sabato 31 agosto 2013
La scuola non dovrebbe né premiare né punire, ma preparare alla vita
Prepararsi alla vita significa abituarsi a conoscere, cioè osservare e interpretare la realtà tramite linguaggi più evoluti di quelli che forse si impiegheranno mai nella vita reale, e acquisirne una padronanza tale che questi riescano a costituire un "filtro" adeguato e uno "scudo" sufficientemente robusto da garantire, oltre allo sviluppo intellettuale ed affettivo, autonomia e libertà all'individuo. Per questo è necessario un ambiente speciale, protetto, una governance, e professionisti adeguati: esperti di quei linguaggi e della loro didattica e valutazione, con competenze affettive e passione adeguate, sia per l'insegnamento, sia per la disciplina d'insegnamento e per la conoscenza in generale.
Ciò è quanto rende necessaria l'esistenza della scuola. Per tutto il resto le pratiche della scuola non dovrebbero differire da quelle che regolano il funzionamento delle comunità che nella società generano pensieri, servizi e cose utili a garantire la sopravvivenza e possibilmente ad arricchire il genere umano e il suo ambiente.
Alla luce di questi principi, come si dovrebbe fare la valutazione scolastica? Con quale funzione? Per esempio, quale potrebbe essere un'impostazione utile per i cosiddetti esami di "riparazione"?
Per avere un apprendimento significativo occorre innanzitutto che l'insegnamento sia significativo
Come sempre dopo gli esami integrativi di agosto emergono profonde riflessioni sul senso di ciò che stiamo facendo a scuola.
Non chiedi di ripetere nessuna prassi consolidata, non pretendi nulla, ma proponi di parlare su "parole" molto semplici, che però sai che per qualcuno, o spesso, hanno costituito difficoltà e su cui, pertanto, hai lavorato durante l'anno. Alcuni di questi ragazzi (di quelli che sapevi già essere ad un diverso livello di sviluppo cognitivo) ti spiattellano risposte immediate, nonostante abbiano studiato altro o non si siano preparati affatto. Nella maggior parte dei casi, invece, ti rendi conto che concetti come "volume", "centesimo", "composto", "concentrazione", ecc. non sono posseduti: cioè i contesti non richiamano i termini, per quanti sforzi tu faccia, o i termini che proponi non richiamano azioni ed usi corretti, appropriati al contesto. Ti domandi perché tali apprendimenti siano stati scarsamente significativi, e la risposta e auto-giustificazione è evidente: "sto pensando a quei ragazzi che presentano le maggiori difficoltà e che si portano dietro anche lacune di base, che dipendono non solo dal mio insegnamento, ma anche da altri fattori".
Uno di questi studenti, candidato per il secondo anno di chimica generale, ha cercato di prepararsi durante l'estate con un ragazzo diplomato con 95/100, un ottimo soggetto in tutti i sensi, che tra le altre cose gli ha insegnato a risolvere problemi sul pH così come lui sapeva fare ad un buon livello "professionale" in una delle materie della specializzazione.
Essendo a conoscenza di tutto ciò, ho chiesto semplicemente al candidato se fosse più acida una soluzione acquosa a pH 1 o una a pH 8, specificando che non sapevamo cosa vi fosse sciolto e che non ci importasse saperlo. Il ragazzo ha cominciato a sfoderare a vanvera ipotesi sul contenuto di sali derivanti da acidi e basi forti e deboli e ad esibire una particolare procedura di calcolo arbitraria e facente uso del logaritmo (mai vista durante l'anno).
Il mio pensiero, e il titolo del post, riguardano la qualità di quell'insegnamento: l'insegnamento ricevuto dallo studente diplomato quando, meglio di molti gli altri, aveva studiato quella materia.
Se gli studenti di chimica imparano e dimostrano di sapere che il pH è una particolare procedura di calcolo che si deve saper attuare, se la procedura di calcolo del pH conta più del valore aggiunto dato dalla conoscenza del pH, rispetto alle concentrazioni da cui deriva, qualora vi sia un tale valore aggiunto, se non si indagano i limiti del contesto di questa conoscenza (quando il pH non è affatto definibile e quando lo è), cioè se uno studente della secondaria si comporta con questo pezzo di sapere come si comporterebbe uno della primaria con la divisione in colonna (nonostante un concetto come il pH dovrebbe registrare livelli di consapevolezza ben diversi da quelli di un alunno della primaria), se, in definitiva, questo uso di una singola specifica procedura, si trova a rappresentare tutto ciò che di essenziale si conosce bene riguardo al concetto di pH, sapendo per esperienza che questo tipo di preparazione non costituisce un caso isolato, ma la totalità degli studenti e delle classi del triennio, tutto ciò ha una sola spiegazione possibile:
l'insegnamento del pH non è stato significativo.
