sabato 31 agosto 2013

La scuola non dovrebbe né premiare né punire, ma preparare alla vita

Preparare alla vita non significa abituare ad affrontare test aventi natura artificiale e congenere a quelli della scuola, cioè abituare ad una componente arbitraria della "vita reale'', creata ad hoc ed utile alla società umana solo come sistema di classificazione e "iniziazione" ereditato dalle società primitive, nonché strumento di esclusione e controllo forzoso dei dislivelli sociali.
Prepararsi alla vita significa abituarsi a conoscere, cioè osservare e interpretare la realtà tramite linguaggi più evoluti di quelli che forse si impiegheranno mai nella vita reale, e acquisirne una padronanza tale che questi riescano a costituire un "filtro" adeguato e uno "scudo" sufficientemente robusto da garantire, oltre allo sviluppo intellettuale ed affettivo, autonomia e libertà all'individuo. Per questo è necessario un ambiente speciale, protetto, una governance, e professionisti adeguati: esperti di quei linguaggi e della loro didattica e valutazione, con competenze affettive e passione adeguate, sia per l'insegnamento, sia per la disciplina d'insegnamento e per la conoscenza in generale.
Ciò è quanto rende necessaria l'esistenza della scuola. Per tutto il resto le pratiche della scuola non dovrebbero differire da quelle che regolano il funzionamento delle comunità che nella società generano pensieri, servizi e cose utili a garantire la sopravvivenza e possibilmente ad arricchire il genere umano e il suo ambiente.

Alla luce di questi principi, come si dovrebbe fare la valutazione scolastica? Con quale funzione? Per esempio, quale potrebbe essere un'impostazione utile per i cosiddetti esami di "riparazione"?

Per avere un apprendimento significativo occorre innanzitutto che l'insegnamento sia significativo

Qual è la differenza tra apprendimento significativo e non significativo? esiste qualche reale differenza? Almeno in un caso osservato penso di poter essere in grado di rispondere alla prima domanda e affermativamente alla seconda.

Come sempre dopo gli esami integrativi di agosto emergono profonde riflessioni sul senso di ciò che stiamo facendo a scuola.
Non chiedi di ripetere nessuna prassi consolidata, non pretendi nulla, ma proponi di parlare su "parole" molto semplici, che però sai che per qualcuno, o spesso, hanno costituito difficoltà e su cui, pertanto, hai lavorato durante l'anno. Alcuni di questi ragazzi (di quelli che sapevi già essere ad un diverso livello di sviluppo cognitivo) ti spiattellano risposte immediate, nonostante abbiano studiato altro o non si siano preparati affatto. Nella maggior parte dei casi, invece, ti rendi conto che concetti come "volume", "centesimo", "composto", "concentrazione", ecc. non sono posseduti: cioè i contesti non richiamano i termini, per quanti sforzi tu faccia, o i termini che proponi non richiamano azioni ed usi corretti, appropriati al contesto. Ti domandi perché tali apprendimenti siano stati scarsamente significativi, e la risposta e auto-giustificazione è evidente: "sto pensando a quei ragazzi che presentano le maggiori difficoltà e che si portano dietro anche lacune di base, che dipendono non solo dal mio insegnamento, ma anche da altri fattori".

Uno di questi studenti, candidato per il secondo anno di chimica generale, ha cercato di prepararsi durante l'estate con un ragazzo diplomato con 95/100, un ottimo soggetto in tutti i sensi, che tra le altre cose gli ha insegnato a risolvere problemi sul pH così come lui sapeva fare ad un buon livello "professionale" in una delle materie della specializzazione. 
Essendo a conoscenza di tutto ciò, ho chiesto semplicemente al candidato se fosse più acida una soluzione acquosa a pH 1 o una a pH 8, specificando che non sapevamo cosa vi fosse sciolto e che non ci importasse saperlo. Il ragazzo ha cominciato a sfoderare a vanvera ipotesi sul contenuto di sali derivanti da acidi e basi forti e deboli e ad esibire una particolare procedura di calcolo arbitraria e facente uso del logaritmo (mai vista durante l'anno). 

Il mio pensiero, e il titolo del post, riguardano la qualità di quell'insegnamento: l'insegnamento ricevuto dallo studente diplomato quando, meglio di molti gli altri, aveva studiato quella materia.

Se gli studenti di chimica imparano e dimostrano di sapere che il pH è una particolare procedura di calcolo che si deve saper attuare, se la procedura di calcolo del pH conta più del valore aggiunto dato dalla conoscenza del pH, rispetto alle concentrazioni da cui deriva, qualora vi sia un tale valore aggiunto, se non si indagano i limiti del contesto di questa conoscenza (quando il pH non è affatto definibile e quando lo è), cioè se uno studente della secondaria si comporta con questo pezzo di sapere come si comporterebbe uno della primaria con la divisione in colonna (nonostante un concetto come il pH dovrebbe registrare livelli di consapevolezza ben diversi da quelli di un alunno della primaria), se, in definitiva, questo uso di una singola specifica procedura, si trova a rappresentare tutto ciò che di essenziale si conosce bene riguardo al concetto di pH, sapendo per esperienza che questo tipo di preparazione non costituisce un caso isolato, ma la totalità degli studenti e delle classi del triennio, tutto ciò ha una sola spiegazione possibile: 

l'insegnamento del pH non è stato significativo. 

C'è stato un insegnamento procedurale, non concettuale. 

E tra queste due cose c'è una bella differenza.

Ovviamente quel ragazzo saprebbe rispondere al quesito sulle due soluzioni, ma lo sa per esperienza, ne ha una consapevolezza di tipo pratico, esperienziale, che certamente comprende anche il legame con la procedura matematica a lui familiare. Ma probabilmente quel ragazzo non sarà consapevole di altre peculiarità fondamentali del concetto di pH, della sua natura e della sua essenza. Perché esso è stato "inventato", quando, e perché, da chi, a che serve, come e perché funzionano i metodi per determinarlo, direttamente o indirettamente, quando è definibile e quando no, se può essere o meno generalizzabile. Tutte operazioni che richiedono una padronanza concettuale che, mi par di sentire già, in una scuola tecnica non debba richiedersi (e insegnarsi). Invece è proprio quella necessaria per il "thinking out of the box", per affrontare problemi e questioni nuove, diverse dai problemi standardizzati che si è abituati a risolvere meccanicamente, anche apparentemente semplici, come ad esempio come fare a far capire la natura del pH ad una persona qualunque che non sa nulla di chimica.

Se nell'insegnamento non c'è mai una problematicità, e c'è solo proceduralità, come ci si può aspettare che i ragazzi sappiano fare qualcosa di diverso dall'applicare procedure, anche bene, ma in modo cieco? 

Come ci si può aspettare che essi capiscano che si parla di contesti reali, di esigenze che non nascono dalla scuola, ma da come è fatto il mondo?

E senza capire queste due cose, come pensiamo che essi - e le loro famiglie - possano comprendere il senso dell'aggettivo "superiore" della scuola secondaria?

Perché continuiamo a illudere noi stessi e gli altri che possa essere sufficiente essere bravi esecutori o applicatori di pratiche, magari con i canoni della Qualità Totale, che non occorra accorgersi che esiste anche un livello intellettuale in cui cominciare almeno a muovere i primi passi, e che chiunque in linea di principio possa sviluppare prima o poi le proprie doti intellettive anche in questo modello di scuola tecnica?

Io credo che si possa fare molto meglio.

lunedì 6 maggio 2013

Flipped evaluation


Gli scettici quando vedono applicata una strategia costruttivista, non tradizionale, dicono: "e i risultati?"

I risultati sono ciò che gli studenti fanno

Vieni e osserva.

Nel sistema di valutazione tradizionale si tende a identificare il risultato del test come indice di preparazione e di obiettivi raggiunti. Questa idea è completamente sballata (almeno nella scuola, forse non all'università). 

E' sballato il concetto di obiettivi raggiunti. Il concetto di "profitto scolastico" è un'IDIOZIA di cui liberarsi, assieme alla "meritocrazia" ad esso associata.

La scuola deve preparare la forma mentis base, la capacità dell'individuo di approcciarsi-re in modo corretto al-la conoscenza (cosa che non dovrebbe manifestarsi per magia all'università dopo che lo studente ha studiato lungo 10 anni per i voti, considerando corpo estraneo da sé il sapere scolastico), mentre gli obiettivi che la scuola deve misurare non si trovano nel passato ("raggiunti"), ma nel futuro (potenzialmente raggiungibili). 

