fastidio o perché "deve maturare" (come se la sua maturazione fosse un processo naturale e staccato dal nostro compito formativo) o al massimo ci sussurriamo all'orecchio che “in effetti qualche difficoltà quel ragazzo ce l’ha”; o quando non possiamo fare a meno di accorgercene e sanzioniamo con “insufficienze gravi” e bocciature inevitabili chi, pur essendo un bravo ragazzo, “presenta difficoltà oggettive in tutte le materie”, senza sapere fare nulla di realmente professionale per evitare questo epilogo.

Non siamo professionisti quando non troviamo insieme ai ragazzi veramente capaci problemi da trattare e su cui misurarci, noi e loro. Pane per i loro e i nostri denti. Perché non possiamo dirci professionisti se non abbiamo e non sviluppiamo alcuna curiosità nel campo che pretendiamo di insegnare, sancendo un solco incolmabile tra la materia scolastica e la disciplina. Non siamo né professionisti né onesti quando caliamo ragazzi cosiddetti "bravi", ma buoni soltanto a sgobbare sui libri per ottenere agognati meriti, a figurare in attività che abbiamo creato e gestito noi. O quando ci sentiamo nudi nel ruolo di studente ricercatore insieme a studenti che vivono lo studio con passione maggiore della nostra. Non c’è professionalità quando l’insegnante non è capace di mettere a punto prove di verifica delle competenze e non si fida di quelle che fa mettendo voti dal cinque al sette per non sbilanciarsi, ma anche per non perdere tempo a fare qualcosa di più serio e attendidibile. Non c’è professionalità quando il docente non sa costruire dei percorsi adeguati a modificare i processi e a permetterne il riconoscimento. Quando una scuola, autonoma solo a chiacchiere, non è in grado di mettere a punto un servizio di osservazione del funzionamento e potenziamento dei processi cognitivi degli studenti che presentano difficoltà di studio anche fosse in una sola materia, sfruttando le professionalità, ad esempio, di chi ha esperienza di mediazione e applicazione del metodo Feuerstein, o creando all’occorrenza le capacità diagnostiche necessarie, quella scuola non può dirsi professionale sull’ambito che maggiormente le compete. Quella è una scuola in cui tutti gli insegnanti sono ugualmente impiegati a riconoscere meriti e demeriti.

Noi saremo professionisti se e quando lavoreremo sugli strumenti e i metodi necessari per aiutare tutti gli allievi a diventare pensatori migliori. Nella misura in cui riusciremo a realizzare quanto valutato a livello europeo dall'indagine OCSE-TALIS (Newsletter MPI 19 giugno): "considerare l’insegnamento un modo per favorire l’apprendimento autonomo degli studenti, piuttosto che un processo di trasmissione diretta delle informazioni".

PS: tutto ciò che auspico per la scuola degli studenti della secondaria accade quotidianamente nella formazione primaria. Quindi non è utopia.

domenica 11 novembre 2007

many different kinds of concept mapping

We are becoming more and more aware of the different uses of concept mapping. Learning-constructing knowledge, presenting, representing-reproducing models of realities, organizing shared knowledge models, are not the same kind of concept mapping. Each one can be made collaboratively, but only the former and the latter can be considered as strictly related to a pedagogical task.
In this "Concept maps as strategies for learning" web, as an example, we can see a cmap that tries to represent a piece of reality about a metabolic activity, here: http://www.eaa-knowledge.com/ojni/ni/602/strategies.htm.
Such cmaps need to "work", as they were engines (linking words are all influences among subsystems: "increase", "activate", "raises", "phosphorilates" etc.). Moreover, at the nodes of such a cmap, there are not concepts, but names of subsystems or objects.
As prof. Ahlberg maintains, these "pieces of reality" are not feasible to be represented as a whole hierarchical pattern. Functional relations in the real world aren't "concerned" with hierarchies. In fact that cmap has not a recognizable hierarchy of concepts. As a consequence, novel and unexpert people has not any chance to grasp the tinged meanings from that cmap. Secondly, a student can face such a cmap only after he has studied and masters deeply all the stuff. For this student, the task of representing as a cmap a knowledge domain following certain syntacic rules, is a further difficulty that often doesn't add anything to the understanding of the knowledge domain of that student.
It worths to remember that in similar attempts to "represent how a real system works", we have often different symbolic languages that have been developed inside of each subject (mathematics, biochemistry, etc.), that are probably a better choice to represent similar complex domains.
On the other hand, when you use concept mapping as a metacognitive tool, and as a pedagogical language that helps you to mediate teaching-learning, the concept map change its features: there are more concepts, class names, that are related in a classificatory pattern; the cmap become an attempt to assure every concept an "epistemological" rank and role, even though it is not part of the mechanism or of the causal relationships that make possible to answer a specific focus question. The cmap constructed during the learning process doesn't say how everything influences dinamically every other subsystem, but it just says how every concept is "generated by" or related to the more inclusive or general concepts.

