giovedì 31 marzo 2011

la soluzione

Una scuola privata, ma pubblica!

Meritocrazia per i docenti, ma non per gli studenti.

Il valutare per merito i pazienti dell'ospedale li renderebbe forse più facilmente curabili e guaribili? Per gli studenti non occorre dire altro.

Quale meritocrazia dei docenti? non può essere basata sui pazienti salvati e non salvati come (pre)tende a fare l'INVALSI.

Deve basarsi semplicemente sulla quantità e qualità del lavoro. Queste sono facilmente misurabili, e riassumibili in due ruoli che mancano del tutto nella scuola:
il docente ricercatore
il docente trasparente

Per fare ricerca&azione occorre studiare sperimentare e riflettere, non interrogare e fare montagne di verifiche allo scopo di mettere voti e nella speranza vana che sia questa minaccia l'unica vera fonte di motivazione per gli studenti (questa falsità, a furia di forzarla, è stata trasformata in una realtà!) Occorre leggere molto, interagire con ricercatori del mondo accademico, partecipare a congressi, pagarseli, faticare per avere idee e soprattutto per adattarle nel lavoro in classe, trovare anche il tempo per documentare. Uscire dal ruolo fossilizzato del prof. Aristogitone. Il tempo necessario e questa particolare professionalità, l'investimento di passione, costano lavoro, e vanno pagate.

Rendere trasparente la lezione: sono tutti d'accordo tranne molti insegnanti. Le tecnologie per farlo sono meno costose di un cellulare. Anche documentare, rendere trasparenti e poi fruibili come materiali di studio le lezioni, richiede tempo e pazienza. E perciò va pagato.

La soluzione? offrire compensi aggiuntivi ai docenti disponibili ad assumersi questi nuovi ruoli (io lo faccio da anni, gratis, ma mi accontenterei di vedere realizzate queste idee dopo il mio pensionamento)

Chi li paga?

I genitori!
Pazzesco! E come?
1° scorporiamo dalle imposte il fabbisogno per l'istruzione pubblica e ricarichiamo solo la minima parte dei costi generali che interessa tutti i cittadini italiani. La parte destinata alle risorse (stipendi, tecnologie, strutture, personale di servizio ecc.) si ricarica in misura leggermente minore o uguale all'attuale, comunque in proporzione alla parte restante dei 740,
su tutti i genitori che hanno figli in età scolare, diciamo 4-18 anni, e scelgono la scuola pubblica. Dunque i genitori della scuola pubblica pagano tale quota base che è quella che serve per avere una scuola come l'attuale, cioè una vera schifezza (che è comunque migliore di molte scuole private).
Ma, se essi pagano una percentuale definita (non so, il 50 o il 100%) aggiuntiva rispetto a quella che già versano per l'istruzione pubblica, hanno diritto a qualche altra detrazione e soprattutto alla possibilità di scegliere determinati docenti.

Quali docenti? quelli che lavorano di più per organizzare viaggi d'istruzione e progetti di proprio interesse? Quelli che fanno la carriera da dirigente scolastico? Quelli che passano un sacco di tempo a promuovere la scuola e tenere rapporti con i privati ma non ne hanno per i loro alunni? No! Quelli che credono di di migliorare la loro professione e la qualità con la semplice esperienza e anzianità, con il buonismo, con la giusta filosofia di vita, con la tecnologia, con la minaccia dei voti? NOOOO! Queste cose le sanno fare tutti, non c'è bisogno di studiare né di faticare.
Dunque, tornando alle famiglie extrapaganti, queste potranno pretendere docenti che fanno (in modo ineccepibilmente documentato) i ricercatori e i documentatori della didattica. I quali saranno pagati in modo sostanziosamente proporzionato a tali funzioni specifiche della professione docente (che è diversa da quella di collaboratore del preside e dell'organizzatore di gadget pubblicitari).
Se-li-scel-go-no!!!
Non a costo fisso, come in una scuola privata, ma ad un sovrapprezzo proporzionato alla loro capacità contributiva. D'altra parte, per una cosa che interessa quasi tutti gli italiani è bene che quasi tutti facciano una percentuale di sacrificio. La scuola non si migliora con tagli, ipocrisie, demagogie e populismi.

Immaginate una scuola dove ci sia un 20 - 30 % di docenti ricercatori che comunicano tra di loro, si alleano su progetti educativi di ampio respiro, li attuano e li studiano, e fanno concorrenza all'università (che produce molto fumo o nulla per quanto riguarda la ricerca educativa) e un 50-60 % dei docenti che documentano, e mettono a disposizione della metacognizione degli alunni tutto ciò che costruiscono assieme ad essi, perché ciò non richiede particolare talento, ma frutta un bel gruzzolo alla fine del mese ed è utile al miglioramento della scuola.