Non esiste alcun test che permetta di rilevare gli obiettivi raggiunti da un singolo studente o da un insegnante come qualcosa di ben correlato con le potenzialità future dello studente. Se c'è una correlazione blanda, questa è un artefatto statistico che risulta essenzialmente dagli aspetti del clima culturale in cui l'alunno vive, dall'ambiente e dalle risorse che hanno forgiato le sue attitudini di partenza, su cui la scuola ha interferito parzialmente o addirittura in modo negativo cristallizzando lo status sociale e penalizzando le difficoltà di apprendimento. La correlazione non è affatto una dimostrazione di causa-effetto, ma dell'esistenza di una causa comune e preesistente per ciò che l'alunno fa a scuola oggi e ciò che continuerà a fare in futuro, tanto più quanto la valutazione scolastica tende a "cristallizzare" la persona sulle sue attitudini e risposte del momento. Si dice proprio: a "classificare". I voti sono delle "classificazioni". 
Questa lettura dei dati è nota dai tempi di Barbiana, sta riemergendo recentemente,  (e qualcuno pensa che siano esternazioni della sinistra che "ogni tanto deve pur dire qualcosa di sinistra") mentre la scuola degli insegnanti e dirigenti continua a fare finta di nulla, ad abbassare gli obiettivi, e a campare di illusioni, credere nel merito e nel valore dei suoi "votini" dati ad alunni diligentini che studiano le lezioncine per il giorno dopo. E pretende di dimostrare che i buoni risultati di uno studente nella vita dopo la scuola siano correlati al suo successo scolastico come misurato da questo tipo di valutazioni, ergo al presunto buon funzionamento della scuola. Questa è una grossolana falsità. Basta una persona che ricorda con piacere la scuola frequentata (chi non lo fa!), che ha avuto un certo successo nella vita, che tutta la scuola si sente tronfia di orgoglio. 

Gli anni di scuola devono servire per lavorare, per fare apprendistato cognitivo.

L'unica realtà osservabile e degna di essere valutata è la quantità di lavoro fatto, inteso come la quantità dei processi che si sono attivati pazientemente, costantemente, individualmente e collaborativamente in un clima "democrative" e stimolante l'interesse e l'intelletto. 
Questa è l'unica misura possibile che può pretendere di essere correlata ai processi attivabili o non attivabili nel tempo futuro

In questo senso il mio sistema di valutazione, che registra e stimola esclusivamente il lavoro fatto, altrimenti detto "impegno agito" o "dedizione", è "flipped" (capovolto).

Esaminiamo le cose dal punto di vista del sistema "vigente".

L'insegnante istruisce gli alunni sulle procedure da attuare (apprendistato pratico-cinestetico, a bassissima densità concettuale), assegna agli studenti dei lavori da fare, a scuola e a casa, per esercitarsi. Alla fine del processo fa dei test scritto-pratico-orali per "verificare" se le cose sono andate come avrebbero dovuto.
Nella maggior parte dei casi gli studenti non si sono esercitati come necessario e le cose non vanno come dovevano andare. 

Soltanto alla fine di un processo con scarsi feedback ci si rende conto dell'insuccesso. 

Senza contare che anche i casi di successo sono ugualmente di insuccesso, perché l'apprendimento che si realizza è comunque scarsamente significativo e concettualmente povero. 

Se l'insegnante considera valido il percorso che ha portato a così scarsi risultati, gli alunni dicono (dopo) che non capiscono nulla, che tutto è difficile. Gli stessi studenti capiscono molto meglio altre materie dove, grazie al fatto che le verifiche si adeguano al progressivo degrado della quantità, della qualità e della stessa possibilità di effettuare studio autonomo, e sono calibrate in modo da produrre comunque voti accettabili nella maggioranza degli alunni. 
Di fatto ciò produce un progressivo scadimento della qualità degli apprendimenti, senza cambiare la quantità di inutili verifiche da preparare e correggere ciecamente, senza capire che si è innescato un processo peggiorativo senza fine.

Sono convinto che la maggior parte dei miei colleghi sono talmente presi da questa frenetica attività valutativa, da non avere il tempo di tirare fuori la testa per rendersi conto di quanto sia assurda, o forse pensano semplicemente che non esistano altri diversi possibili ritmi e incentivi allo studio.

Occorre arretrare il momento della valutazione e posizionarlo sul punto debole del processo: il lavoro autonomo e quello collaborativo (quest'ultimo particolarmente penalizzato). E' una risposta ovvia.

Se i ragazzi non prendono mai atto e consapevolezza del compito di apprendimento in quanto tale, in alcuna fase del processo, resteremo sempre bloccati nel circolo vizioso del peggioramento continuo: meno studio, verifiche più facili, togliamo la necessità di interpretare testi scritti che creano difficoltà in ragazzi non abituati alla lettura, togliamo i problemi autentici, perché solo pochi ci sanno ragionare e anche quei pochi che ci riescono, durante le verifiche rischiano di perdersi se devono fronteggiare "indovinelli" in un tempo limitato, riduciamo i contenuti scritti a poche linee di testo o schemetti da imparare e ripetere all'orale o "rispostine" aperte, ecc. ecc. I prodotto di questo gioco al ribasso consiste negli stessi voti di sempre, ma con un peggioramento della qualità reale degli apprendimenti e della stessa gioia di frequentare la scuola.

Se invece noi, come sto facendo da un anno, valutassimo esclusivamente l'impegno, avremmo dei ragazzi costretti non a studiare il giorno prima della verifica, non a rendersi conto solo da questa di non aver imparato nulla o a illudersi di sapere qualcosa solo perché hanno ottenuto un buon voto, ma "costretti" a lavorare continuamente, a collaborare, a fare e a pensare su ciò che fanno.

E questo fare non è visto in funzione di un'ulteriore e successiva valutazione di tipo tradizionale, quella "vera". No. Non ci sarà alcuna valutazione successiva, sommativa, di fine percorso. Non ci sarà nessuna classificazione del profitto, ma solo una basata sula dedizione. Nessuna classificazione degli studenti, molto diversi tra loro, rispetto ad una stessa norma.

I processi del fare, pensare e riflettere preferibilmente in collaborazione, COSTITUISCONO l'obiettivo e l'elemento stesso della valutazione della possibilità che i processi acquisiti siano utilizzati anche in futuro.

La dedizione misura ed è linearmente correlata con l'incremento relativo delle potenzialità del singolo studente, il suo valore aggiunto e i suoi reali passi avanti, il differenziale entro certi limiti indipendentemente dal livello di partenza. Questo valore aggiunto non può essere misurato "ora", perché ora possiamo intravedere solo qualcosa che descrive il passato dello studente, mentre la parte migliore (e realmente utile) è quella che potrà manifestarsi in un futuro in cui lo studente si costruirà da solo le proprie "verifiche". E quanto questo futuro sarà roseo non può che dipendere da quanto lavoro lo studente attua e accumula, quanta esperienza di gesti mentali, quante volte sperimenta su se stesso e intimamente il successo di riuscire a portare un compito a compimento, quante volte riesce a spiegare ad altri compagni il significato di un termine o di una pratica, quante volte si trova in condizioni di dover far uso di un concetto e non di una procedura pre-assegnata per arrivare ad un risultato e, dunque, fa ciò. 

Tutte queste cose non si "verificano", ma avvengono, si fanno avvenire, si fanno fare

Evidentemente non tutti faranno tutto. Ci sono i pigri, gli amanti della tradizione in cui non devono necessariamente esprimere una determinata quantità di lavoro minima per avere una valutazione sufficiente. Quelli che presumono che se l'insegnante spiegasse normalmente e se loro dovessero ripetere il contenuto della spiegazione in esercizi di verifiche o interrogazione, potendo scegliere liberamente se lavorare a casa o meno, sarebbero già sufficientemente intelligenti per superare "con profitto" le verifiche, così come manifestamente riescono nelle altre verifiche (truccate).  Soprattutto ci sono quelli che non vogliono compromettersi con il sapere. Sono e vogliono rimanere "ben altra cosa" rispetto all'oggetto e alla metodologia della conoscenza. Per loro e per le loro famiglie la scuola è una specie di servizio militare, da ottemperare, non qualcosa di cui appassionarsi attraverso l'impegno e la dedizione. Se tutte le materie seguissero il criterio della valutazione dell'impegno tutti questi "scettici dello studio" capirebbero che dovrebbero fare qualcosa di diverso che scaldare banchi e se ne andrebbero spontaneamente, oppure cambierebbero atteggiamento. Tutti lo cambierebbero se la maggioranza studiasse in questo regime. I rispettivi insegnanti perderebbero meno tempo in inutili e squallide verifiche, e avrebbero modo di scoprire molte cose eccitanti della disciplina che insegnano.