This is a natural process that happens in the space of the mind of the learner, that is different from the processes that may occur in the real world.

We can help our students if we are aware of this difference and if we don't ask them to make concept maps aimed at both representing the progress of apprehension of an epistemplogy and the mechanism-flow-chart of all the influences about a "piece of real world".

A few words should be written about concept maps as organizer of knowledge domains. This is a second process that is of great interests to the pedagogist, that is subsequent to individual concept-mapping: how a knowledge domain can be organized, can be a viewed as a task for a learning community. This process happens in the space of a learning community. At this level collaborative learning can be very useful, both as a distance collaboration or as a local class peer interaction. But this organization purpose is again to be intended as a social learning process, not as a technical utility aimed to produce a final clear hypertext or a fine web interface (informative purposes).

This is just a reflection about our role of teachers and our view of concept mapping that is compatible with Ausubels-Novak theory and inclined to separate concept mapping as a process accompanying learning as a different one from representational or organizing purposes.

martedì 10 luglio 2007

LIMITS OF TERNARY PROPOSITIONS IN CONCEPT MAPS

(Italiano sotto)

I will report in this post a collection of "normal sentences" that are hardly transformable in simple ternary propositions, as required by concept mapping, and I will propose "quasi-solutions" for them. These examples want demonstrate that "not good concept maps" and difficulties in costructing valid propositions and hierarquies are not always related to a lack of deep understanding by the learner in the logic and in the relations among concepts of a certain domain, but it can be inherent to the technical issue of concept mapping, also for expert c-mappers.

Anybody is welcomed to do the same by proposing sentences and/or solutions.

This research is aimed at both: a) explaining the rejection of concept mapping by adults as partially due to the insufficient complexity of ternary propositional structure of concept maps, compared to the complexity of relations that adults manage in their natural language, and b) to show how these limits can be (partially) overcame by approaching further the language of concept mapping to the natural language, by enriching the variety of types of admitted linking phrases and words, by admitting exceptions to some syntax rules of each language, reducing to the essential minimum the rules that are accepted by the concept mapping community. As an example, nouns and pronouns are not advised in linking phrases, whereas some authors want force single words in links. If we want the students to construct accurate and unambiguous propositions, then the rules and conventions that aren't strictly and explicitly related to Ausubel's background of concept mapping should be released. For the same theoretical reasons I am convinced that the basic core of concept mapping is the most privileged code to interface with the processes that accompain meaningful learning in every field, as described by Ausubel's, therefore it would be a nonsense to search for or select among other forms of knowledge representation downstreaming the specificity of each knowledge domain, if the main task is not the representative, but the metacognitive one and of giving the teacher a tool for learning mediation.

1. Example due to Meena Kharatmal (http://okeanos.wordpress.com/2007/06/13/representing-biological-statement-into-logical-form/):

"Plastides are found in plant cells only"

if plastides concept is the more inclusive in the cmap, a proposition can be easily made from this sentence:

[Plastides] are exclusively found in [plant Cells]

However we have to notice that it is impossible to find a single word that make the same relation (linking phrase) explicit.

The real problem stands out when 'plant cells' concept is more inclusive than 'plastides' concept, in the cmap:

We have some unacceptable solutions:

1A. [Plant cells] can consist of [Plastides]; this is logically wrong as a proposition, because it implies that plastides could be found elsewhere, whereas the intial sentence excludes this possibility.

1B. [Plant cells] contain [plastides]; this proposition is incorrect because it implies that all plant cell cell should contain plastides, and this could be false in some istances. Moreover it has the same inaccuracy of 1A.

Better solutions can be:

1 C. [plant cells] are the only that (can) have [plastides] (only and can partially "save" the logic of the sentence).

Drawbacks: the linking words can have (or even have) introduce extra information not deducible from the original sentence, i.e. that "not all (or all) plant cells have plastides". From "Plastides are found in plant cells only", we don't know anything whether all plant cells contain plastides or not. Independently by our biological extra-knowledge that root cells haven't plastides, we are in trouble if we want maintain the same level of ambiguity (or lack of knowledge) in the cmap proposition as in the original sentence.