Io dico che con una scuola, così resa più efficace, avremmo presto un maggior numero di famiglie con una capacità contributiva aumentata e ben disponibili a finanziare questo genere di scuola pubblica-privata, per i loro stessi figli, con un sacrificio equilibrato e sopportabile da tutti.

domenica 20 marzo 2011

così scrisse Elsa Morante

Interessante. L'ho ricevuto e pubblico a questo link, sperando arrivi presto il momento di cancellarlo.

domenica 13 marzo 2011

Io, invece, mi accanisco!

Mi riferisco al problema che la prof.ssa Mastrocola vorrebbe risolvere banalmente, a mio avviso, creando scuole differenziate, di cui solo una destinata ai veri e pochi "studianti". Vedi ad esempio questo link. È un'idea molto pericolosa e ingiusta, anche perché "accarezza" molto il tentativo governativo in atto di succhiare risorse alla scuola pubblica: farla funzionare tagliandola, distruggendola, affossandola. Per inciso, ci sono ben altre tendenze, riguardo alla Scuola, alla "civiltà della conoscenza", alla "cittadinanza", già ben dettate dall'Unione Europea a Lisbona. Non abbiamo bisogno della frustrazione dei docenti per sapere dove andare. Anche la ricerca ha detto molto, un molto che sta ancora fuori dalla scuola e non si trova nei libri della Mastrocola. Dico innanzitutto che la Scuola non può rinunciare al suo compito principale. Non ha fatto tutto ciò che sarebbe possibile per assolverlo.
Non si può CANCELLARE il problema perché ANCORA non si riesce a risolverlo adeguatamente. Montaigne diceva: "quando un problema è senza soluzione allora è necessario eliminare il problema", ma si riferiva evidentemente a problemi di natura individuale. La condivisione e l'identificazione culturale sono il collante sociale fondamentale di un Paese, e possono essere realizzate in modo certamente più indolore di come la scuola vorrebbe continuare a fare con metodi che erano adeguati alla società di due o tre generazioni fa. Come ad esempio pensando di poter trasferire le proprie idee di bello, di buono ed utile, associate a determinati contenuti, a studenti che dovrebbero acquisirle belle e pronte, con gli stessi sensi e significati che forse lo stesso docente non ha ancora pienamente elaborato. Con tutta l'abnegazione, la buona volontà del mondo, ciò non è possibile perché contrario all'asserto fondamentale della pedagogia: che la conoscenza e la consapevolezza sono costruzioni individuali mediate dal dialogo sociale. Rifiuto l'idea che l'istruzione si possa snaturare per consentire ai delusi dell'insegnamento di avere davanti solo studenti desiderosi di seguire le orme del loro amato docente.
Credo che il mio insegnamento può essere utile e positivo qualunque siano gli ideali di vita dei miei studenti, altrimenti sto compiendo un errore, una riduzione. Ad esempio, l'imparare cosa significhi conoscere e comprendere, risolvere problemi, arrivare a capire che anche questo può essere buono e bello, oltre che utile, non possono essere acquisizioni destinate solo ad uno spaccato della società. La scuola può avere margini di successo nel dare questi strumenti a tutti. E dobbiamo farlo, a meno che non pensiamo che la cultura della comprensione, di E. Morin, per intenderci, sia accessibile solo per chi deve comandare (magari fosse, mi viene da pensare) o, peggio, che sia sostituibile dal sentimento religioso come unico capace di raggiungere tutti gli uomini.
Rifiuto l'idea che la scuola non sia modificante e serva anzi per cristallizzare ogni giovane in età evolutiva sul suo progetto di vita, qualunque esso sia, cioè sul suo contesto sociale, sul proprio micromondo.
Liberare un giovane implica sì capire che questa scuola non sta funzionando, ma anche poi dare a tutti, giovani e meno giovani, gli strumenti fondamentali per comprendere e scegliere sempre, non una sola volta nella vita.
Il mio accanimento è meno folle di quanto molti pensano, il mio compito è dolce, perché vedo che studenti che hanno i più disparati interessi, quando riesco comunque a ingaggiarli, quando si accorgono che la loro testa funziona, cambiano la luce nei loro occhi. Ma ciò accade solo se e quando riesco ad andare oltre il mio sentimento di insoddisfazione. Se non ce la facciamo, da soli, a gettare la frustrazione dietro le spalle, alleiamoci, cominciamo ad unirci, rimboccarci le maniche e agire per riuscire dove altri hanno fallito. Ma non buttiamo a mare i "non studianti" o i "chattanti", che sono i soli che possono darci qualche vera soddisfazione. E quante cose c'è da imparare per gli studianti della prof.ssa Mastrocola!
Adesso sono entusiasta dei modelli emergenti, un'idea promossa da diversi anni da J.Novak e A. Cañas. Sto cercando di metterla in pratica e di adattarla a tutti i miei precedenti studi e sperimentazioni, con e senza mappe concettuali.
I miei tentativi si possono trovare ad esempio in questo documento condiviso.
Rifiuto di basarmi su una vana speranza: "...con la speranza che la scelgano in tanti e che la cultura non abbandoni la nostra vita)", riferita alla scuola "per lo studio, quella per gli albatros, isolati, diversi, portati allo studio e negletti".