C'è stato un insegnamento procedurale, non concettuale.
E tra queste due cose c'è una bella differenza.
Ovviamente quel ragazzo saprebbe rispondere al quesito sulle due soluzioni, ma lo sa per esperienza, ne ha una consapevolezza di tipo pratico, esperienziale, che certamente comprende anche il legame con la procedura matematica a lui familiare. Ma probabilmente quel ragazzo non sarà consapevole di altre peculiarità fondamentali del concetto di pH, della sua natura e della sua essenza. Perché esso è stato "inventato", quando, e perché, da chi, a che serve, come e perché funzionano i metodi per determinarlo, direttamente o indirettamente, quando è definibile e quando no, se può essere o meno generalizzabile. Tutte operazioni che richiedono una padronanza concettuale che, mi par di sentire già, in una scuola tecnica non debba richiedersi (e insegnarsi). Invece è proprio quella necessaria per il "thinking out of the box", per affrontare problemi e questioni nuove, diverse dai problemi standardizzati che si è abituati a risolvere meccanicamente, anche apparentemente semplici, come ad esempio come fare a far capire la natura del pH ad una persona qualunque che non sa nulla di chimica.
Se nell'insegnamento non c'è mai una problematicità, e c'è solo proceduralità, come ci si può aspettare che i ragazzi sappiano fare qualcosa di diverso dall'applicare procedure, anche bene, ma in modo cieco?
Come ci si può aspettare che essi capiscano che si parla di contesti reali, di esigenze che non nascono dalla scuola, ma da come è fatto il mondo?
E senza capire queste due cose, come pensiamo che essi - e le loro famiglie - possano comprendere il senso dell'aggettivo "superiore" della scuola secondaria?
Perché continuiamo a illudere noi stessi e gli altri che possa essere sufficiente essere bravi esecutori o applicatori di pratiche, magari con i canoni della Qualità Totale, che non occorra accorgersi che esiste anche un livello intellettuale in cui cominciare almeno a muovere i primi passi, e che chiunque in linea di principio possa sviluppare prima o poi le proprie doti intellettive anche in questo modello di scuola tecnica?
Io credo che si possa fare molto meglio.
lunedì 6 maggio 2013
Flipped evaluation
Senza contare che anche i casi di successo sono ugualmente di insuccesso, perché l'apprendimento che si realizza è comunque scarsamente significativo e concettualmente povero.
venerdì 3 agosto 2012
Sintomatologia dell'alienazione dalla scuola
La situazione è quella descritta da Margaret Donaldson: studenti demotivati, stanchi di fallire ripetutamente, costretti quindi a rimanere nella scuola vivendo di "espedienti".
Le conoscenze coltivate sistematicamente dagli alunni in settori culturali extrascolastici o extracurriculari costituiscono un fattore potenziale di ancoraggio della motivazione, ma troppo diversificato e in forte calo, per cui non possiamo affidarci ad esso. Anche la lettura è in calo. Sopravvivono alcuni interessi legati ad attività puramente pratiche e allo sport, dato che la cultura è in recessione nelle famiglie. Non credo che sia generalizzabile l'andare a raschiare il fondo di questo barile culturale per progettare moduli motivanti basati su pretesti-esca. Il costo dei messaggi del cellulare in matematica, i razzi in chimica, la detonazione in fisica, l'azione delle droghe in biochimica, la pianta della marijuana in scienze naturali, ecc. Se questi moduli servono da innesco ok, ma non potranno mai essere totalizzanti. Dobbiamo essere onesti e restituire all'istruzione il suo compito basilare garantendo la sistematicità e autonomia ai linguaggi disciplinari, aggiungendo solo la dose possibile di pluridisciplinarità, quella commisurata alle consapevolezze e alle basi disciplinari che via via si vengono creando. I problemi complessi della società non si possono né affrontare né comprendere e neppure conoscere guardandoli in modo diretto senza basi interpretative e autonomia di pensiero concettuale. In mezzo, tra questi due diversi individui (quello che sa leggere, scrivere e trattare problemi semplici e complessi e quello che sta ancora lavorando all'acquisizione delle funzioni psichiche superiori), c'è proprio l'istruzione formale. Quindi torniamo ai problemi di questa.