I T A L I A N O

Limiti delle proposizioni ternarie nelle mappe concettuali

In questo post riporterò dei casi di testi abbastanza ordinari, che si dimostrano però ostici ai tentativi di trasformazione in semplici proposizioni ternarie, come richiesto nel concept mapping. Inoltre proporrrò delle "quasi-soluzioni" per tali frasi. Questi esempi vogliono dimostrare che le mappe concettuali "non buone" e la difficoltà nel costruire proposizioni e gerarchie valide non sono sempre dovute alla mancanza di comprensione profonda della logica e delle relazioni tra i concetti di un dato argomento da parte del discente, ma possono derivare da difficoltà tecniche inerenti al concept mapping stesso, riscontrate anche da esperti di questa tecnica.

Sono tutti benvenuti nel proporre altre frasi "ostiche" e/o soluzioni aggiuntive.

Questa ricerca è finalizzata sia a: a) spiegare il rifiuto delle mappe concettuali da parte degli adulti come dovuto - in parte - alla insufficiente complessità della struttura proposizionale ternaria delle mappe concettuali, rispetto alla complessità delle relazioni che gli adulti gestiscono nel linguaggio naturale, e b) mostrare come questi limiti possano (parzialmente) essere superati avvicinando ulteriormente il linguaggio delle mappe concettuali al linguaggio naturale, arricchendo la varietà di tipologie di frasi o parole legame ammissibili, ammettendo alcune eccezioni alle regole sintattiche nelle varie lingue, riducendo al minimo essenziale le regole accettate dalla comunità sulle mappe concettuali. Per esempio, nomi e pronomi sono sconsigliati nelle frasi legame, mentre alcuni autori desiderano forzare singole parole nelle frasi legame. Se desideriamo che gli studenti costruiscano proposizioni più accurate e non ambigue, dovremo rinunciare a quelle regole e convenzioni che non sono strettamente ed esplicitamente discendenti dal backgroung della teoria di Ausubel. Per le stesse ragioni teoriche sono convinto che il nocciolo base del concept mapping sia il codice maggiormente privilegiato per interfacciarsi con i processi che accompagnano l'apprendimento significativo in ogni campo, come descritto dalla teoria di Ausubel. Pertanto non avrebbe senso la ricerca o la selezione tra varie forme di rappresentazione di conoscenza che assecondino le specificità di ciascun dominio di conoscenza, se lo scopo principale non è quello rappresentativo, ma quello metacognitivo e di fornire all'insegnante uno strumento di mediazione dell'apprendimento.

1. "I plastidi si riscontrano solo nelle cellule vegetali"

(tradotta da una proposta di Meena Kahratmal, in http://okeanos.wordpress.com/2007/06/13/representing-biological-statement-into-logical-form/)

Se nella mappa il concetto di plastide è più sovraordinato di quello di cellula vegetale, non si pongono problemi:

[Plastidi] si trovano esclusivamente nelle [Cellule vegetali].

Dobbiamo comunque constatare che non è possibile trovare una semplice, singola parola, che espliciti la medesima relazione (frase legame).

Il vero problema si crea se, nel disegno della mappa, quello di Cellula vegetale deve essere un concetto più inclusivo di Plastidi.

Abbiamo allora alcune soluzioni non accettabili:

1A. [Cellule vegetali] possono contenere [Plastidi], la quale non è corretta, poiché lascia aperta la possibilità che i plastidi possano essere contenuti anche altrove, cosa invece esclusa dall'affermazione iniziale.

1B. [Cellule vegetali] contengono [Plastidi], che non è corretta, poiché è intesa in termini restrittivi (tutte le cellule vegetali contengono plastidi), informazione che non può essere ricavata in modo logico dall'affermazione iniziale. Inoltre essa presenta la stessa inaccuratezza della 1A.

Soluzioni proposte (proposed solutions)

1C. [cellule vegetali] sono le sole che possono contenere (o contengono) [plastidi] (le parole sole e possono "salvano" la logica dell'affermazione).