Quando l'insegnante opera per far fare agli studenti tutto ciò è a sua volta costretto ad attuare una transizione da istruttore di pratiche prive di significato (almeno per gli studenti, ma a volte per l'istruttore stesso) a mediatore di apprendistato cognitivo.

In tal caso emerge il rovescio della medaglia. Quanti sono professionalmente pronti a questa transizione?

venerdì 3 agosto 2012

Sintomatologia dell'alienazione dalla scuola

Insegnando nella secondaria mi trovo davanti al prodotto degli errori della scuola "precedente", che continuano però ad essere commessi per altri 5 anni.

La situazione è quella descritta da Margaret Donaldson: studenti demotivati, stanchi di fallire ripetutamente, costretti quindi a rimanere nella scuola vivendo di "espedienti".


Esistono contesti (classi) in cui sembra proprio che non ci sia niente che si possa fare per rimuovere una percezione diffusa negativa del proprio ruolo e delle proprie possibilità da parte degli studenti, che li porta a un senso di completa estraneità al sapere accademico e ad un atteggiamento di passività o distacco. A dire la verità, nella maggior parte dei casi, gli studenti non arrivano neppure a sospettare l'esistenza di un sapere accademico, esterno, perché sono ad essi presentate direttamente conoscenze nel formato "predigerito" della consuetudine scolastica, tale da esaurire la sua funzione nel processo lezione, ripetizione meccanica, verifica.

I ragazzi vivono inconsapevolmente immersi in questo modello di scuola pseudoreale, tradizionale e fallimentare, in un ruolo che li vede alieni sia dalle dinamiche concrete sia dal pensiero astratto (disembedded) di qualunque disciplina scolastica. 
Le conoscenze coltivate sistematicamente dagli alunni in settori culturali extrascolastici o extracurriculari costituiscono un fattore potenziale di ancoraggio della motivazione, ma troppo diversificato e in forte calo, per cui non possiamo affidarci ad esso. Anche la lettura è in calo. Sopravvivono alcuni interessi legati ad attività puramente pratiche e allo sport, dato che la cultura è in recessione nelle famiglie. Non credo che sia generalizzabile l'andare a raschiare il fondo di questo barile culturale per progettare moduli motivanti basati su pretesti-esca. Il costo dei messaggi del cellulare in matematica, i razzi in chimica, la detonazione in fisica, l'azione delle droghe in biochimica, la pianta della marijuana in scienze naturali, ecc. Se questi moduli servono da innesco ok, ma non potranno mai essere totalizzanti. Dobbiamo essere onesti e  restituire all'istruzione il suo compito basilare garantendo la sistematicità e autonomia ai linguaggi disciplinari, aggiungendo solo la dose possibile di pluridisciplinarità, quella commisurata alle consapevolezze e alle basi disciplinari che via via si vengono creando. I problemi complessi della società non si possono né affrontare né comprendere e neppure conoscere guardandoli in modo diretto senza basi interpretative e autonomia di pensiero concettuale. In mezzo, tra questi due diversi individui (quello che sa leggere, scrivere e trattare problemi semplici e complessi e quello che sta ancora lavorando all'acquisizione delle funzioni psichiche superiori), c'è proprio l'istruzione formale. Quindi torniamo ai problemi di questa.

L'auto-alienazione dall'offerta scolastica si verifica alle superiori in tre modi: 
a) con un senso di inferiorità  già da tempo consolidato (negandosi e negando all'esterno le proprie capacità di pensiero); 
b) con un senso di superiorità (la presunzione che con la propria capacità di pensiero si possa, quando ci si voglia concedere, affrontare estemporaneamente e senza vero coinvolgimento un qualunque compito, a prescindere dall'applicazione attiva e costante); 
c) con l'adattamento, per cui la soddisfazione estrinseca che si ricava dall'adesione al modello, cioè dal saper ripetere gesti, azioni e parole arbitrarie (senza consapevolezza e condivisione di significati) è premiata dal sistema e tramutata dall'allievo in una forma distorta di soddisfazione intrinseca. 

Potrei fare i nomi e cognomi, tra i miei studenti, per ciascuna di queste "sintomatologie". Gli alunni che sfuggono a questa classificazione sono meno degli insegnanti che alle superiori cercano di attuare un modello scolastico che mira direttamente alla comprensione e che sfrutta, allo scopo, le risorse intellettuali in sviluppo degli stessi studenti. Non lo chiamo costruttivista non solo per non fare irritare personaggi come Giorgio Israel, ma anche perché non si tratta solo di questo. Si tratta di rimettere in campo e sviluppare le risorse intellettuali dei ragazzi (anche quelli che ritengono di aver già incontrato il loro presente o disegnato il loro futuro, rispetto ai quali Mastrocola toglierebbe il disturbo) e non solo, non necessariamente, di costruire nuova conoscenza con criteri più o meno induttivi. 
Il punto è piuttosto di capire di chi è la responsabilità del non vedere che le cose non stanno funzionando e poi nel non capire il nocciolo della problematica. E di come uscirne, come "liberare" gli studenti dai ruoli a), b), c) Come re-incentivare la soddisfazione intrinseca basata sul sano senso di curiosità, del tipo finalizzato al controllo della conoscenza e del proprio ambiente, caratteristica innata di H. sapiens sapiens ma non più della sottospecie H. s. s. scolasticus?

Le uniche due possibilità che mi vengono in mente sono: 

1. Una chiara manifestazione degli obiettivi e delle ragioni, finalizzata alla condivisione con gli alunni, ma anche con le famiglie, di un'azione pedagogico-didattica che richiede esplicitamente il riconoscimento e la messa in gioco delle risorse intellettuali degli alunni e la condivisione, spiegazione - ben comparata - col modello tradizionale vissuto, in modo da evidenziare gli aspetti innovativi e implicare una diversa forma di coinvolgimento, non facilmente accettata (i problemi sono due: mettersi in gioco, non facoltatività di determinate attività da svolgere con dedizione da casa, perché senza lavoro e riflessione autonoma, forzata o meno, non c'è metodo di insegnamento o modello educativo che tenga)

2. la conduzione diretta delle attività "potenzialmente motivanti", organizzando didatticamente il coinvolgimento per renderlo praticamente obbligato. Lo scopo è creare un clima o atmosfera costruttiva.

Con studenti più grandi si può iniziare da 1 e poi passare a 2 e progressivamente rilasciare il controllo che, come dice Margaret Donaldson, andrebbe presentato chiaramente come qualcosa che abbia la principale funzione di essere rilasciato, richiamando però di tanto in tanto le motivazioni e le comparazioni con i percorsi e criteri tradizionali che i poveri studenti continuano a seguire nelle altre materie in una scuola schizofrenica. Lo dico perché sento che gli stessi studenti più maturi possono essere gli unici nostri alleati che attualmente si intravedono all'orizzonte.
Con i più piccoli che concettualizzano poco o niente, abbiamo minori possibilità di arrivare ad una consapevolezza dell'esistenza di possibili scopi e ruoli diversi, e quindi di rimediare agli errori fatti fino al punto in cui sono (ebbene sì cari colleghi, sono stati fatti gravi errori), per cui occorre lavorare nella modalità 2, con qualche accenno di presa di coscienza, senza nessuna possibilità di comparazione tra le diverse modalità di lavoro che, al biennio, non sono distintamente riconoscibili nel marasma delle fin troppo numerose e nuove materie.

Purtroppo non esiste la bacchetta magica e la consapevolezza da parte dello studente del proprio cambio di ruolo è il fattore principale del successo della didattica inclusiva.