Il punto è piuttosto di capire di chi è la responsabilità del non vedere che le cose non stanno funzionando e poi nel non capire il nocciolo della problematica. E di come uscirne, come "liberare" gli studenti dai ruoli a), b), c) Come re-incentivare la soddisfazione intrinseca basata sul sano senso di curiosità, del tipo finalizzato al controllo della conoscenza e del proprio ambiente, caratteristica innata di H. sapiens sapiens ma non più della sottospecie H. s. s. scolasticus?
mercoledì 1 agosto 2012
Risposta a "Togliamo il Disturbo" di P. Mastrocola
Per fortuna ho abbandonato l'idea di scrivere un "libro risposta" a Togliamo il Disturbo. Quella fu la prima reazione al malumore che mi ero portato dentro a lungo, dopo la lettura di quel libro e dei convincimenti esageratamente pessimistici, delle concezioni "fataliste" e anti-pedagogiche dell'autrice che, purtroppo, trovano tanti sostenitori tra i miei colleghi.
Così non solo ho evitato di perdere tempo in un'impresa senza speranza, ma ho anche trovato a casa mia, già scritto e pluripubblicato, il libro risposta perfetto, che avevo iniziato a leggere per la parte scientifica, ma non terminato nei capitoli conclusivi dove le risposte sono elaborate.
La mia risposta è "benvenuti nella nuova scuola", il titolo del libro che avrei voluto scrivere, ma è Margaret Donaldson a darla, con un bellissimo saggio-studio scritto moltissimi anni fa: Come Ragionano i Bambini, Springer-Italia 2010 (originale Children's Minds, University of Edimburgh, UK, 1978) . Un'opera elogiata nientemeno che da J. Bruner, ma che è sempre stata misconosciuta, nonostante due traduzioni ed edizioni in italiano.
Margaret Donaldson va alla questione centrale su cui si interroga Mastrocola:
"La scuola, per quanto bene possa cominciare, si trasforma oggi in un'esperienza infelice per molti bambini e [che] c'è la massima urgenza di fare qualcosa per cambiare la situazione" (prime pagine e poi p.91).
Ma M.D. si interroga con competenza di psicologa evolutiva, di pedagoga, di ricercatrice e con visione positiva nonostante - a differenza di Mastrocola - ella comprenda appieno la natura del problema, indicando anche gli orientamenti generali, se non la "soluzione".
Stralcio alcuni brani dall'ultimo capitolo, augurandomi che i destinatari vogliano appurarne le solide ragioni con la lettura dei capitoli precedenti.
Scrive M.D., a continuazione della citazione precedente (i grassetti sono miei):
"L'esperienza [educativa] oggi diventa infelice soprattutto perché è penoso essere costretti a fare una cosa in cui si continua a fallire. Spesso i bambini più grandi non soddisfano con successo le aspettative della scuola e sanno di essere liquidati come stupidi, per quanto energicamente possano tentare di difendersi da questa consapevolezza. 'Di solito ci si interessa alle cose in cui si riesce bene', per citare la semplice constatazione di Bruner su una verità fondamentale. Ecco perché tanti dei nostri ragazzi diventano sempre più annoiati e demoralizzati.
Una direzione che sembra offrire una via d'uscita, come abbiamo visto, è che la scuola non insista a formulare le richieste che creano il problema. Se ci atteniamo a questo principio, per un certo periodo i bambini sono in grado di mostrare un comportamento abbastanza felice - e così lo scontento si manifesta spesso soltanto negli ultimi anni di scuola, quando le richieste della società in generale, riguardo all'alfabetizzazione, il far di conto, la comprensione delle scienze, e via dicendo, non possono più essere ignorate o negate.
Poiché queste richieste sorgono da considerazioni di valore sociale profondamente radicate, non sarà facile cambiarle. L'utilità pratica delle abilità intellettuali non è l'unica cosa coinvolta nei giudizi di valore, ma sarebbe sufficiente in se stessa. Che ci piaccia o meno, noi abbiamo bisogno di tali abilità e, collettivamente, lo sappiamo bene.
Il problema, allora, è se dobbiamo accettare come inevitabile il fatto che solo una piccola minoranza di persone possa svilupparsi intellettualmente fino a raggiungere un alto livello di competenza. Io credo che non dobbiamo accettarlo [qui Mastrocola si avvia nella direzione opposta]. Io credo che la natura della considerevole difficoltà che queste abilità rappresentano per la mente umana non sia stata adeguatamente riconosciuta [ma il suo libro le disamina e riconosce]. Pur sapendo da tanto tempo che il 'pensiero astratto' è difficile, ci è mancata una comprensione sufficientemente chiara - ed estesa - di ciò che comporta muoversi oltre i confini del senso comune [human sense] e imparare a manipolare il nostro stesso pensiero secondo nuovi modi svincolati [disembedded, inteso più o meno nel senso di 'formale'], liberi dai precedenti coinvolgimenti [involvements, precedenti qui col valorie di concreti, esperenziali], che al tempo stesso sostengono e ostacolano. Credo anche che, una volta che abbiamo riconosciuto queste cose, saremo in grado di aiutare tanti bambini a diventare capaci di pensare in maniera adeguata secondo queste nuove modalità, se scegliamo di farlo;..."