Inconvenienti: le parole legame possono contenere (o anche contengono) introducono informazioni extra non deducibili dalla frase originale, cioè che "non tutte (o tutte) le cellule vegetali hanno plastidi". Dalla frase "I plastidi si riscontrano solo nelle cellule vegetali" non possiamo stabilire affatto se tutte le cellule delle piante contengono plastidi o se ciò vale solo per alcune. Indipendentemente dalla nostra conoscenza biologica del fatto che le cellule delle radici, ad esempio, non contengono plastidi, siamo in difficoltà nel rendere nella frase legame la medesima ambiguità (o mancanza di conoscenza) della frase originale.

2. La relazione (es. combinazione) tra (di) due concetti è in relazione con un terzo concetto


Esempio 1: la scopolamina combinata con la morfina è utilizzata per l'effetto anestetico detto "sonno crepuscolare" ("siero della verità")


Soluzione 1A: si crea un unico concetto di [combinazione scopolamina-morfina]

Inconveniente: se la scopolamina ha un ruolo autonomo nella mappa, da qualche parte occorrerà ripetere questo concetto.


Soluzione 1B: struttura a Y con frase legame "combinati danno" oppure semplicemente "danno"-->[combinazione anestetica...]

Inconveniente: se la scopolamina fa parte del contesto della mappa, mentre ciò non è vero per la morfina, introduciamo allo stesso livello due concetti che si trovano su due piani completamente diversi, con una stonatura visibile perché non ci sono collegamenti che portano alla morfina, mentre la scopolamina è ben integrata nella mappa con connessioni in entrata e in uscita.


Soluzione 1C: se uno dei due concetti combinati non fa parte del contesto della mappa, esso viene combinato nella frase legame: [scopolamina]--è combinata con la morfina per dare-->[anestetico...]

Inconveniente: la frase legame diventa un frammento di testo. Inoltre non sempre uno dei due concetti ha un ruolo marginale nella mappa.


Soluzione 1D: frase legame ramificata:[scopolamina] può essere combinata con {per dare-->[anestetico]} --> [morfina]. Con l'uso della combinazione di tasti Ctrl-Maiuscole, CmapTools consente di creare strutture ramificate alle frasi legame.

Inconveniente: può essere letta in modo errato (un solo ramo). Ovvero vincola la lettura, contrariamente alle frasi legame normali, che non hanno o non dovrebbero avere un ordine preferenziale di lettura in orizzontale.


3. Una costruzione comprendente due o più concetti è in relazione con una distinta costruzione comprendente due o più concetti.


Esempio 2: l'ergotismo è una sindrome di avvelenamento di massa derivante dal consumo di segale "cornuta", cioè affetta da un fungo che rilascia diverse tossine che producono vasocostrizione, cancrena e bruciori (fuoco di Sant'Antonio), sintomi neurologici come allucinazioni, comportamenti maniacali, spasmi muscolari (ballo di san Vito), che si concludono spesso con la morte.

La completa ignoranza della causa di tali disturbi ha causato vere e proprie ecatombe di interi villaggi nel medioevo, ma anche nel secolo scorso, quando la causa era oramai accertata e ben nota anche ai mugnai. La popolazione si chiedeva perché proprio la sua comunità fosse stata scelta per essere colpita da quel disastro, specie quando i paesi vicini erano stati risparmiati. La ricerca del colpevole del maleficio finiva spesso con l’additare vecchie innocenti, povere ed emarginate, che sopravvivevano grazie alla conoscenza delle proprietà curative delle erbe, ma non avevano denaro sufficiente per comperare la farina contaminata. Quando queste povere donne risultavano così risparmiate dai veleni della segale cornuta, divenivano proprio per questo esposte a spietate condanne per stregoneria. 1

Il legame sottolineato non fa riferimento esplicito a un singolo concetto, ma all'evento completo, che comprende una relazione tra due concetti principali.

Si provi a rappresentare sotto forma di mappa l’ultima frase in corsivo (ed eventualmente anche il contesto).


Esempio 4. A cambiò il ruolo di B da C a D

sono 4 concetti A, B, C, D

(es.: Tobacco changed the role of opium in Chinese society, from a medicinal herb (that was swallowed as pellets or drunk as infusion) to an addictive forbidden drug to be smoked)

mettendo la proposizione “A cambiò il ruolo di B”, essa dal punto di vista logico è chiusa, ma dal punto di vista del significato non dice nulla.

Infatti il lettore vuole sapere come era il ruolo di A prima e come è diventato dopo.

Una possibilità consisterebbe nell’illustrare tali ruoli prima e dopo, proseguendo nella lettura a Λ

B fu usato prima come C; B si trasformò successivamente in [D]

Inconveniente: non è detto che si comprenda il ruolo di A nel provocare il cambiamento da C a D.