L'entusiasmo attivista da solo, anche se contagioso, non provocherà mai il cambio di ruolo e sfumerà di fronte alla prima difficoltà con il pensiero astratto e disciplinare.

L'unico entusiasmo che dobbiamo e possiamo sperare di creare, gradualmente, è quello diffuso nelle proprie capacità.

mercoledì 1 agosto 2012

Risposta a "Togliamo il Disturbo" di P. Mastrocola

Destinatari: Paola Mastrocola, A.Lalomia, Giorgio Israel.

Per fortuna ho abbandonato l'idea di scrivere un "libro risposta" a Togliamo il Disturbo. Quella fu la prima reazione al malumore che mi ero portato dentro a lungo, dopo la lettura di quel libro e dei convincimenti esageratamente pessimistici, delle concezioni "fataliste" e anti-pedagogiche dell'autrice che, purtroppo, trovano tanti sostenitori tra i miei colleghi.

Così non solo ho evitato di perdere tempo in un'impresa senza speranza, ma ho anche trovato a casa mia, già scritto e pluripubblicato, il libro risposta perfetto, che avevo iniziato a leggere per la parte scientifica, ma non terminato nei capitoli conclusivi dove le risposte sono elaborate.

La mia risposta è "benvenuti nella nuova scuola", il titolo del libro che avrei voluto scrivere, ma è Margaret Donaldson a darla, con un bellissimo saggio-studio scritto moltissimi anni fa: Come Ragionano i Bambini, Springer-Italia 2010 (originale Children's Minds, University of Edimburgh, UK, 1978) . Un'opera elogiata nientemeno che da J. Bruner, ma che è sempre stata misconosciuta, nonostante due traduzioni ed edizioni in italiano.
Margaret Donaldson va alla questione centrale su cui si interroga Mastrocola: 

"La scuola, per quanto bene possa cominciare, si trasforma oggi in un'esperienza infelice per molti bambini e [che] c'è la massima urgenza di fare qualcosa per cambiare la situazione" (prime pagine e poi p.91).

Ma M.D. si interroga con competenza di psicologa evolutiva, di pedagoga, di ricercatrice e con visione positiva nonostante - a differenza di Mastrocola - ella comprenda appieno la natura del problema, indicando anche gli orientamenti generali, se non la "soluzione".

Stralcio alcuni brani dall'ultimo capitolo, augurandomi che i destinatari vogliano appurarne le solide ragioni con la lettura dei capitoli precedenti. 
Scrive M.D., a continuazione della citazione precedente (i grassetti sono miei):

"L'esperienza [educativa] oggi diventa infelice soprattutto perché è penoso essere costretti a fare una cosa in cui si continua a fallire. Spesso i bambini più grandi non soddisfano con successo le aspettative della scuola e sanno di essere liquidati come stupidi, per quanto energicamente possano tentare di difendersi da questa consapevolezza. 'Di solito ci si interessa alle cose in cui si riesce bene', per citare la semplice constatazione di Bruner su una verità fondamentale. Ecco perché tanti dei nostri ragazzi diventano sempre più annoiati e demoralizzati. 
Una direzione che sembra offrire una via d'uscita, come abbiamo visto, è che la scuola non insista a formulare le richieste che creano il problema. Se ci atteniamo a questo principio, per un certo periodo i bambini sono in grado di mostrare un comportamento abbastanza felice - e così lo scontento si manifesta spesso soltanto negli ultimi anni di scuola, quando le richieste della società in generale, riguardo all'alfabetizzazione, il far di conto, la comprensione delle scienze, e via dicendo, non possono più essere ignorate o negate.
Poiché queste richieste sorgono da considerazioni di valore sociale profondamente radicate, non sarà facile cambiarle. L'utilità pratica delle abilità intellettuali non è l'unica cosa coinvolta nei giudizi di valore, ma sarebbe sufficiente in se stessa. Che ci piaccia o meno, noi abbiamo bisogno di tali abilità e, collettivamente, lo sappiamo bene.
Il problema, allora, è se dobbiamo accettare come inevitabile il fatto che solo una piccola minoranza di persone possa svilupparsi intellettualmente fino a raggiungere un alto livello di competenza. Io credo che non dobbiamo accettarlo [qui Mastrocola si avvia nella direzione opposta]. Io credo che la natura della considerevole difficoltà che queste abilità rappresentano per la mente umana non sia stata adeguatamente riconosciuta [ma il suo libro le disamina e riconosce]. Pur sapendo da tanto tempo che il 'pensiero astratto' è difficile, ci è mancata una comprensione sufficientemente chiara - ed estesa - di ciò che comporta muoversi oltre i confini del senso comune [human sense] e imparare a manipolare il nostro stesso pensiero secondo nuovi modi svincolati [disembedded, inteso più o meno nel senso di 'formale'], liberi dai precedenti coinvolgimenti [involvements, precedenti qui col valorie di concreti, esperenziali], che al tempo stesso sostengono e ostacolano. Credo anche che, una volta che abbiamo riconosciuto queste cose, saremo in grado di aiutare tanti bambini a diventare capaci di pensare in maniera adeguata secondo queste nuove modalità, se scegliamo di farlo;..."

E a proposito del concetto di aiuto, sconosciuto nella scuola del "dono", del "grato sacrificio e passione allo studio" innati, M.D. scrive - (risolvendo la controversia lavoro intellettuale/manuale):

"Nella vita di un bambino, la gioia dell'immediato coinvolgimento del corpo in un'attività qualificata si manifesta presto e spontaneamente. Come abbiamo già visto non è una gioia priva di pensiero, ma non è riflessiva. Il successivo esercizio delle attività riflessive può anch'esso dare gioia - ma si tratta di una gioia che non si presenta da sola, senza aiuti. Più diventeremo esperti nel dare l'aiuto necessario per suscitarla, meno sentiremo il bisogno di ricorrere alla tecnica della Satira dei Mestieri come mezzo per far impegnare persone riluttanti in un duro lavoro accademico.
Perciò, se alla fine diventeremo davvero abili nell'aiutare un gran numero di persone a conoscere la soddisfazione intellettuale, avremo maggiore libertà di volgerci verso lo sviluppo di potenziali umani di altro genere. Allora non dovrebbe essere troppo difficile - né troppo pericoloso - ripristinare il lavoro manuale. E il probabile risultato sarebbe una vasta manifestazione di energia creativa."

La nostra missione e funzione, in una scuola inclusiva di massa, è esattamente di aiutare tutti a conoscere la soddisfazione intellettuale, riconoscendo gli errori dell'esposizione prematura ad apprendimenti forzosi di saperi formali, inconsapevoli, senza significato e generatori, essi sì, di differenze insanabili tra diversi studenti, cambiando la scuola per adattarla a ciò che sappiamo oggi sulla psicologia dell'età evolutiva. Il nostro compito non è, invece, l'essere propensi a lamentarci del modo di essere, di fare e vestire di giovani alquanto "distratti" e inconsapevoli, e proporre per i "meno dotati" percorsi d'istruzione diversificati con ridotto accesso al pensiero astratto, considerando, ancora nel terzo millennio, la testa dello studente come una specie di scatola nera sede di eventi predestinati da accogliere con naturalezza nelle arti e mestieri piuttosto che con rassegnazione o delusione. 

Il sistema che compie errori deve riconoscere i suoi errori, e a quel punto le reazioni di non contrastare le cosiddette "doti naturali", o  di mostrare rassegnazione e delusione, diventano simmetricamente ed equivalentemente insensate.

Il punto di vista del professore di liceo che al tempo stesso disconosce la ricerca della psicologia educativa e si lamenta dei "prodotti in arrivo" è limitato, incapace costituzionalmente di vedere un percorso educativo lungo una linea ontogenetica. 
Il punto di vista di M.D. che invece conosce tutte le fasi dello sviluppo e l'importanza dell'istruzione nel determinare le forme dell'intelligenza, della coscienza di sé, della coscienza, dell'autostima, e che specialmente riconosce gli errori che si fanno nel periodo preadolescenziale e adolescenziale, è il punto di vista più adatto per erigersi a proporre cosa cambiare nel sistema educativo. A conferma di ciò così conclude M.D.:

"... se non avremo la buona volontà di tentare e di continuare a tentare, alla luce delle conoscenze raggiunte, di aiutare i nostri bambini a soddisfare le richieste che imponiamo loro, allora non dovremo chiamarli stupidi. Dovremmo piuttosto definire noi stessi indifferenti o paurosi."