E a proposito del concetto di aiuto, sconosciuto nella scuola del "dono", del "grato sacrificio e passione allo studio" innati, M.D. scrive - (risolvendo la controversia lavoro intellettuale/manuale):
"Nella vita di un bambino, la gioia dell'immediato coinvolgimento del corpo in un'attività qualificata si manifesta presto e spontaneamente. Come abbiamo già visto non è una gioia priva di pensiero, ma non è riflessiva. Il successivo esercizio delle attività riflessive può anch'esso dare gioia - ma si tratta di una gioia che non si presenta da sola, senza aiuti. Più diventeremo esperti nel dare l'aiuto necessario per suscitarla, meno sentiremo il bisogno di ricorrere alla tecnica della Satira dei Mestieri come mezzo per far impegnare persone riluttanti in un duro lavoro accademico.
Perciò, se alla fine diventeremo davvero abili nell'aiutare un gran numero di persone a conoscere la soddisfazione intellettuale, avremo maggiore libertà di volgerci verso lo sviluppo di potenziali umani di altro genere. Allora non dovrebbe essere troppo difficile - né troppo pericoloso - ripristinare il lavoro manuale. E il probabile risultato sarebbe una vasta manifestazione di energia creativa."
La nostra missione e funzione, in una scuola inclusiva di massa, è esattamente di aiutare tutti a conoscere la soddisfazione intellettuale, riconoscendo gli errori dell'esposizione prematura ad apprendimenti forzosi di saperi formali, inconsapevoli, senza significato e generatori, essi sì, di differenze insanabili tra diversi studenti, cambiando la scuola per adattarla a ciò che sappiamo oggi sulla psicologia dell'età evolutiva. Il nostro compito non è, invece, l'essere propensi a lamentarci del modo di essere, di fare e vestire di giovani alquanto "distratti" e inconsapevoli, e proporre per i "meno dotati" percorsi d'istruzione diversificati con ridotto accesso al pensiero astratto, considerando, ancora nel terzo millennio, la testa dello studente come una specie di scatola nera sede di eventi predestinati da accogliere con naturalezza nelle arti e mestieri piuttosto che con rassegnazione o delusione.
Il sistema che compie errori deve riconoscere i suoi errori, e a quel punto le reazioni di non contrastare le cosiddette "doti naturali", o di mostrare rassegnazione e delusione, diventano simmetricamente ed equivalentemente insensate.
Il punto di vista del professore di liceo che al tempo stesso disconosce la ricerca della psicologia educativa e si lamenta dei "prodotti in arrivo" è limitato, incapace costituzionalmente di vedere un percorso educativo lungo una linea ontogenetica.
Il punto di vista di M.D. che invece conosce tutte le fasi dello sviluppo e l'importanza dell'istruzione nel determinare le forme dell'intelligenza, della coscienza di sé, della coscienza, dell'autostima, e che specialmente riconosce gli errori che si fanno nel periodo preadolescenziale e adolescenziale, è il punto di vista più adatto per erigersi a proporre cosa cambiare nel sistema educativo. A conferma di ciò così conclude M.D.:
"... se non avremo la buona volontà di tentare e di continuare a tentare, alla luce delle conoscenze raggiunte, di aiutare i nostri bambini a soddisfare le richieste che imponiamo loro, allora non dovremo chiamarli stupidi. Dovremmo piuttosto definire noi stessi indifferenti o paurosi."
Io aggiungerei: incompetenti.
domenica 26 febbraio 2012
Un biennio con i piedi per terra
- L’IBL non è attuabile autonomamente dai ragazzi, ma solo in presenza del mediatore adulto esperto, come guida alla lettura e rilettura ripetuta della realtà, tenendo conto che a), diversamente da noi, che abbiamo già la padronanza dei concetti scientifici, l’aspetto linguistico costituisce la prima necessità e la priorità per i nostri allievi, b) la parola - significato non è insegnabile per trasmissione diretta, ma solo attraverso l’uso ripetuto in contesto di collaborazione con il maestro, strategia che Vygotskij chiama “imitazione” tenendo ben distinto questo termine dall’imitazione delle scimmie; c) non arriviamo a costruire la padronanza (uso cosciente e volontario, capacità autonoma di costruire una definizione adatta al contesto), ma a prepararla. In pratica il nostro compito è “suppletivo” di ciò che i ragazzi del biennio in maggioranza non possono ancora essere in grado di fare da soli: usare volontariamente il concetto in situazione. Essi possono ripetere per imitazione i modi di usarlo. Per questa ragione, essi non riusciranno a risolvere veri problemi da soli.