Altra soluzione:

Il cambiamento di un ruolo di B è un concetto-evento che si pone nel tempo a metà tra il vecchio ruolo C e il nuovo ruolo D

c'è una soluzione triangolare

[B usato per C] subì [cambiamento di ruolo] produsse un nuovo [B con ruolo D];

il concetto evento di [cambiamento di ruolo] ‘riceve’ la proposizione [A] provocò-->[cambiamento di ruolo]

Inconveniente: non mi sembra corretto l’inserimento di un concetto generico, decontestualizzato (cambiamento di ruolo), in mezzo a una catena di eventi ben immersa nel contesto.

Altra soluzione:

[A] cambiò il ruolo di [B come C] (e scendendo parallelamente) [A] produsse il ruolo di [B come D]

Inconveniente: è richiesta comunque un’inferenza per comprendere la sequenzialità esistente tra il vecchio e il nuovo ruolo, che qui è stata spezzata.


Il fatto che non si riesca a trovare una soluzione pienamente soddisfacente per testi di questo tipo ricorrente (non solo nel linguaggio scientifico), non può che essere visto come un limite del linguaggio delle mappe.

Nel linguaggio scritto e orale dei bambini, comprendente principalmente frasi minime, si riscontra raramente questo tipo di costrutti, mentre esso è frequente nel linguaggio adulto. Per questa ragione, a mio avviso, capita spesso che studenti e adulti percepiscano le mappe concettuali come qualcosa che costringe a fare acrobazie, per seguire regole troppo restrittive, il tutto per codificare testi o pensieri che risultano già ben chiari.

Per uscire da questa discordanza di idee, tra l’educatore che propone le mappe e il discente che si chiede il fine di queste, occorre che le strutture logiche del testo siano riconosciute nella loro complessità, in modo da poter fare ricorso immediato a un campionario di possibili soluzioni tecniche alternative, senza perdere la fiducia nella mappa concettuale e nella sua capacità di facilitare la riflessione metacognitiva.

L'esistenza del limite delle proposizioni ternarie basate su relazioni semplici può portare a due possibili conseguenze:

1. limitare la portata delle mappe concettuali e optare per altre forme rappresentazione a seconda del tipo di testo;

2. consentire maggiore flessibilità ed estensione al repertorio delle forme sintattiche ammissibili e anche forme ibride all'interno di schemi di organizzazione grafica che abbiano comunque una struttura prevalente di mappa concettuale.

Secondo me la seconda soluzione è più ragionevole per due ragioni:

a) per ragioni logiche. A meno che non si voglia ridurre l'applicazione delle mappe concettuali a testi elementari e alla scuola primaria, non è possibile distinguere nettamente e a priori tra tipi di testo che implicano o non implicano relazioni più complesse di quelle ternarie. La pratica delle mappe concettuali evidenzia che queste sono realizzabili e realizzate anche per testi più complessi, dove esistono difficoltà oggettive di impostazione strategica delle relazioni complesse, difficoltà che possono essere indipendenti dalla effettiva comprensione delle stesse relazioni.

b) per ragioni pedagogiche. La prima soluzione è valida se si vedono le mappe esclusivamente come uno strumento di rappresentazione della conoscenza. Se invece vediamo nelle mappe anche uno strumento pedagogico per la costruzione della conoscenza, ci rendiamo conto dell'opportunità rappresentata dall'avere a disposizione una metodologia metacognitiva generale nella relazione educativa, piuttosto che diverse tecniche di rappresentazione che l'allievo dovrebbe padroneggiare per rappresentare varie forme di conoscenza già acquisita. L'allievo apprenderà comunque diverse forme di rappresentazione, grafica, simbolica, iconica, ecc. nei diversi ambiti disciplinari specifici.

Il punto critico consiste, in realtà, nel riconoscere o meno l'utilità del concept mapping nella fase in cui si sta ancora costruendo apprendimento in modo significativo, e in cui può essere massima l'efficacia dell'azione mediatrice dell'insegnante, e non solo nella fase successiva in cui tale pratica può diventare quasi superflua (come viene spesso vista da docenti e alunni).

Che cosa accade nella fase centrale dell'apprendimento?