Io aggiungerei: incompetenti.

domenica 26 febbraio 2012

Un biennio con i piedi per terra

In questo post rispondo a tre domande utili a individuare la presa del progetto di insegnamento scientifico "P.R.O.F.I.L.E.S." sulla realtà educativa di un biennio ITIS (anzi, ora ITT).

PROFILES
Professional Reflection-Oriented Focus on Inquiry Learning and Education through Science
Studio sull'insegnamento delle materie scientifiche: Scheda delle risposte per la formulazione delle idee
Quali caratteristiche dell'insegnamento delle scienze considera utili e pedagogicamente desiderabili per l'individuo nella società di oggi e nel futuro prossimo?
Dovrebbe pensare ad adolescenti alla fine della scuola dell’obbligo (intorno all’età di 15/16 anni).
Lo spazio per ciascuna risposta è libero
1° Situazione/Contesto e/o Motivo: Quali situazioni e motivazioni possono essere considerate importanti e in quale contesto dovrebbero avvenire le lezioni delle materie scientifiche per stimolare, interessare e appassionare gli studenti alle scienze?
Se c’è una cosa che caratterizza il mio insegnamento è il continuo studio, osservazione e di conseguenza il continuo cambiamento, si spera verso un miglioramento. Per cui non ho alcuna certezza cristallizzata. Al massimo posso elaborare le mie “convinzioni del momento”, quelle che dovranno regolare la mia azione futura.
Continuo a credere, come in passato, che l’Inquiry Based Learning o IBL (concetti di pensiero “inquisitivo” contrapposto ad “accettativo”) sia la base stessa della comprensione profonda e che questo rimane il nostro obiettivo del quinquennio, raggiungibile per tutti anche se limitatamente ad alcune discipline o meglio aree disciplinari. Ora penso che, come nostra responsabilità formativa, non sia necessario che questo obiettivo sia raggiunto a 360 gradi. Ma deve essere qualcosa in più delle competenze singole, o se vogliamo una specie di macrocompetenza, che deve essere raggiunta. Questo può essere tradotto in “padronanza concettuale almeno in alcuni settori disciplinari”. In altre parole, così come le competenze implicano le conoscenze, così a sua volta la padronanza concettuale settoriale implica le competenze.
Detto ciò sulle finalità, veniamo a ciò che secondo le mie visioni attuali dovrebbe accadere prima, nel primo biennio e, suppongo, anche alle medie.
  1. L’IBL non è attuabile autonomamente dai ragazzi, ma solo in presenza del mediatore adulto esperto, come guida alla lettura e rilettura ripetuta della realtà, tenendo conto che a), diversamente da noi, che abbiamo già la padronanza dei concetti scientifici, l’aspetto linguistico costituisce la prima necessità e la priorità per i nostri allievi, b) la parola - significato non è insegnabile per trasmissione diretta, ma solo attraverso l’uso ripetuto in contesto di collaborazione con il maestro, strategia che Vygotskij chiama “imitazione” tenendo ben distinto questo termine dall’imitazione delle scimmie; c) non arriviamo a costruire la padronanza (uso cosciente e volontario, capacità autonoma di costruire una definizione adatta al contesto), ma a prepararla. In pratica il nostro compito è “suppletivo” di ciò che i ragazzi del biennio in maggioranza non possono ancora essere in grado di fare da soli: usare volontariamente il concetto in situazione. Essi possono ripetere per imitazione i modi di usarlo. Per questa ragione, essi non riusciranno a risolvere veri problemi da soli.
  2. Ciò nonostante l’imitazione collaborativa (una mediazione che già si rivolge alla futura evoluzione) deve essere fatta anche sulla risoluzione di problemi, specialmente del tipo che si basa sulla realtà sperimentale, per preparare sia la concettualizzazione vera successiva, sia l’autonomia nel problem solving. In questo modo facciamo due cose fondamentali: prepariamo lo “scaffolding” ai concetti scientifici e al tempo stesso costruiamo una base di concetti spontanei quotidiani, cioè la base di esperienza comune che è ugualmente necessaria sia per costruire la lingua madre, sia per costruire un sapere disciplinare. In altre parole dobbiamo permettere l’accumulo di esperienze e, per quanto riguarda la comprensione di queste, essere “pazienti ed imitabili”, perché ciò che essi sono in grado da fare oggi solo col nostro supporto, diventeranno capaci di farlo in poco tempo da soli. Non dobbiamo avere alcuna fretta su questo.
  3. Per quanto riguarda il ruolo dell’esperienza e dell’agire con le mani credo che a) l’idea che i ragazzi si costituiscono della nostra scienza sia legata positivamente a questo aspetto e, quindi, facciamo bene a sfruttare questo legame e a far uso del laboratorio; b) al tempo stesso non dobbiamo abusarne per una serie di ragioni, prima di tutte il ridotto tempo a disposizione, poi il fatto che il fine, il risultato di ogni attività pratica lascia un segno forte che a volte non solo oscura tutto ciò che è significativamente correlato all’attività nel suo insieme, ma è addirittura in conflitto con ciò che volevamo insegnare (vedi ad esempio la buretta: con i piccoli (1° anno) la soluzione satura si ottiene solo quando tutto il sale si è sciolto; con i grandi (2°-3° anno), la reazione è completa solo al viraggio); c) soprattutto il laboratorio deve essere il punto di partenza e non l’esperienza totalizzante in se stessa, per avere tanti ancoraggi e sviluppi successivi relativi al nostro compito principale che è quello di preparare individui che saranno in grado, almeno in alcuni campi, di usare autonomamente in modo differenziato, volontario e consapevole i significati e le parole associate. In poche parole dobbiamo fare poche esperienze significative che abbiano qualche aspetto investigativo, e poi lavorarci molto e poi molto sopra a tavolino.
  4. Aspetti affettivi e valutativi. Metto insieme queste due cose per evitare all’origine il malinteso: “facciamoli appassionare in qualunque modo e con qualunque trucco o seduzione, quindi la carica affettiva sarà da sé sufficiente a sviluppare qualunque livello di apprendimento e, in questa ottica, rimandiamo il problema di se e come valutare l’apprendimento effettivo”. Se siamo professionisti sappiamo due cose:
    a) che la passione per qualcosa è un prodotto o conseguenza della confidenza e familiarità con quella cosa e non una precondizione innata o una causa dell’acquisizione della confidenza con quella cosa. Infatti vediamo invariabilmente che quando i ragazzi cominciano a capirci-capire, a sentirsi “confidenti”, al tempo stesso diventano appassionati e disposti a cimentarsi anche in compiti leggermente più complessi cognitivamente. Il viceversa non è affatto vero. Partire dal presupposto che una passione pregressa di uno studente per i razzi possa essere connesso ad una sua propensione e garanzia di una “spinta aumentata” ad arrivare a qualcosa in più della confidenza per i razzi, cioè alla comprensione e alla sua “disponibilità ad assorbire”, magari “trasmissivamente” leggi e teorie fisiche e chimiche che stanno dietro al funzionamento e alla fabbricazione dei razzi, ipoteticamente collegabili a tutto il programma di chimica del triennio, è non solo una ingenuità, una pia illusione, ma anche qualcosa di molto grave e irresponsabile dal punto di vista professionale.
    b) A ciò l’aspetto valutativo è strettamente connesso. La valutazione autentica concerne ogni fase del passaggio dall’esperienza alla confidenza, allo sviluppo del dizionario, alla capacità di imitare e poi della comprensione e infine allo sviluppo di una competenza specifica. Questo è indispensabile perché come professionisti dobbiamo essere consapevoli del processo e deve esserci una presa su ciò che funziona e ciò che non funziona in ciascuna delle varie fasi. La difficoltà semmai è nell’abituarsi a osservare i dettagli nell’ottica di un piano a lungo termine, nel fare questo senza inibire lo sviluppo della confidenza che precede e permette un livello almeno potenziale di “passione” (le due cose non sono incompatibili, anche se spesso lo diventano per un uso sbagliato del significato che si dà alle valutazioni o per un eccessivo valore dato al learning object come “oggetto di passione”). Qui si tratta di restituire alla valutazione il ruolo di verità condivisa e di forza positiva. Ho una verifica: un problema che era a rischio è stato fatto bene grazie al fatto che l’idea di imitazione ha funzionato e pare aver dato dei frutti. Altri quesiti sono andati male in essi si richiedeva il possesso di più concetti autonomi? Forse; ma se nel frattempo che io ci rifletto sopra, dovessi dare a questa verifica il senso tradizionale di voto nel suo insieme, stempererei quella positività del problema ben fatto (sulla concentrazione e diluizione di una soluzione) nella negatività del punteggio complessivo. Sarebbe come dire: questo lo avete saputo fare “solo” grazie ai miei aiuti e alle mie “concessioni” (ho rimandato due volte il compito, e grazie alle tre ore di lezione guadagnate, la mia collaborazione è potuta continuare anche quando avete provato a casa a rifarlo da soli nello studio) ma rimanete sostanzialmente dei somari perché molti concetti non li avete per niente acquisiti ed è ciò che il voto sta a testimoniare. I ragazzi si prenderebbero il 3 o il 4 senza problemi, come spesso accaduto in passato. Ma in realtà commetterei un errore. Un errore già commesso ripetutamente. Nella valutazione non ha alcun senso “sommare”. Tute le nostre valutazioni devono essere esclusivamente formative, tranne quelle delle competenze, sommative, la cui provenienza dovrebbe essere esterna al sistema. Pe me ha senso dire: “vediamo perché questa cosa ha funzionato: non ci speravo, non perché voi non foste all’altezza, ma perché è un compito difficile e io non mi sento all’altezza di avere sempre la soluzione in mano per aiutarvi a capire meglio qualcosa. Facciamo tesoro del fatto che quel quesito sia andato bene. Non avete copiato nonostante ci fosse stata in gioco una insufficienza, avete fatto bene perché c’è qualcosa, nelle attività svolte in questi giorni, che vi ha aiutato a diventare capaci, e adesso dobbiamo capire bene, io per primo, che cosa è stato”. Con lo stesso spirito andiamo ad analizzare, dopo, le risposte errate degli altri quesiti. Questo significa creare una comunità di apprendimento che lavora in modo concorde e sinergico verso dei target comuni, piuttosto che una comunità schizofrenica come quella che vuol farci fare chi si riempie la bocca di “meritocrazie” e voti.
Certo, è molto più facile creare questo tipo di situazioni, motivazioni e contesto: 1. La disciplina è fondamentale e adotto delle tattiche per ottenere sempre una classe perfettamente attenta per 50 minuti; 2. Dire: “Se voi state attenti alle spiegazioni non avrete nessun problema con me (con questa materia)”; 3. Ottenere che 1 + 2 sia uguale a buoni voti e quindi buon feedback basato sui numeri anziché sulle prove di competenza effettive, esterne al rapporto classe docente. È evidente che insegnanti di questo tipo, nelle classi dove non vola una mosca, dove non ci sono problemi di processi e strategie, dove i voti volano dai rari 5 al 6 e al top del 7, avranno qualche difficoltà con i test delle competenze e con qualunque tipo di valutazione esterna.