- Ciò nonostante l’imitazione collaborativa (una mediazione che già si rivolge alla futura evoluzione) deve essere fatta anche sulla risoluzione di problemi, specialmente del tipo che si basa sulla realtà sperimentale, per preparare sia la concettualizzazione vera successiva, sia l’autonomia nel problem solving. In questo modo facciamo due cose fondamentali: prepariamo lo “scaffolding” ai concetti scientifici e al tempo stesso costruiamo una base di concetti spontanei quotidiani, cioè la base di esperienza comune che è ugualmente necessaria sia per costruire la lingua madre, sia per costruire un sapere disciplinare. In altre parole dobbiamo permettere l’accumulo di esperienze e, per quanto riguarda la comprensione di queste, essere “pazienti ed imitabili”, perché ciò che essi sono in grado da fare oggi solo col nostro supporto, diventeranno capaci di farlo in poco tempo da soli. Non dobbiamo avere alcuna fretta su questo.
- Per quanto riguarda il ruolo dell’esperienza e dell’agire con le mani credo che a) l’idea che i ragazzi si costituiscono della nostra scienza sia legata positivamente a questo aspetto e, quindi, facciamo bene a sfruttare questo legame e a far uso del laboratorio; b) al tempo stesso non dobbiamo abusarne per una serie di ragioni, prima di tutte il ridotto tempo a disposizione, poi il fatto che il fine, il risultato di ogni attività pratica lascia un segno forte che a volte non solo oscura tutto ciò che è significativamente correlato all’attività nel suo insieme, ma è addirittura in conflitto con ciò che volevamo insegnare (vedi ad esempio la buretta: con i piccoli (1° anno) la soluzione satura si ottiene solo quando tutto il sale si è sciolto; con i grandi (2°-3° anno), la reazione è completa solo al viraggio); c) soprattutto il laboratorio deve essere il punto di partenza e non l’esperienza totalizzante in se stessa, per avere tanti ancoraggi e sviluppi successivi relativi al nostro compito principale che è quello di preparare individui che saranno in grado, almeno in alcuni campi, di usare autonomamente in modo differenziato, volontario e consapevole i significati e le parole associate. In poche parole dobbiamo fare poche esperienze significative che abbiano qualche aspetto investigativo, e poi lavorarci molto e poi molto sopra a tavolino.
- Aspetti affettivi e valutativi. Metto insieme queste due cose per evitare all’origine il malinteso: “facciamoli appassionare in qualunque modo e con qualunque trucco o seduzione, quindi la carica affettiva sarà da sé sufficiente a sviluppare qualunque livello di apprendimento e, in questa ottica, rimandiamo il problema di se e come valutare l’apprendimento effettivo”. Se siamo professionisti sappiamo due cose:
a) che la passione per qualcosa è un prodotto o conseguenza della confidenza e familiarità con quella cosa e non una precondizione innata o una causa dell’acquisizione della confidenza con quella cosa. Infatti vediamo invariabilmente che quando i ragazzi cominciano a capirci-capire, a sentirsi “confidenti”, al tempo stesso diventano appassionati e disposti a cimentarsi anche in compiti leggermente più complessi cognitivamente. Il viceversa non è affatto vero. Partire dal presupposto che una passione pregressa di uno studente per i razzi possa essere connesso ad una sua propensione e garanzia di una “spinta aumentata” ad arrivare a qualcosa in più della confidenza per i razzi, cioè alla comprensione e alla sua “disponibilità ad assorbire”, magari “trasmissivamente” leggi e teorie fisiche e chimiche che stanno dietro al funzionamento e alla fabbricazione dei razzi, ipoteticamente collegabili a tutto il programma di chimica del triennio, è non solo una ingenuità, una pia illusione, ma anche qualcosa di molto grave e irresponsabile dal punto di vista professionale.