giovedì 3 marzo 2011

Il giorno dopo del collegio docenti

Perché non vorrei firmare ancora nessuna mozione in difesa della scuola pubblica


Non mi basta la convinzione che la scuola pubblica sia migliore e più democratica di altre scuole confessionali e/o rivolte a famiglie benestanti. Non mi basta la convinzione che nella nostra scuola, tra i nostri colleghi, ci siano, individualmente, le migliori esperienze e professionalità di tipo specificamente educativo reperibili sul “mercato”. Non mi accontento della convinzione che solo nella nostra scuola resista e sia profondamente e culturalmente radicato, contro tutte le derive “materialiste” e “moraliste”, così dominanti tra giovani e rispettive famiglie, il valore superiore della conoscenza. Mi manca che per trasformare queste potenzialità in una scuola realmente migliore, per avere “i numeri” per poter difendere la scuola pubblica, occorre avere una visione chiara e condivisa di quali problemi ci vengono posti non dalle sprezzanti dichiarazione di chi ci governa, non dalle scuole private, ma dall’evidenza dei cambiamenti sociali, dalla maggior consapevolezza diffusa, anche fuori della scuola, di che cosa significhi oggi essere “competenti” e, se vogliamo, dall’Unione Europea che in realtà non fa altro che recepire tali necessità e stimolarci a guardare in avanti.
Rendere più competitiva la scuola “pubblica” significa oggi “dare” più competenze. È chiaro che cosa siano le competenze; dal collegio ho avuto la netta impressione che ciò fosse chiaro e questo è un notevole passo avanti rispetto al passato. Saper affrontare autonomamente situazioni nuove che comportino scelte, decisioni, consapevolezza nel recuperare opportune e significative conoscenze utili e, proprio per questo, non inerti. In poche parole risolvere problemi autentici, non standardizzati. Sappiamo che questo genere di abilità è tipico di chi ha esperienza in un campo, cosa che dai nostri studenti non si può pretendere. E sappiamo anche che l’avere esperienza di buon livello in un dato settore non aiuta neppure gli adulti esperti a risolvere problemi in un settore diverso e per loro nuovo. Queste due ovvietà ci dicono che una scuola basata sulla risoluzione dei problemi, sull’interpretazione di testi, sulla ricerca del significato, non sia fattibile con studenti normali. A causa di questo facile equivoco ci troviamo a insegnare sistemi formali e contenuti prima del loro scopo, prima dei contesti reali, prima che possa esserci una ragionevole speranza che un alunno “concreto” possa capirne il senso. Abbiamo vissuto personalmente la stessa esperienza di inversione pedagogica e riteniamo che essa sia la cosa migliore: “prima impara, poi saprai applicare, quindi capirai”. Anche i nostri studenti preferiscono in genere che il compito consista solo nella prima parte e temono la seconda. Non mi riferisco alle applicazioni pratiche, ma all’essere competente in senso generale, che è diverso da “ben addestrato”. Anche professionalmente parlando, il compito di insegnare contenuti è in principio più facile: oggi studi, domani dimostri di “possedere” un contenuto. Domani non possiedi il contenuto: prendi un votaccio. È dipeso dallo studio, la prossima volta ti basterà studiare e recupererai il votaccio. Tutto ciò è estremamente semplice. Eviterò di approfondire perché in cotanta semplicità ci rientri una minoranza dei nostri studenti. Ciò che ora è importante chiarire è che per imparare a risolvere problemi, per acquisire competenze, per imparare a interpretare testi e ad argomentare criticamente, lo studio, specialmente quello individuale, non funziona. L’unico modo di imparare a risolvere problemi consiste nell’avere problemi, recepire la loro natura e cercare di risolverli; per imparare ad argomentare occorre avere occasioni di scrivere ed esprimere il proprio pensiero e di vedere come questo è letto, interpretato da altri e riaggiustarlo. Per diverse ragioni, alcune ovvie le ho accennate, tutto ciò non è possibile farlo da soli. Quindi esistono le classi, gli insegnanti, le comunità di apprendimento… la scuola pubblica del futuro, che non è né quella attuale che vogliamo difendere senza cambiare nulla, né tanto meno quella del passato che alcuni di noi vorrebbero restaurare.
La parte più difficile consiste nel riconoscere la natura di un problema e l’insegnante potrebbe facilitare questo compito. Si tratta di acquisire la percezione delle variabili, capire dove ci si trova, dove si deve arrivare, quindi vedere l’ostacolo, comprendere il problema. Se si è aiutati ciò può avvenire anche senza una grande esperienza. Aiutare nel migliore dei modi, per me significa porsi più vicino al livello degli studenti, senza paura di apparire incompetenti. È naturale che ciò accada quando in classe o in laboratorio si affrontano problemi reali, nuovi anche per noi e – vi posso assicurare – i ragazzi non mi considerano incompetente quando lo faccio. Ciò che conta è che i ragazzi percepiscano la nostra curiosità ed è ovvio, pertanto, che noi si debba averne. Una volta compreso il principio che anche gli inesperti possono, in questa maniera, con questo genere di guida, imparare una disciplina, costruire significati e risolvere i problemi usando la disciplina, rimane il problema della valutazione. Non possiamo utilizzare la minaccia del voto per far sì che i nostri studenti vincano la paura di non essere all’altezza, di non riuscire, accettino la sfida della conoscenza e si impegnino in essa. La minaccia del voto può servire per “sciupare” mezzora del proprio tempo a imparare una cosa certa, che sarà richiesta con certezza nella verifica giorno dopo piuttosto che stare mezzora su Facebook, o fare un’altra attività d’interesse. Per la maggior parte dei ragazzi lo studio autonomo non è affatto sufficiente ad acquisire le competenze. Svolgere attività autonome e anche collaborative che siano la prosecuzione delle lezioni centrate sui problemi, questa costituisce una strategia qualitativamente diversa perché è di tipo collaborativo. Il metodo di verifica e valutazione penalizzante l’insuccesso è legato al modello di studio-insegnamento finalizzato al possesso di contenuti. Il più comodo da insegnare e da studiare. Ma il meno rilevante per moltissimi studenti. E il meno utile alla società, all’umanità, che necessita sempre più di individui capaci di riflessione e comprensione. Il nostro problema –secondario- consiste nel trovare il modo di valutare in modo umano il coinvolgimento, l’apprendimento e infine il rendimento in termini di competenze acquisite, senza penalizzare gli insuccessi ma, eventualmente, dopo attento esame delle situazioni, dopo aver compreso le reali cause dell’insuccesso, dopo un’autovalutazione dello studente, penalizzando la mancanza di impegno. Queste sono le condizioni al contorno perché si possa affrontare e risolvere il problema primario: il recupero della curiosità, del valore della conoscenza , l’ingaggio di tutti nei problemi, senza snaturare le discipline che insegniamo, senza riempire l’istruzione di inutili progetti.
Se esiste tra noi la volontà di difendere un’idea del genere di scuola futura che non tema competitori, da stupidi attacchi, allora sono disposto a firmare mozioni di difesa che parlano della nostra dignità.
Alfredo Tifi