Si individuano domande focali, si riconoscono e costuiscono concetti con varie operazioni di nominalizzazione, unificazione e generalizzazione, si comparano varie ipotesi di reticolazione e gerarchizzazione in coppie o piccoli gruppi di concetti, si comincia a pensare a dei predicati che condensino i nessi tra questi concetti con elevato grado di proprietà. Se si fa tutto questo all’interno di un testo o di un dominio di conoscenza sufficientemente complesso, ed è possibile farlo anche senza scrivere o digitare una sola parola, ciò significa comunque che si sta:

  1. studiando

  2. adottando una metodologia di apprendimento significativo

  3. facendo concept mapping

Se a questo punto si vuole anche andare avanti e rappresentare - a se stessi innanzitutto - la strutturazione delle proprie idee, e se si deve scegliere una forma di rappresentazione, si ha di fronte una sola opzione: costruire una mappa concettuale, usando tutte le regole di base necessarie, pensate, modificate da esperti nel tempo non per costruire uno standard grafico-linguistico, ma per adattarle il più possibile alle modalità della mente di costruire, assimilare e rappresentare concetti e nessi, ponendo meno vincoli possibili a tale compito di esternalizzazione, metacognizione e distanziamento cognitivo. Inserite in questo processo diventano comprensibili le mappe di Novak che non rispettano le regole di Novak, le proposizioni formate da tre concetti e due legami, alcune frasi legame formate da una semplice preposizione e altri accorgimenti “naturali” molto meno complessi delle “acrobazie” che (probabilmente) ci fanno perdere solo tempo. Sono, queste, mappe concettuali, ugualmente comprensibili (come strumento di comunicazione) rispetto alle mappe più ortodosse, e sono sufficientemente efficaci come forme di presentazione del dominio di conoscenza. Sono mappe concettuali a pieno titolo perché nascono da un processo di rappresentazione e organizzazione interna della conoscenza e ne costituiscono la naturale continuazione. E se la mediazione educativa si deve inserire su questa linea, non può scegliere altro che la mappa concettuale. Se invece si esce dal processo di apprendimento per occuparsi di questioni e produzioni tecniche che si basano su conoscenze statiche e preesistenti, come rappresentare un web, progettare un ipertesto, elencare una struttura ad albero, schematizzare una struttura decisionale ecc., allora si sceglie l’organizzatore più adatto alle proprie esigenze. In ogni modo, per la professione di insegnante, ritengo rilevante e imprescindibile lo strumento mappa concettuale. Al punto di cercare delle vie d’uscita semplici e rapide a intoppi idioti.

Al punto che con un collega basco stiamo cercando delle soluzioni logico-sintattiche adatte a conservare i criteri base (e i vantaggi) delle mappe concettuali anche in presenza di una lingua madre che mette il verbo alla fine e le preposizioni appiccicate al nome.

La generalizzazione di Conlon non è utile a questo scopo preminentemente pedagogico, poiché riguarda gli organizzatori grafici della conoscenza e non le modalità di apprendimento nella teoria dell’apprendimento significativo, avente un collegamento diretto con le mappe concettuali.


1 Testo liberamente riassunto da “I bottoni di Napoleone”, P. Le Couter e J. Burreson, Longanesi

lunedì 9 luglio 2007

ABSTRACT

Questa riflessione prende lo spunto da un articolo presentato da Ahlberg al primo congresso CMC di Pamplona, in cui l'Autore tende a relativizzare il concetto di struttura gerarchica delle mappe concettuali, riducendo di fatto l'importanza di tale criterio.

Partendo da un'esame critico dei concetti di inclusività, logica gerarchica, struttura piramidale e non, si arriva a dimostrare che il termine mappa concettuale, se definito su basi esclusivamente strutturali, è insufficiente a descrivere varietà di processi molto differenti e quasi antitetiche.