b) A ciò l’aspetto valutativo è strettamente connesso. La valutazione autentica concerne ogni fase del passaggio dall’esperienza alla confidenza, allo sviluppo del dizionario, alla capacità di imitare e poi della comprensione e infine allo sviluppo di una competenza specifica. Questo è indispensabile perché come professionisti dobbiamo essere consapevoli del processo e deve esserci una presa su ciò che funziona e ciò che non funziona in ciascuna delle varie fasi. La difficoltà semmai è nell’abituarsi a osservare i dettagli nell’ottica di un piano a lungo termine, nel fare questo senza inibire lo sviluppo della confidenza che precede e permette un livello almeno potenziale di “passione” (le due cose non sono incompatibili, anche se spesso lo diventano per un uso sbagliato del significato che si dà alle valutazioni o per un eccessivo valore dato al learning object come “oggetto di passione”). Qui si tratta di restituire alla valutazione il ruolo di verità condivisa e di forza positiva. Ho una verifica: un problema che era a rischio è stato fatto bene grazie al fatto che l’idea di imitazione ha funzionato e pare aver dato dei frutti. Altri quesiti sono andati male in essi si richiedeva il possesso di più concetti autonomi? Forse; ma se nel frattempo che io ci rifletto sopra, dovessi dare a questa verifica il senso tradizionale di voto nel suo insieme, stempererei quella positività del problema ben fatto (sulla concentrazione e diluizione di una soluzione) nella negatività del punteggio complessivo. Sarebbe come dire: questo lo avete saputo fare “solo” grazie ai miei aiuti e alle mie “concessioni” (ho rimandato due volte il compito, e grazie alle tre ore di lezione guadagnate, la mia collaborazione è potuta continuare anche quando avete provato a casa a rifarlo da soli nello studio) ma rimanete sostanzialmente dei somari perché molti concetti non li avete per niente acquisiti ed è ciò che il voto sta a testimoniare. I ragazzi si prenderebbero il 3 o il 4 senza problemi, come spesso accaduto in passato. Ma in realtà commetterei un errore. Un errore già commesso ripetutamente. Nella valutazione non ha alcun senso “sommare”. Tute le nostre valutazioni devono essere esclusivamente formative, tranne quelle delle competenze, sommative, la cui provenienza dovrebbe essere esterna al sistema. Pe me ha senso dire: “vediamo perché questa cosa ha funzionato: non ci speravo, non perché voi non foste all’altezza, ma perché è un compito difficile e io non mi sento all’altezza di avere sempre la soluzione in mano per aiutarvi a capire meglio qualcosa. Facciamo tesoro del fatto che quel quesito sia andato bene. Non avete copiato nonostante ci fosse stata in gioco una insufficienza, avete fatto bene perché c’è qualcosa, nelle attività svolte in questi giorni, che vi ha aiutato a diventare capaci, e adesso dobbiamo capire bene, io per primo, che cosa è stato”. Con lo stesso spirito andiamo ad analizzare, dopo, le risposte errate degli altri quesiti. Questo significa creare una comunità di apprendimento che lavora in modo concorde e sinergico verso dei target comuni, piuttosto che una comunità schizofrenica come quella che vuol farci fare chi si riempie la bocca di “meritocrazie” e voti.
giovedì 12 gennaio 2012
Istruzione Made in Italy?
Primo commento 3 gennaio 2012
Approvo e apprezzo questo documento che più che una proposta potrebbe diventare un manifesto fondativo su cui lavorare.
In particolare sono felice di leggere finalmente una condanna dell'applicazione acritica della meritocrazia anche alla relazione educativa. Tra l'altro esistono esperienze solide di altri sistemi educativi che dimostrano quanto la "ovvietà" della meritocrazia, applicata non solo alla relazione educativa, ma anche al rapporto del docente con l'istituzione, dia risultati mediocri (per es. vedere questo articolo.
E la maestra Fanti rende in modo molto chiaro e convincente ciò che potrebbe esserci di meglio e alternativo sia al buonismo sia al suo opposto simmetrico: la meritocrazia.
Un altro aspetto importante in cui mi riconosco pienamente è la relativizzazione dell'altro idolo, la tecnologia.
Ma è la parte dialogica, collaborativa, della scoperta, dei tempi lunghi per la costruzione di conoscenze autonome, che mi sento di difendere con maggior forza. Occorre difenderla dall'unica obiezione giusta che si potrebbe fare a questa proposta, cioè che la sottrazione dei voti dal sistema non debba coincidere con un vuoto valutativo e che i voti non siano sostituiti da illusioni sull'efficacia dell'applicazione del nuovo modello di relazione educativa ai singoli casi e alle singole azioni didattiche.
Il sistema-minaccia dei voti è ovviamente un'illusione ancora peggiore, che offre il salvacondotto di aver fatto il proprio dovere verificando oggi ciò che si è trasmesso ieri e che gli studenti hanno (si auspica) studiato ieri pomeriggio e dimenticheranno domani. È un autoinganno in cui si vuol credere perché dà sicurezza e perché si constata, sui lunghi tempi, che molti bravi studenti compiono comunque progressi. A questo punto non è difficile illudersi ulteriormente inventando una correlazione tra studio finalizzato anche al voto e successo scolastico. O forse esisterà pure: non sarà il successo cognitivo e scolastico, forse, solo il frutto dello sviluppo generale dell'individuo e delle premesse e delle condizioni ambientali, familiari, e sociali favorevoli. Comunque tale correlazione, tale valore aggiunto fornito dall'attuale scuola riguarda una frazione di studenti troppo esigua, e non ci autorizza a disconoscere la stratosferica percentuale dei fallimenti.