martedì 11 gennaio 2011

dalle espressioni verbali alle mappe concettuali

Approfitto del mio blog quasi abbandonato per stendere una specie di sintesi dello stato attuale del mio personale modello educativo costruttivista in fase di realizzazione e rivolto al futuro immediato.
I termini sono generali, poi le tecnologie possono essere individuate.

1. il punto di partenza dell'approccio costruttivista non sono i concetti singoli ma le espressioni orali spontanee, con i loro "accavallamenti di idee", così come nascono da discussioni in classe, magari improntate alla risoluzione di un semplice problema. Queste espressioni devono essere immediatamente catturate, letteralmente e in forma scritta, quindi analizzate (punto 2)

2. L'analisi deve far sì che le idee accavallate siano distinte, riformulate sotto forma di proposizioni complete e l'introduzione di termini scientifici che, essendo nuovi, faticano ad apparire nel linguaggio naturale della comunità. Le proposizioni, che rappresentano il passaggio graduale dal linguaggio spontaneo al linguaggio con i concetti scientifici, sono rilette e riscritte rigirate e ricombinate in modi diversi, in una specie di "gioco" del linguaggio. Grazie al gioco del linguaggio prolungato è possibile imparare a usare in modo sensato e dinamico i concetti ad un livello di efficienza che sarebbe impensabile ottenere costruendo mappe concettuali. Manca però la consapevolezza epistemologica, che non si può ottenere da questo tipo di pratica.

3. Questo tipo di consapevolezza deve essere costruito prima come mappe mentali (non intendendo quelle sulla carta o al computer, ma quelle nella testa, nella mente). Come? modificando il gioco del linguaggio in modo da richiedere che cosa è collegato a che cosa, o quale proposizione viene prima e quale viene dopo, come conseguenza, il "gioco dei perché", ecc. Ci si accorgerà che nel fare ciò non si partirà da zero, ma che molte delle proposizioni erano già state connesse e gerarchizzate spontaneamente dagli studenti durante gli esercizi col registro linguistico base della disciplina. Si tratta semplicemente di recuperare in termini di consapevolezza tutti i collegamenti strutturali necessari ad avere una visione globale della materia o, per l'esattezza, di un dato dominio della materia.

Per come è strutturato il linguaggio umano, il senso non è portato da singole parole, e ciò che avviene spontaneamente non è la formazione di connessioni tra concetti (dotati di significato ma non di senso), ma piuttosto lo stabilirsi di connessioni tra proposizioni (comprensive di senso e di concetti).

Ovviamente una disciplina (es. la chimica) può essere dotata di un proprio linguaggio specifico altamente logico e simbolico e anche concreto-manipolativo, esperenziale.
Il docente dovrà evitare che tali linguaggi "interni", simbolici, tecnici, iconici, pittografici, ecc., dominino le pratiche disciplinari e dovrà curare che ogni tipo di discussione sia ritradotta nel normale registro scritto-orale. Evitare dunque l'oggettificazione dei segni e dei simboli, come normalmente si fa in matematica e nelle materie scientifiche. Quindi la principale innovazione da fare nell'insegnamento delle materie scientifiche non consiste nel fare più laboratorio o nell'usare più tecnologie, ma nel rendere l'insegnamento-apprendimento di queste materie più dipendenti dal linguaggio e più simili alle materie umanistiche. Praticamente la "scoperta dell'acqua calda".