Traduzione veloce del settimo punto del decalogo di Ahlberg

7. Novak e Gowin (1984) e Novak (1998) hanno argomentato che le mappe dovrebbero essere sempre gerarchiche. Questo assunto appare spesso fondato ed economico, ma non sempre. Per esempio, Novak e Gowin (1984, pp 16-18, da noi 32-34) hanno dimostrato che gli stessi concetti possono essere disposti gerarchicamente in tre modi diversi. La stessa conclusione potrebbe essere ugualmente raggiunta se il concetto più importante fosse posto in qualche caso al centro della mappa concettuale, o altrove, nel caso la scelta costituisca l’opzione migliore. In tal caso possiamo immaginare che il centro della mappa sia equivalente alla cima di una piramide vista dall’alto. È bene ricordare che il mondo è un sistema, per cui a volte la migliore rappresentazione del mondo e dei suoi sottosistemi consta di sistemi concettuali non necessariamente gerarchici. Novak e Gowin (1984, pp. 16-18, o 32-34 nel testo in italiano) hanno presentato tre mappe concettuali che illustrano lo stesso concetto. Esse sembrano gerarchiche, ma non c’è nessun modo per mostrare che il concetto più in alto sia il più vasto o il più inclusivo, come dovrebbe risultare per una vera piramide concettuale, secondo Novak e Gowin (1984, p. 33) e Novak (19988, pp. 3, 227). Ci sono anche ragioni ontologiche ed epistemologiche per cui le mappe concettuali possono non essere sempre gerarchiche. Il mondo è un sistema, per cui la sua migliore rappresentazione è un sistema concettuale, una mappa concettuale, che può non essere sempre gerarchica. Un’idea similare è emersa anche dalle menti di Safayeni, Derbentseva e Cañas (2003) che hanno sostenuto argomenti sulle mappe cicliche, che non sono gerarchiche.

Su questo punto ritengo che ci sia confusione. L’argomentazione di Ahlberg presuppone che Novak si appelli all’esistenza di un criterio assoluto di gerarchia che poi invece si rivelerebbe inesistente in termini generali. In realtà ritengo che Novak e Gowin accennino solo alle strutture classificatorie per introdurre in termini generali il concetto di inclusività, ma che poi parlino di un principio di inclusività più leggero, o di “inclusività soggettiva” oppure, ancora, inclusività “locale”.

È vero che il concetto di acqua non è in assoluto più inclusivo di quello di essere vivente né è sempre vero l’opposto. Ma è vero che, limitatamente all’impostazione data alla mappa a pag. 32 (16 in originale) l’acqua sia più inclusiva di essere vivente, in quanto l’autore della mappa vuole ammettere che l’acqua sia necessaria a un numero di entità, tra cui agli esseri viventi. A pag. 34 in alto l’acqua risulta, invece, meno inclusiva degli esseri viventi, essendo una delle entità in essi contenute, mentre nella mappa in basso l’acqua è nuovamente un concetto più inclusivo perché descritta come sostanza con ubicazioni (esseri viventi) e caratteristiche (capacità di cambiare di stato).

Il fatto che il rapporto gerarchico tra acqua e esseri viventi si modifichi nelle tre mappe, non sta a significare che sia sempre possibile, una volta scelta una certa prospettiva, invertire la relazione tra tali concetti (a meno di non modificare il contesto, cambiando altre parti della mappa stessa). L’arbitarietà non è ammessa, una volta che si abbia un contesto. Questo è vero perfino nelle mappe citate di Novak e Gowin (1984), dove, in assenza di una domanda focale, non esisteva un focus ben definito e, conseguentemente, avvenivano associazioni abbastanza arbitrarie tra differenti domini.

L’inclusività, in quanto relazione gerarchica obbligata in ogni serie di proposizioni, è rispettata, infine, anche nelle mappe cicliche proposte da Safayeni, Derbentseva e Cañas. Un esempio ovvio è costituito dal ciclo dell’acqua, dove la differenza di rango tra due concetti è determinata dal ruolo di causa – effetto che li lega in modo unidirezionale.

La confusione si incrementa scoprendo che nella terminologia delle mappe mentali si usa la parola gerarchica per riferirsi alla struttura radiale e ramificata delle stesse, in modo del tutto indipendente dalla logica delle relazioni. (vedi per es. Articolo di Scocco, di "Scatole Pensanti")

La conclusione sul piano pedagogico è che, nel contesto della mappa, sarà possibile identificare con certezza alcune inversioni del rapporto di inclusività. Questi errori si potranno generare conservando residui della struttura sequenziale del testo originale, o a causa di uno sviluppo disordinato del pensiero, per una scarsa disponibilità a operare riarranggiamenti (si lega un concetto appena rievocato, senza riflettere sul suo rango); oppure l’inversione potrà risultare da una limitata capacità ad effettuare operazioni mentali di “rotazione” prospettica, da una difficoltà a modificare le forme grammaticali e sintattiche o per tutti questi fattori sommati assieme. Per queste ragioni, l’analisi della logica gerarchica di una mappa concettuale è assolutamente irrinunciabile se la si vuole utilizzare la mappa stessa come strumento di valutazione. L’utilizzo del concept mapping come linguaggio della mediazione diretta insegnante – alunno, permetterà anche di sfruttare in termini dinamici l’analisi delle relazioni gerarchiche, in quanto solo in questi termini sarà possibile rendersi conto del grado di flessibilità nell’assegnazione dei ruoli dei concetti all’interno delle strutture in costruzione.