2° Contenuto: Quali contenuti, metodologie e temi relativi alle materie scientifiche si dovrebbero trattare nelle lezioni?
Contenuti: è molto più importante la continuità che il sillabo. Il sillabo è ciò che quella comunità di apprendimento costruisce e non qualcosa di predefinito. Accanto a ciò c’è un numero di strumenti di base (concetti e abilità), propri della disciplina che in un modo o nell’altro devono essere acquisiti, per lo meno a livello di confidenza. Sarebbe importante accordarsi su quali, perché poi i test delle competenze trasversali e disciplinari delle classi parallele dovrebbero essere mirati esclusivamente su questa base comune.
Per esempio, in prima, accanto ai concetti imprescindibili di sostanza, trasformazione chimica, molecola, atomo, elemento e formula, trovo importante tutto ciò che permette di lavorare a più riprese sui rapporti e calcoli proporzionali: errore relativo, densità, concentrazione delle soluzioni, rapporto stechiometrico atomico/molecolare e in massa. Se a ciò aggiungiamo qualche nozione ultraelementare sulla struttura dell’atomo e semplici tecniche di pesata e di separazione (per poter scoprire gli aspetti quantitativi delle trasformazioni chimiche e utili a definire i campi linguistici in cui usare i termini sostanza, miscuglio, soluzione, reagire, combinare, mescolare, unire, e non a imparare queste tecniche in sé come dei piccoli periti chimici), abbiamo fatto il programma di prima. Quello di seconda non aggiungerà chissà che.
Di metodologia ho detto ciò che contava nella precedente risposta. L’IBL è importante, ma non bisogna illudersi che l’IBL sia intrinsecamente motivante. Non potrà esserlo finché non sarà realmente autonomo. Al biennio se è autonomo vuol dire che non richiede padronanza concettuale, quindi è inutile. Se è utile dobbiamo aspettare al triennio prima di parlare di autonomia. La passione verso l’oggetto di indagine dell’IBL al biennio è un fatto molto relativo e dipendente al 90% da cosa fa l’insegnante per mediare gli aspetti di inquiry e quanto sia capace di tradurre ciò che routine non è in oggetto di interesse nonostante la scarsa padronanza concettuale. Anche nei casi più felici non credo si potrà parlare di “innamoramento”. Quando la classe si appassiona alla tecnica di titolazione, e ciò accade poiché arriva a una discreta padronanza operativa, io sono molto preoccupato, e non felice, per La Chimica. E ripenso alle scimmie di Köhler citate da Vygotskij. Questa mia preoccupazione si stempera solo nel momento che vedo, in seconda E, che alcuni ragazzi non vengono a chiedere né a me ne all’ITP come devono fare i calcoli, e arrancano bene in quella che costituisce la vera finalità dell’esperienza: migliorare il campo di esperienza di uso dei concetti quantitativi. Significa che prima, nonostante le batoste delle verifiche e del test delle competenze, ho creato ed è rimasto qualcosa di ciò su cui abbiamo lavorato per mesi. I frutti positivi sono quelli del lavoro svolto in classe, non quelli del ripetere la pratica addestrativa. C’è ancora, però una minoranza di ragazzi che non sanno ugualmente muoversi in nessun modo, non riescono ad imitare, non hanno nulla da imitare, e non calcolano, e neppure chiedono come fare. Quasi sempre sono segnati da un gap, da un differenziale che si trascinano dietro da lungo tempo, fino a diventare una pregiudiziale. Uno svantaggio che si cristallizza sempre di più e che se non facciamo nulla per prevenirlo e ripristinarlo cognitivamente, è destinato a diventare un’invalidità permanente. Non credo che risolverei qualcosa illudendomi io stesso o dando a questi l’illusione che titolare con precisione sia un aspetto centrale della chimica del biennio.
Un altro accenno posso farlo sul cooperative learning. Ci sono delle scuole di pensiero che accomunano l’intervento mediativo dei pari a quello dell’insegnante esperto e vedono nella metodologia cooperative learning il prodotto unico possibile della teoria socioculturale. Né Vygotskij né Feuerstein, collegati in modo tanto intimo quanto misterioso, hanno mai detto qualcosa del genere. Il dialogo, l’ascoltarsi reciproco o anche autonomo, il formulare tutte le proposizioni possibili in un contesto fortemente comunicativo sono aspetti rilevanti e imprescindibili della teoria socioculturale. Ma nel movimento verso la presa di coscienza, il lavoro del mediatore adulto che consiste nella funzione suppletiva di cui ho già parlato all’inizio, è solo in minima parte sostituibile da ciò che può accadere nel gruppo cooperativo eterogeneo (con studenti relativamente “meno inesperti”). Specialmente al biennio il ragazzo “relativamente più esperto” non è affatto esperto dal punto di vista metacognitivo. È tale e quale agli altri, quindi incapace di alcuna reale mediazione. Rimane comunque importante, per una componente variabile, ma non totalizzante del tempo classe, la discussione nel gruppo cooperativo finalizzata a generare un prodotto verbalizzato e cosciente, un apporto diversificato dei singoli gruppi alla riflessione collettiva finale, dove però i singoli ritornino ad essere singoli individui, con il loro rapporto individuale con l’insegnante, in una mediazione diretta dal docente che rimane il RUI: responsabile ultimo indispensabile. In questo senso “solo”, per me è importante il CL. È evidente che, rispetto alla discussione sempre condotta frontalmente con tanti singoli, l’insegnante potrà avere una maggior ricchezza, fondatezza e una maggior condivisione e reciprocità, nei punti di partenza utili, facendo emergere questi “primi passi”, ma anche misconcetti, nei gruppi. Basta poi avere il tempo di gestire, restituire feedback individuali, su ciò che è stato prodotto dai gruppi in tempi brevi. Da questo punto di vista la nostra scelta di mantenere le ore di 53 minuti, per favorire chi fa lezioni frontali e metodologie trasmissive (per cui la classe si annoierebbe comprensibilmente in lezioni frontali di maggior durata), è una scelta pessima. In Finlandia il modulo orario minimo è di 75 minuti e ci sono sempre 15 minuti di intervallo tra l’uno e l’altro. Ma lì non si fanno lezioni dalla cattedra. Siamo noi che vogliamo la parcellizzazione, la frammentazione e il disorientamento. Poi, sono inutili gli ampi sorrisi, le accoglienze e i corsi di recupero come unica alternativa possibile alle sufficienze regalate, in primo.
I temi sono quelli che emergono dalla trattazione dei contenuti: cosa sono le trasformazioni chimiche, come è fatta la materia. Non basta? Credo siano più che sufficienti. Forse non sono intrinsecamente appassionanti, ma il nostro dovere ha a che fare con questo compito ben preciso che non è per niente facile anche se i concetti sono pochi. Può essere importante, una volta conquistata questa confidenza, usarla per estenderla a qualcosa di appassionante e accattivante che c’è dietro le trasformazioni chimiche e le domande su come è fatta la materia. Ma se i ragazzi non sono preparati cognitivamente, l’applicazione accattivante (e questa è una mia opinione) è una cosa effimera e deontologicamente sbagliata.