PS: il punto 3 è più complesso di quello che pensavo. Ci sono differenze qualitative rilevanti tra la capacità di mantenere significati costruiti usando le stesse strategie su argomenti simili in primo (quattordicenni, nessuna stabilità) e in terzo (sedicenni, discreta stabilità nel medio termine) o in quarto. Ciò meriterebbe un'indagine più approfondita. Forse Vygotsky viene in aiuto nello spiegare questa differenza come risultato della transizione ancora non teminata dalle struttire di generalizzazoine per complessi a quella per concetti scientifici. Occorre comunque un modello più specifico per adattare la strategia dei giochi linguistici al biennio.

4. Una volta che si comincia a costruire il sistema nella mente, lo studente potrà rendersi conto di lacune e incoerenze, sarà in grado di utilizzarlo per formulare un ragionamento nuovo. Pertanto la fase successiva è l'utilizzo dei concetti scientifici appena conquistati per risolvere veri problemi, per affrontare casi.

Questi sono i presupposti indispensabili per poter raggiungere una comprensione profonda degli argomenti disciplinari per tutti, cosa non più opzionale nell'educazione secondaria moderna. La presenza di tale tipo di comprensione è riconoscibile in tante forme: capacità di produrre argomenti, capacità di affrontare problemi nuovi, capacità di riconoscere l'esistenza di problemi e accorgersi di difetti nei testi e nelle impostazioni di fonti esterne, capacità di ricostruire l'essenza di un testo quando questa non è esplicita. L'apprendimento significativo (dei significati e della loro struttura) in sé non è affatto sufficiente per questo tipo di prestazioni. Esso è perfettamente compatibile con un approccio "accettativo" alla conoscenza, cioè opposto a quello critico richiesto nella comprensione profonda.

5. A questo punto la mappa concettuale può essere costruita a) per aiutare a gestire la complessità della struttura dei significati, b) per favorire il confronto tra diverse epistemologie elaborate da diversi studenti, c) per facilitare l'integrazione della cultura costruita localmente con gli artefatti culturali esterni alla comunità di apprendimento. Ma in ogni caso si deve partire dalla convinzione che la mappa concettuale 1. non è il punto di arrivo e 2. non sarà mai rappresentativa di tutto ciò che si conosce e si sa fare grazie alla competenza nell'utilizzo del linguaggio disciplinare nei diversi e numerosissimi contesti che si presentano in una disciplina.

Il programma è chiaro e da me già testato con un certo successo, in un anno di lavoro, in cui ho ottenuto studenti in grado di parlare di chimica organica certamente meglio di altri gruppi precedenti. Alla fine di un percorso, iniziato da molto prima, ho raggiunto una certa consapevolezza (derivata non solo dall'esperienza sul campo, ma dalla lettura approfondita di autori di riferimento, tra cui soprattutto Vygotsky) di ciò che è accaduto, di ciò che andava fatto e che ho fatto e del perché deve essere fatto.

Le tecnologie, come possono aiutare, semplificare, le diverse fasi? A suggerirci come fare ciò che va fatto?

lunedì 28 giugno 2010

Personalizzazione si può

logo_Seminario_ADIAnche quest'anno molti alunni sono risultati bocciati e sospesi. Tutto nella norma? È pur vero che le differenze nelle condizioni in ingresso dei ragazzi sono stratosferiche ma, in sostanza, non si fa che "ratificarle". Il modello di insegnamento a "catena di montaggio" è adeguato a tale eterogeneità? Conosciamo le reali difficoltà e le reali potenzialità dei ragazzi? Risposte dell'ADI al seminario "Perché mi bocci?" svoltosi a febbraio e al seminario "Personalizzazione si può" di agosto.

Sui concetti di varianza (eterogeneità), personalizzazione, modelli di scuola, che emergono come aspetti cruciali nei due seminari ADI, riporto alcuni brani da Benedetti Vertecchi, La Scuola Disfatta, Franco Angeli, pagg. 44-46 (citazioni in corsivo).

In relazione ai test OCSE-PISA che vedono la scuola italiana in fondo alla classifica rispetto alle scuole del nord Europa - anche per l'elevata eterogeneità tra allievi e tra scuole (es. nord-sud):
"Si può dichiarare che scopo della scuola è di assicurare a tutti il conseguimento di un certo repertorio di competenze, ma se avviene che in talune scuole tale repertorio sia stato effettivamente conseguito dalla grande maggioranza degli allievi e in altre no non si può non inferire che sui risultati dell'educazione scolastica hanno inciso variabili di origine non scolastica, nei confronti delle quali le iniziative di contrasto siano state assenti o comunque troppo deboli."