Ma non è fossilizzandoci su cosa è illusorio e va tolto che riusciamo a far sì che tante certezze che bloccano la scuola siano rimesse in discussione.
Un aspetto rilevante credo sia capire che mentre alla scuola dell'infanzia e primaria la valutazione sia un tutt'uno con l'attività e il buon funzionamento dell'azione educativa sia facilmente visibile, monitorabile, sotto tutti gli aspetti, quindi alla bisogna immediatamente correggibile, alla secondaria abbiamo a che fare con la costruzione di competenze in sistemi concettuali astratti, simbolici, un processo che non è direttamente monitorabile, valutabile e autovalutabile. Dobbiamo introdurre delle strategie, come il problem solving autentico in cui oltre alla consapevolezza dell'aver passato del tempo a studiare ci si scopre di essere in grado di pensare, creare, di possedere conoscenze astratte "proprie" perché le si utilizzano in modo contestualizzato e non "pre-addestrato". In questo senso il problem solving può costituire un sistema analogo a quello della primaria, dove insegnamento, apprendimento e valutazione formano un tutt'uno, con l'aggiunta della maggior consapevolezza dell'autovalutazione.
Ma la difficoltà è che, come ogni attività di problem solving autentico comporta, ci sono successi e ci sono fallimenti.
Allora la nuova scuola si deve distinguere dalla vecchia per come risponde al piccolo fallimento (per evitare quello grande a cui assistiamo oggi continuamente) e per la sua capacità di riconoscerlo, che comporta anche delle verifiche autentiche di medio e lungo periodo.
Infatti quando si hanno degli obiettivi formativi su sistemi concettuali astratti e simbolici (e non credo si abbia intenzione di rinunciarvi) l'acquisizione di padronanza e la presa di coscienza diventano molto più difficili da riconoscere e valutare, e il rischio della pura illusione della modificazione cognitiva è maggiore sia nell'alunno sia nel docente.
Il clima sociale e collaborativo contribuisce a creare l'illusione che "tra un mese sarò/à in grado di avvalermi/si di questa competenza di nuovo e da solo, perché ho/ha colto ciò che era essenziale".
Oltre ad essere riferibili a sistemi di concettualizzazione scientifica e astratta, queste competenze non sempre accompagnano lo studente per tutta la vita cognitiva in modo olistico, come avviene maggiormente nell'educazione primaria.
Non credo si possa fare a meno, sopra a un certo livello scolare, delle competenze disciplinari; per cui un certo grado di "settorializzazione cognitiva" credo sia inevitabile, ma anche tollerabile.
Con ciò non intendo dimostrare l'inevitabilità dei voti indipendenti per materia, ma l'importanza delle verifiche autentiche delle competenze sul medio e lungo termine (quelle che oggi si tende a evitare perché mettono a nudo la vanità del nostro operato). Se il nuovo sistema funzionerà lo si vedrà dal fatto che gli esiti delle verifiche sul medio termine saranno positivi almeno al 75% e quelle a lungo termine nella quasi totalità. Mantenere le verifiche non significa mantenere il voto (termine che uso per conglobare la serie di misconcetti e percezioni errate che conosciamo bene).
Ciò che deve cambiare è l'uso che facciamo dell'informazione valutativa.
A posto del voto sulla pagella abbiamo bisogno di un sistema di feedback rapido ed efficace per ricuperare quel 25% di esiti negativi con idonee prese di coscienza reciproche e interventi modificanti efficaci ed effettivi.
Significa restituire alla valutazione, al "grado", il senso originario di "corresponsabilità" dal punto di vista professionale e di stimolo positivo per lo studente.
Gli errori sono la fonte principale di apprendimento, se accompagnati da opportuna metacognizione, e tutti nella scuola, docenti e studenti, devono ben sapere che la meta della padronanza richiede a) errori e b) un diverso tipo e numero di errori e riflessioni da parte di individui diversi.Sebbene di "pedagogismo" ce ne sia più di uno, complicando con ciò la disamina accurata e non pregiudiziale dell'efficacia reale di tutto ciò che si potrebbe configurare come "tentativi di modificare gli schemi", rimane una valutazione generica secondo me condivisibile, che la didattica innovativa produce entusiasmo, ma che l'entusiasmo spesso non si traduce da sé in valore aggiunto di apprendimento e competenza reale sul lungo periodo, ma appunto, in illusioni e delusioni successive. Questo è reale e documentabile.