3° Abilità: Quali abilità o competenze e attitudini sono da sviluppare e migliorare per istruire gli studenti nelle materie scientifiche?
Occorre dividere le abilità o competenze in due categorie: quelle di base e quelle specifiche disciplinari.
Tra quelle di base metterei molte abilità linguistiche, come l’uso dei connettivi logici, es. il “perché”, il “perciò”, il se… allora… ecc. per costruire le basi del pensiero causativo, dei ragionamenti. Se non prepariamo l’uso di queste parole è impensabile richiedere una spiegazione di un qualcosa o progettare un piano di lavoro per la risoluzione di un problema due cose senza le quali non parliamo di scienze ma di nozionismo. Sempre tra le abilità di base, o trasversali, metterei quelle matematiche: il ragionamento proporzionale; riconoscere l’operazione singola da usare in problemi basati su rapporti di frazioni pure (multipli e sottomultipli) anche in relazione ai decimali, alla valutazione degli ordini di grandezza, i rapporti di distribuzione e contenenza tra variabili discrete e continue: saper leggere mg/L come “numero di milligrammi per ogni Litro”. Il concetto di variabile, per cui nella frase “in questa scuola per ogni studentessa ci sono 4 studenti maschi” non sia tradotto 1F = 4M, dove i simboli “F”, “=”, “M”, sono visti come sostituti delle parole “femmina”, “ci sono”, “maschi”.
È evidente che all’acquisizione di queste competenze dovrebbero lavorare insieme tutti i docenti del biennio.
Per quanto riguarda le competenze specifiche disciplinari non dovrebbero esserci problemi a includere il tutte le competenze relative al passaggio dal livello simbolico a quello sostanziale-fenomenologico e dal simbolico al particellare e viceversa. Per esempio, quante molecole, quanti atomi, quante diverse sostanze, quanti elementi sono compresi o indicati nella scrittura 3H2O + 2SO3.
Insomma, abbiamo sempre a che fare col linguaggio: linguaggio relativo al testo descrittivo – esplicativo; l’uso di segni matematici, entrambi in prestito all’ambito linguistico specifico della chimica.
In effetti imparare una disciplina non è molto diverso dall’imparare la lingua madre. In entrambi i percorsi ci sono dei concetti spontanei che iniziano a viaggiare verso l’alto fino a convergere nelle strutture concettuali preparate dall’istruzione. Ne l’una né l’altra si possono dire concluse in due soli anni. In entrambi i casi le regole grammaticali non bastano: occorrono l’esperienza concreta e l’esperienza mediata, consistente nella possibilità di cimentarsi, imitare e mettersi in gioco nella nuova lingua.

giovedì 12 gennaio 2012

Istruzione Made in Italy?

Miei commenti di risposta all'interessante articolo di Claudia Fanti su Educazione&Scuola, ripubblicato sul blog della Garamond "Per un Made in Italy dell'Istruzione" dove si trova solo il primo dei due commenti.

Primo commento 3 gennaio 2012

Approvo e apprezzo questo documento che più che una proposta potrebbe diventare un manifesto fondativo su cui lavorare.

In particolare sono felice di leggere finalmente una condanna dell'applicazione acritica della meritocrazia anche alla relazione educativa. Tra l'altro esistono esperienze solide di altri sistemi educativi che dimostrano quanto la "ovvietà" della meritocrazia, applicata non solo alla relazione educativa, ma anche al rapporto del docente con l'istituzione, dia risultati mediocri (per es. vedere questo articolo.

E la maestra Fanti rende in modo molto chiaro e convincente ciò che potrebbe esserci di meglio e alternativo sia al buonismo sia al suo opposto simmetrico: la meritocrazia.

Un altro aspetto importante in cui mi riconosco pienamente è la relativizzazione dell'altro idolo, la tecnologia.

Ma è la parte dialogica, collaborativa, della scoperta, dei tempi lunghi per la costruzione di conoscenze autonome, che mi sento di difendere con maggior forza. Occorre difenderla dall'unica obiezione giusta che si potrebbe fare a questa proposta, cioè che la sottrazione dei voti dal sistema non debba coincidere con un vuoto valutativo e che i voti non siano sostituiti da illusioni sull'efficacia dell'applicazione del nuovo modello di relazione educativa ai singoli casi e alle singole azioni didattiche.

Il sistema-minaccia dei voti è ovviamente un'illusione ancora peggiore, che offre il salvacondotto di aver fatto il proprio dovere verificando oggi ciò che si è trasmesso ieri e che gli studenti hanno (si auspica) studiato ieri pomeriggio e dimenticheranno domani. È un autoinganno in cui si vuol credere perché dà sicurezza e perché si constata, sui lunghi tempi, che molti bravi studenti compiono comunque progressi. A questo punto non è difficile illudersi ulteriormente inventando una correlazione tra studio finalizzato anche al voto e successo scolastico. O forse esisterà pure: non sarà il successo cognitivo e scolastico, forse, solo il frutto dello sviluppo generale dell'individuo e delle premesse e delle condizioni ambientali, familiari, e sociali favorevoli. Comunque tale correlazione, tale valore aggiunto fornito dall'attuale scuola riguarda una frazione di studenti troppo esigua, e non ci autorizza a disconoscere la stratosferica percentuale dei fallimenti.

Ma non è fossilizzandoci su cosa è illusorio e va tolto che riusciamo a far sì che tante certezze che bloccano la scuola siano rimesse in discussione.

Un aspetto rilevante credo sia capire che mentre alla scuola dell'infanzia e primaria la valutazione sia un tutt'uno con l'attività e il buon funzionamento dell'azione educativa sia facilmente visibile, monitorabile, sotto tutti gli aspetti, quindi alla bisogna immediatamente correggibile, alla secondaria abbiamo a che fare con la costruzione di competenze in sistemi concettuali astratti, simbolici, un processo che non è direttamente monitorabile, valutabile e autovalutabile. Dobbiamo introdurre delle strategie, come il problem solving autentico in cui oltre alla consapevolezza dell'aver passato del tempo a studiare ci si scopre di essere in grado di pensare, creare, di possedere conoscenze astratte "proprie" perché le si utilizzano in modo contestualizzato e non "pre-addestrato". In questo senso il problem solving può costituire un sistema analogo a quello della primaria, dove insegnamento, apprendimento e valutazione formano un tutt'uno, con l'aggiunta della maggior consapevolezza dell'autovalutazione.

Ma la difficoltà è che, come ogni attività di problem solving autentico comporta, ci sono successi e ci sono fallimenti.