Relativamente al circolo virtuoso tra scuola e società, che richiede secoli e non decenni per instaurarsi (quella che in Italia riteniamo essere "l'istruzione di sempre" in realtà ha pressappoco la nosta età, per cui è giovanissima):
"La Finlandia può vantare una scolarizzazione assai più radicata nel tempo, che si traduce in un contesto sociale molto più favorevole all'istruzione"
Affermazione che si può proseguire dicendo che l'istruzione migliore e più uniforme costituirà una società migliore e con aspettative culturali maggiori e a loro volta più uniformi, come di fatto accade oggi in Finlandia, dove non ci sono "scuole d'eccellenza" né per risorse disponibili, né per risultati, ma dove, quindi, tutta la scuola è d'eccellenza.


"I dati ora diffusi mostrano che in Italia sta cambiando il modello di scolarizzazione, che da solidale tende a diventare competitivo (come, per esempio, quello degli Stati Uniti). I sistemi competitivi si caratterizano per la differenza accentuata tra la parte superiore e quella inferiore della distribuzione. Nel nostro caso, si sta sfrangiando solo la parte inferiore, mentre non ci sono segni che indichino miglioramenti verso la parte alta della distribuzione: è come dire che siamo in presenza di una competizione imperfetta, in cui le differenze aumentano solo perché peggiorano le condizioni degli studenti più deboli. [...] la crescita della scuola in Italia ha costituito un fenomeno abbastanza recente [...] ne deriva che il profilo culturale della popolazione italiana appare ancor oggi fortemente differenziato [...] Una conseguenza delle differenze di profilo culturale presenti nella popolazione è costituita dal fatto che, nella maggioranza dei casi, i ragazzi che frequentano le scuole secondarie vivono in un contesto famigliare di livello culturale modesto (mediamente, i genitori dei ragazzi che frequentano attualmente le scuole secondarie superiori dispongono di una licenza di scuola media). [...] Un modello di scolarizzazione solidale tende a modificare complessivamente il livello culturale della popolazione, favorendone l'accrescimento graduale. La maggiore attenzione è posta nel sostenere quegli allievi che, fruendo di condizioni meno favorevoli, incontrano maggiori difficoltà. Se si passa ad un modello competitivo, l'attenzione prevalente si sposta verso la parte più favorita della popolazione: in altre parole si rinuncia a perseguire un disegno di modifica complessiva del profilo culturale, perché si ritiene che sia socialmente preferibile avere una fascia di rendimento elevato. Il fatto è che il passaggio da un modello solidale ad uno competitivo non è praticabile, se non per fasce molto ristrette di popolazione, quando il livello culturale diffuso è modesto; si rischia infatti di ottenere la stessa stratificazione culturale già presente nella popolazione. E non serve qui ricordare che le esigenze di sviluppo della società italiana richiedono che frazioni ben più consistenti di quelle attuali dispongano di competenze di livello superiore. [...] attraverso l'educazione si contribuisce ad affermare l'identità dei paesi virtuosi."


Come realizzare l'intervento specifico sugli studenti più svantaggiati? Attualmente gli atteggiamenti della classe docente sembrano oscillare solo tra due non-soluzioni, ugualmente sbagliate. Quella del "promuovere" l'insuccesso (buonismo?) e quella di bocciare il fallimento, spesso predestinato (giustizialismo? meritocrazia "imperfetta"?) Ciò che accomuna entrambe le pseudosoluzioni è l'incapacità di apportare modificazioni reali negli allievi con difficoltà. Non è affatto sufficiente il "non trascurare gli allievi con difficoltà" del codice deontologico dell'ADI (art. 27). Il paragone con l'ospedale è ancora una volta appropriato: per problemi speciali occorrono diagnosi precise e cure speciali, somministrate da specialisti. Occorrono poi condizioni di contesto idonee (divisioni, reparti, strutture, organizzazioni) e non ammucchiare tutti nella stessa routine.
Se abbiamo ragazzi con serie difficoltà nel fissare per iscritto un ragionamento o nel ricavare almeno qualche informazione dalla lettura di un testo, e capaci solo di rispondere a comandi verbali, dobbiamo prima riconoscere e poi prendere atto di tali differenze qualitative e sottoporre gli illitterati a programmi specifici che li mettano in grado di trasformare segni e simboli in significati, e non lasciarli in un contesto scolastico in cui gli stessi testi e gli stessi compiti siano utilizzati sia per chi è in grado di tradurli in significati, sia per chi non è (ancora) in grado di farlo.


L'eterogeneità nella scuola si abbatte con la personalizzazione degli interventi educativi, cosa non realizzabile se vi si trovano solo "bravi medici generici" e un'organizzazione indifferenziata. Si parla tanto di qualità... appunto: si parla!

Prof. Alfredo Tifi

L'orale all'esame di stato e la crisi del pensiero produttivo

Concetti, nozioni o processi: cosa vogliamo, sappiamo, dovremmo verificare - accertare?