Se invece guardiamo alla mappa come oggetto statico, prescindendo dal processo generativo, il fatto che le relazioni binarie rispettino criteri locali e non arbitrari di gerarchia tra i concetti non implica affatto l’emergere globale di una struttura piramidale. La mappa potrà ben essere al tempo stesso gerarchica e sequenziale, o ciclica, ibrida ecc. La struttura piramidale non può essere identificata con la gerarchicità, caratteristica che regola il carattere unidirezionale assegnato dai singoli soggetti alle singole parti della mappa. Lo studente assegna il diverso rango ai concetti e può farlo in modo coerente e graduale o in modo logicamente incoerente.

L’argomentazione di Ahlberg, fondata su ragioni ontologiche ed epistemologiche, fa riferimento continuo al mondo come sistema che non sempre ha una struttura a livelli rappresentabile come mappa piramidale. Ne conseguirebbe che in alcuni casi una mappa che non segua tale struttura potrebbe costituire un “modo migliore” di rappresentare un certo sistema. Ma la caratteristica del “modo migliore” sembra alquanto vaga e, soprattutto, presuppone che esista una particolare struttura, per quel sistema o sottosistema, che sia indipendente dalle prospettive o dalle necessità quanto meno cognitive di chi deve rappresentarla. Questo assunto non è vero, pertanto non possiamo assumere che una mappa non piramidale e, soprattutto, con relazioni gerarchiche poco coerenti, si possa automaticamente considerare accettabile, senza sottoporre il dominio di conoscenza a un tentativo di analisi critica basato sul criterio gerarchico strutturale. Il mondo è certamente un sistema complesso dove i criteri gerarchici non valgono quasi mai e le influenze causali non sono quasi mai unidirezionali. Ma, come Ausubel ha messo in evidenza, il modo che la mente umana che apprende utilizza, per mettere ordine e per dare un senso alle cose, consiste nel costruire strutture concettuali globalmente gerarchiche, caratterizzate, inizialmente, da un alto livello di instabilità e destinate a stabilizzarsi prima ed accrescersi poi.

Perché la maggior parte delle mappe concettuali che abbiamo fatto o esaminato risultano essere piramidali, mentre sono pochissime quelle cicliche e inutili, oltre che rare, quelle sequenziali? Si tratta di diffusione tacitamente imposto di un modello prevalente o, piuttosto è la mente che fa sì che tali strutture emergano più facilmente o “naturalmente”?

La mia ipotesi di lavoro è che una mappa ciclica, o qualunque altra struttura di rappresentazione non prevalentemente a livelli gerarchici, possa costituire sempre un utile tentativo di rappresentare il “funzionamento” di un sistema (esempio “ciclo dell’acqua”), dove una mappa piramidale risulterebbe assolutamente inefficace. Ma il successo di tale tentativo si fonda sulla preesistente padronanza concettuale, in chi costruisce la mappa, dei concetti del dominio di conoscenza studiato. Tale padronanza, a sua volta, si basa su una struttura rappresentativa che non è presente nel mondo, ma che è stata costruita secondo gli stadi e secondo il principio di differenziazione progressiva (per sua natura piramidale) indicati da Ausubel. Anche le strutture epistemologiche risentono prevalentemente di questa impostazione tipicamente “umana”, che nasce essenzialmente dalla tendenza naturale, per l’uomo, a classificare. Analogamente, attingendo da un quadro epistemologico consolidato, comprendente quindi precisi e ben condivisi nessi generativi tra i concetti scientifici, sarà possibile costruire modelli, descrizioni o narrazioni relative a fenomeni o porzioni del sistema mondo, verificabili, falsificabili, atti a interrogare il sistema.

La mappa strutturale, così come quella che racconta un’epistemologia, frutto dell’individuo o di una comunità esperta nel tempo, costituiscono comunque le testimonianze di processi cognitivi, come una stratificazione di detriti conserva parecchie tracce delle modificazioni geologiche passate, e risultano per questo necessariamente piramidali. Anche le mappe non piramidali possono rappresentare processi, ma di un tipo che si verifica nel mondo, con presunzione di oggettività.