E' evidente che non occorrono tanto buone intenzioni ed entusiasmo per attuare sperimentazioni su larga scala e di lungo periodo, al punto da diventare commensurabili con esperienze di altri paesi (cosa non negativa in sé), ma piuttosto teorie ben solide sull'apprendimento e tanta professionalità e disponibilità alla ricerca più che all'entusiasmo delle certezze facili.
Quando ho parlato di gestione dei fallimenti non mi riferivo solo a quelli dell'alunno. Ho parlato di corresponsabilità professionale. Dietro a questo termine c'è il concetto di ricerca (anche ricerca e azione), dato che nessuno ha le soluzioni definitive in mano (e forse queste non esistono in principio).
Ma non possiamo dire neppure che ciò che c'era o ci sarebbe stato prima del pedagogismo o dei pedagogismi, qualunque cosa essi siano questi, era di ottima qualità e soprattutto potrebbe darci oggi la soluzione dei mali.
E' certo che dei cambiamenti sono necessari. Se ogni sforzo non dico di attuarli, ma solo di trovare una direzione per il cambio viene fatto rientrare automaticamente nei "pedagogismi" allora è inutile stare qui a perdere tempo.
A costo di ripetermi, prima di attuare una qualunque innovazione dobbiamo conoscere bene e condividere una teoria dell'apprendimento per cui questa innovazione dovrebbe essere efficace. Oggi abbiamo delle ottime teorie dell'apprendimento, ma dobbiamo averci lavorato sopra e non assumerle per buone solo perché prodotte da cervelloni.
Ciò si deve riconoscere dai nostri tentativi di attuazione delle pratiche, che devono sfociare in verifiche autentiche e rigorose che la padronanza dei concetti si sia effettivamente costruita o meno. C'è meno bisogno di questo nella primaria, per quanto ho già detto, quindi è sbagliato pensare alla didattica dialogica e adisciplinare come di un metodo unico che va bene per individui dai 3 ai 20 anni. Ma è importante che gli esiti negativi delle verifiche autentiche ci siano e siano i veri punti di forza, quindi costituiscano gli elementi positivi, cardine, della nostra ricerca-azione.
Mi viene in mente un esempio importante di "pedagogismo" rispettabile, certamente più del nulla di chi critica solamente e nella convinzione che la soluzione sia nella restaurazione di ciò che funzionava "benissimo".
Per oltre vent'anni Dorothy Gabel, insegnante e ricercatrice americana di didattica della chimica, ha propugnato un "approccio particellare" alla comprensione dei concetti chimici, del quale ero profondamente convinto attuatore e sostenitore. Ho diffuso usanze di simulare concretamente le combinazioni chimiche con mucchi di viti e dadi e altre cose analoghe. Ma col tempo mi sono anche convinto che tutto ciò non funzionava: la manipolazione produceva comprensione delle combinazioni concretamente manipolate, ma non di quelle che costituivano il vero obiettivo. I test di comprensione continuavano a fornire risultati negativi o anche peggiori di prima. All'inizio l'idea di dover abbandonare le mie certezze era quasi tremenda, e cercai altre soluzioni. Poi invece ho studiato qualche teoria psicologica per mio conto e contemporaneamente ho abbandonato l'idea, ancora prima di capire 'perché' non doveva funzionare. Oggi che, dopo altri dieci anni, vedo ancora nei laboratori dei bicchieri pieni di viti e dadi usati da miei colleghi caduti nella stessa trappola per pura imitazione, senza mai aver avuto uno scambio culturale, senza che io abbia mai fatto nulla per convincerli prima o per dissuaderli dopo, mi sono domandato che fine avesse fatto Dorothy Gabel. Un mio amico universitario che conosce bene e di persona i diversi interpreti della ricerca in didattica della chimica mi ha detto: "ha chiuso tutto, ha capito che l'approccio non funzionava". Ah bene, ho risposto, rispetto il fatto che ci abbia impiegato 20 anni, ma non poteva fare allora un articolo a caratteri cubitali e farcelo sapere?
Esistono dunque i pedagogismi che non funzionano, ma esistono pure le spiegazioni e le capacità scientifiche di costruire delle pedagogie che funzionano.
Ecco cosa intendo con l'importanza di riconoscere subito i piccoli fallimenti, essere ricercatori seri, non campare sugli entusiasmi, l'importanza di lavorare in equipe con solide teorie di sfondo, se si vogliono evitare giustificate accuse di "pedagogismo".
3 Gennaio 2012 at 22:23
E’ proprio questo il pedagogismo che ha distrutto la scuola italiana.
4 Gennaio 2012 at 00:22
Sono d’accordo con te Michele.