Allora la nuova scuola si deve distinguere dalla vecchia per come risponde al piccolo fallimento (per evitare quello grande a cui assistiamo oggi continuamente) e per la sua capacità di riconoscerlo, che comporta anche delle verifiche autentiche di medio e lungo periodo.

Infatti quando si hanno degli obiettivi formativi su sistemi concettuali astratti e simbolici (e non credo si abbia intenzione di rinunciarvi) l'acquisizione di padronanza e la presa di coscienza diventano molto più difficili da riconoscere e valutare, e il rischio della pura illusione della modificazione cognitiva è maggiore sia nell'alunno sia nel docente.

Il clima sociale e collaborativo contribuisce a creare l'illusione che "tra un mese sarò/à in grado di avvalermi/si di questa competenza di nuovo e da solo, perché ho/ha colto ciò che era essenziale".

Oltre ad essere riferibili a sistemi di concettualizzazione scientifica e astratta, queste competenze non sempre accompagnano lo studente per tutta la vita cognitiva in modo olistico, come avviene maggiormente nell'educazione primaria.

Non credo si possa fare a meno, sopra a un certo livello scolare, delle competenze disciplinari; per cui un certo grado di "settorializzazione cognitiva" credo sia inevitabile, ma anche tollerabile.

Con ciò non intendo dimostrare l'inevitabilità dei voti indipendenti per materia, ma l'importanza delle verifiche autentiche delle competenze sul medio e lungo termine (quelle che oggi si tende a evitare perché mettono a nudo la vanità del nostro operato). Se il nuovo sistema funzionerà lo si vedrà dal fatto che gli esiti delle verifiche sul medio termine saranno positivi almeno al 75% e quelle a lungo termine nella quasi totalità. Mantenere le verifiche non significa mantenere il voto (termine che uso per conglobare la serie di misconcetti e percezioni errate che conosciamo bene).

Ciò che deve cambiare è l'uso che facciamo dell'informazione valutativa.

A posto del voto sulla pagella abbiamo bisogno di un sistema di feedback rapido ed efficace per ricuperare quel 25% di esiti negativi con idonee prese di coscienza reciproche e interventi modificanti efficaci ed effettivi.

Significa restituire alla valutazione, al "grado", il senso originario di "corresponsabilità" dal punto di vista professionale e di stimolo positivo per lo studente.

Gli errori sono la fonte principale di apprendimento, se accompagnati da opportuna metacognizione, e tutti nella scuola, docenti e studenti, devono ben sapere che la meta della padronanza richiede a) errori e b) un diverso tipo e numero di errori e riflessioni da parte di individui diversi.

Il seguente commento fa riferimento a due altri commenti privi di inutili ragionamenti:
  1. michele Says:

    E’ proprio questo il pedagogismo che ha distrutto la scuola italiana.

  2. stefano Says:

    Sono d’accordo con te Michele.

Secondo commento 5 gennaio 2012 (non pubblicato)

Potrebbe essere che Michele ravvisi nei tentativi di attuazione di pratiche del "pedagogismo" (termine che si connota negativamente in modo pregiudiziale, così come il termine "esterofilo" usato dalla stessa Fanti) una forte componente di illusorietà degli apprendimenti e delle competenze effettivamente accertate ed acquisite rispetto a quelle attese e a quelle effettivamente costruite con le metodologie tradizionali che sembrano fornire più garanzie.

Sebbene di "pedagogismo" ce ne sia più di uno, complicando con ciò la disamina accurata e non pregiudiziale dell'efficacia reale di tutto ciò che si potrebbe configurare come "tentativi di modificare gli schemi", rimane una valutazione generica secondo me condivisibile, che la didattica innovativa produce entusiasmo, ma che l'entusiasmo spesso non si traduce da sé in valore aggiunto di apprendimento e competenza reale sul lungo periodo, ma appunto, in illusioni e delusioni successive. Questo è reale e documentabile.

E' evidente che non occorrono tanto buone intenzioni ed entusiasmo per attuare sperimentazioni su larga scala e di lungo periodo, al punto da diventare commensurabili con esperienze di altri paesi (cosa non negativa in sé), ma piuttosto teorie ben solide sull'apprendimento e tanta professionalità e disponibilità alla ricerca più che all'entusiasmo delle certezze facili.

Quando ho parlato di gestione dei fallimenti non mi riferivo solo a quelli dell'alunno. Ho parlato di corresponsabilità professionale. Dietro a questo termine c'è il concetto di ricerca (anche ricerca e azione), dato che nessuno ha le soluzioni definitive in mano (e forse queste non esistono in principio).

Ma non possiamo dire neppure che ciò che c'era o ci sarebbe stato prima del pedagogismo o dei pedagogismi, qualunque cosa essi siano questi, era di ottima qualità e soprattutto potrebbe darci oggi la soluzione dei mali.

E' certo che dei cambiamenti sono necessari. Se ogni sforzo non dico di attuarli, ma solo di trovare una direzione per il cambio viene fatto rientrare automaticamente nei "pedagogismi" allora è inutile stare qui a perdere tempo.

A costo di ripetermi, prima di attuare una qualunque innovazione dobbiamo conoscere bene e condividere una teoria dell'apprendimento per cui questa innovazione dovrebbe essere efficace. Oggi abbiamo delle ottime teorie dell'apprendimento, ma dobbiamo averci lavorato sopra e non assumerle per buone solo perché prodotte da cervelloni.

Ciò si deve riconoscere dai nostri tentativi di attuazione delle pratiche, che devono sfociare in verifiche autentiche e rigorose che la padronanza dei concetti si sia effettivamente costruita o meno. C'è meno bisogno di questo nella primaria, per quanto ho già detto, quindi è sbagliato pensare alla didattica dialogica e adisciplinare come di un metodo unico che va bene per individui dai 3 ai 20 anni. Ma è importante che gli esiti negativi delle verifiche autentiche ci siano e siano i veri punti di forza, quindi costituiscano gli elementi positivi, cardine, della nostra ricerca-azione.

Mi viene in mente un esempio importante di "pedagogismo" rispettabile, certamente più del nulla di chi critica solamente e nella convinzione che la soluzione sia nella restaurazione di ciò che funzionava "benissimo".

Per oltre vent'anni Dorothy Gabel, insegnante e ricercatrice americana di didattica della chimica, ha propugnato un "approccio particellare" alla comprensione dei concetti chimici, del quale ero profondamente convinto attuatore e sostenitore. Ho diffuso usanze di simulare concretamente le combinazioni chimiche con mucchi di viti e dadi e altre cose analoghe. Ma col tempo mi sono anche convinto che tutto ciò non funzionava: la manipolazione produceva comprensione delle combinazioni concretamente manipolate, ma non di quelle che costituivano il vero obiettivo. I test di comprensione continuavano a fornire risultati negativi o anche peggiori di prima. All'inizio l'idea di dover abbandonare le mie certezze era quasi tremenda, e cercai altre soluzioni. Poi invece ho studiato qualche teoria psicologica per mio conto e contemporaneamente ho abbandonato l'idea, ancora prima di capire 'perché' non doveva funzionare. Oggi che, dopo altri dieci anni, vedo ancora nei laboratori dei bicchieri pieni di viti e dadi usati da miei colleghi caduti nella stessa trappola per pura imitazione, senza mai aver avuto uno scambio culturale, senza che io abbia mai fatto nulla per convincerli prima o per dissuaderli dopo, mi sono domandato che fine avesse fatto Dorothy Gabel. Un mio amico universitario che conosce bene e di persona i diversi interpreti della ricerca in didattica della chimica mi ha detto: "ha chiuso tutto, ha capito che l'approccio non funzionava". Ah bene, ho risposto, rispetto il fatto che ci abbia impiegato 20 anni, ma non poteva fare allora un articolo a caratteri cubitali e farcelo sapere?

Esistono dunque i pedagogismi che non funzionano, ma esistono pure le spiegazioni e le capacità scientifiche di costruire delle pedagogie che funzionano.

Ecco cosa intendo con l'importanza di riconoscere subito i piccoli fallimenti, essere ricercatori seri, non campare sugli entusiasmi, l'importanza di lavorare in equipe con solide teorie di sfondo, se si vogliono evitare giustificate accuse di "pedagogismo".