Basta assitere ad uno o due esami orali per rendersi conto che, tesina a parte, le domande sono riconducibili al "vediamo se sai...", o: "vediamo cosa mi sai dire su..." e: "cosa significa..". o: "perché la tale cosa..."

In pratica agli esami si chiede ciò che lo studente potrebbe non sapere, come in una specie di interrogatorio, in cui si indaghi sulla qualità e quantità della "preparazione" individuale.
Esiste un'alternativa più giusta e più ricca di informazioni utili: chiedere ciò che egli sa in quanto frutto di un suo lavoro personale. Purtroppo questo non può essere fatto ora, senza un tempo di preparazione di due o tre anni, senza aver scelto di dare all'istruzione e ai nostri studenti un'altra impronta.

Gli studenti si bloccano, all'orale, perché non sanno "quella" cosa, più spesso perché non comprendono cosa viene loro esattamente richiesto in quel momento (l'idea che sta nella mente dell'esaminatore) o perché ciò che è stato richiesto è noto all'esaminando solo sotto altri punti di vista.
Insomma lo studente deve adattare "se stesso" a ciò che viene richiesto dall'esaminatore, il quale deve solo accertare il grado di rispondenza e, nei casi peggiori, il grado di "lontananza" dello studente da sé, dalla materia che egli rappresenta.
D'altra parte in un esame orale non si potrebbe profilare un rapporto di avvicinamento dell'esaminatore al pensiero dello studente nel senso di interazione e mediazione finalizzata a modificare le conoscenze del candidato (come accade normalmente nelle verifiche formative, durante l'anno scolastico). Quando ciò si verifica all'esame, serve solo a sottolineare l'inadeguatezza della preparazione dello studente.

Le critiche

Questo tipo di esame orale è profondamente sbagliato e rivelatore del malfunzionamento dell'istruzione.
Esso tende a verificare la sovrapponibilità della preparazione con un syllabus convenzionale che si dà per condiviso e universale.
In realtà non esiste tale syllabus universale e non si può pretendere (anche se ci trovassimo in un sistema scolastico di vecchio stampo) che debba essere condiviso.

La domanda del tipo: "vediamo cosa mi sai dire su..." è meno restrittiva e minacciosa di "vediamo se conosci...", ma comporta implicitamente un errore: "l'argomento che ti richiedo è della massima importanza; ciò che tu mi dirai dovrà essere il più possibile rispettoso del sapere universalmente stabilito su questo argomento". Insomma: "con ciò che dirai dovrai mortificare il meno possibile la conoscenza ufficiale esistente su questo argomento e la mia funzione qui è di controllare che tu lo faccia."
L'errore (la critica) non ha a che fare, come si potrebbe pensare, con il giogo imposto dal confronto col sapere ufficiale. Piuttosto il fatto che non conti ciò che lo studente è capace di produrre (o è stato capace di produrre in passato), in prima persona, intorno o relativamente a un tema, ma ciò che egli è in grado di riprodurre di quanto acquisito dalle fonti.

Se invece chiediamo "cosa è l'entalpia" o "cosa significa..." o "perché mettiamo qualche cosa in uno strumento", significa che vogliamo accertare la comprensione semantica, concettuale, e funzionale di alcuni termini e oggetti che riteniamo giustamente fondamentali in una disciplina e, altrettanto giustamente, determinanti per la formazione di una valutazione. Ma facciamo ciò soltanto per una percentuale infima del "bagaglio" disciplinare, per cui la cosa non ha molto senso rispetto all'obiettivo valutativo. D'altra parte l'obiettivo di verificare la comprensione degli elementi fondamentali di una disciplina potrebbe essere facilmente, uniformemente e validamente raggiuno con appositi test (e/o ci aspettiamo che sia stata già ampiamente valutata durante il triennio: perché non fidarsi, per questo, di quanto già fatto dalla scuola? Solo la scuola può essere garante delle valutazioni che ha elaborato; o preferiamo siano dei commissari-ispettori a controllare l'operato delle scuole?)

Che cosa succederebbe se un candidato o un docente esterno alla commissione ponesse una domanda qualsiasi all'esaminatore sulla materia comune? Possiamo essere certi che non avremmo mai situazioni imbarazzanti analoghe a quelle in cui si trova il candidato? Quanto le conoscenze di due docenti, anzi, due cultori della stessa materia, sono fedelmente sovrapponibili?

Infine: cosa rimane, nella cultura del candidato, di quanto preparato appositamente in funzione dell'esame, tre mesi o tre anni dopo l'esame?

Immagino che molti vorranno respingere queste critiche sia perché esse includono praticamente tutto ciò che normalmente si fa all'orale, sia perché non si ha esperienza alcuna di possibili conduzioni alternative dell'esame stesso.

Perciò suggerisco di rimandare la reazione istintiva di eccepire alle critiche, a dopo la lettura del seguente scenario d'esame - altrettanto naturale - tramite il quale spero di chiare le modalità alternative, il loro scopo, e le implicazioni a monte nell'istruzione.

L'allievo X è impegnato nel colloquio orale della materia Y, col prof. Z.
Dimmi X, qui vedo nel tuo portfolio questa tua applicazione sull'argomento Y' da te svolta in quarto e poi perfezionato in quinto. Potresti raccontarmi che cosa hai scoperto su questo argomento-ricerca-approfondimento, e come? attraverso quali fonti e quali esperienze personali? Magari potresti dirmi poi perché ti sei avvicinato ad esso e, infine, quali concetti della disciplina Y sono entrati in gioco e in che modo?
La stessa cosa poi si ripete con altri docenti in altre materie.
La commissione si riunisce per valutare il grado di padronanza, autenticità delle applicazioni descritte, dei processi e capacità di argomentazioni che lo studente è in grado di attuare, assistita dai commissari interni che conoscono meglio la storia dell'alunno e, in base a tali evidenze, stabilisce in che grado lo studente è divenuto "cultore" della disciplina e quanto strutturate/marginali siano le competenze utilizzate rispetto ai nuclei disciplinari in ciò che egli ha prodotto (anche se non autonomamente), ma è in grado di padroneggiare individualmente.

Ritengo che tale tipo di esame sia molto più indicatore dello spessore culturale di un alunno, che sia capace di fornire il giusto rilievo agli esiti veramente importanti, e non valutabili nelle prove scritte, di un lungo percorso di istruzione; riconoscendo i processi di accesso alla e fruizione della conoscenza che l'allievo ha costruito con adeguato training durante gli anni di scuola; approccio alla conoscenza ed abilità di processo che saranno, queste, importanti per tutta la vita.
Ritengo che questo tipo di esame sia anche facile da realizzare, con studenti aventi normali capacità, che però sarebbero resi differenti dagli attuali, da tutta la necessaria preparazione precedente.

La preparazione precedente
  1. In ogni materia del triennio ogni studente dovrebbe produrre una o due applicazioni-approfondimenti-studi di casi ecc., per ogni anno, ed eventualmente due in quarta e due in quinta.
  2. Questi lavori potrebbero essere svolti anche in collaborazione con altri studenti della stessa classe, o anche di classi diverse.
  3. I lavori potrebbero avere un utilizzo immediato come ad esempio progettazione di attività di laboratorio o opere da realizzare nella didattica coinvolgendo la classe.
  4. I lavori dovrebbero originarsi da problematiche o stimoli interni alla disciplina, e sia i docenti, sia gli studenti dovrebbero essere vigili e propensi a proporre e individuare sviluppi del materiale curriculare partendo dagli stimoli sempre presenti nelle discipline e nelle loro applicazioni (ciò sia per il rispetto stesso delle discipline insegnate e del loro valore culturale).
  5. I lavori sarebbero obbligatori e nel portfolio sarebbe riportata la cronologia della loro realizzazione e la valutazione.
  6. La valutazione dovrebbe esprimere il grado di coinvolgimento e revisione personale, basata sui rilievi dei pari, dell'insegnante e personali, l'attinenza disciplinare e una volta completato, di padronanza espositiva (la capacità dell'allievo di argomentare quanto da egli stesso presentato). La valutazione dovrebbe essere espressa, su ciascuno di questi parametri, su una scala a tre valori, di cui il primo e secondo sarebbero accettabili e il terzo indichirebbe l'insufficienza.
Ovviamente lo studente saprebbe che all'esame di stato il suo portfolio sarebbe esaminato e in parte richiesto oralmente, permettendogli una valutazione complessiva fino 30 punti, cioè più di quelli ottenibili con il credito scolastico.

A cosa potrebbe servire tutto ciò?
1. riportare la curiosità tra i banchi di scuola;
2. introdurre una componente di personalizzazione nell'istruzione;
3. abituare gli studenti a produrre, piuttosto che sempre riprodurre;
4. fornire a tutti l'opportunità di fare la conoscenza con la comprensione profonda, almeno su alcuni argomenti disciplinari o correlati alle discipline;
5. rivalutare il valore di riferimento culturale e strumentale delle discipline, aventi esistenza indipendente da quanto proposto da un singolo insegnante e da un singolo manuale (opponendosi alla tendenza a identificare la materia con l'insegnante o, nella migliore delle ipotesi, con il libro di testo scolastico);
6. responsabilizzare gli studenti nei confronti dello studio come progetto di sviluppo personalizzato.

Le implicazioni per i docenti e la scuola
L'insegnamento delle discipline dovrebbe maggiormente focalizzarsi sulle basi costitutive, sui linguaggi e sui loro significati, per permettere l'accesso basilare a tutti.
Le applicazioni rispetto all'attuale dovrebbero essere limitate per consentire lo sviluppo dei lavori personalizzati (a differenza delle cosiddette tesine e progetti extracurriculari, che si vanno a sommare al lavoro dello studente, finendo spesso con l'interferire e per l'essere realizzabili in modo completo solo per una parte degli studenti).
La capacità di composizione del testo scritto, della lettura con comprensione dovrebbero essere esercitate in tutte le materie, compresa la matematica, e non solo in Italiano.