martedì 13 settembre 2011
Non più il libro di testo, ma molti libri veri
giovedì 25 agosto 2011
CLIL e comprensione: non è la lingua che fa la differenza
mercoledì 13 luglio 2011
Professore: quando andiamo in laboratorio?
Sottotitolo: mezzi e fini
Risposta al post "Professore, quando andiamo in laboratorio?", su Educazione 2.0
è una delle domande che odio di più. Come dire: "invece a star qui a sorbirci un compito di apprendimento al quale è interessato solo il prof, perché non accendiamo la televisione? Poi, girando col telecomando, troveremo qualcosa per passare il tempo". Questo è esattamente ciò che hanno in mente la maggior parte degli studenti italiani, tranne forse qualche figlio di papà in qualche scuola ultraprivata, quando chiedono (o spesso anche pretendono) di andare in laboratorio, come da calendario. Si sa che ci si vuole andare, ma non si sa a fare che cosa. Non importa. Questo è vero sia che si tratti di un laboratorio di informatica, sia di chimica. E' evidente che a tutti piaccia la vita dello spettatore e del "curiosatore", ben più di quella del discente: risposte passive di fronte a tutto ciò che comporti cambiamento e sforzo di comprensione, risposte attive nei confronti di tutto ciò che comporti puro svago e divertimento, o puro curiosare (non seguito da alcuna responsabilità individuale di studio e approfondimento sistematico).
Il vero problema è che spesso il compito di apprendimento (il fine) non è definito, non è condiviso o ambedue le cose, fin dall'inizio. Il problema delle tecnologie è irrilevante di fronte a questo problema, ed è subordinato ad esso.
Non possiamo confondere l'uso di "concessioni", "diversivi motivanti e divertenti", e passa-tempi trascorsi in laboratorio (mezzi, che costano molto più degli strumenti tradizionali), con il raggiungimento del fine.
So per certo, per i numerosi tentativi fatti, che anche quando si hanno a disposizione mezzi tecnologici (che il 90-95% dei miei studenti possiede a casa e il 100% usa sistematicamente a scuola), la "realizzazione di una vera e inclusiva comunità educativa" è ostacolata dal fattore "fine curriculare" (quando questo riguarda la mente degli studenti e non le ram dei computer o i fogli stampati). E' così. Le ICT non risolvono il problema centrale dell'istruzione, superare compiti di apprendimento e comprensione che richiedono pazienza, impegno, perseveranza, aiuto e mediazione a volte uno a uno e una comunità di apprendimento. Solo in situazioni veramente eccezionali, che richiedono anni di lavoro si realizzano vere comunità di apprendimento, ma in tali casi vi si riesce anche in assenza di tecnologie o con un uso limitato delle tecnologie. L'esempio da tenere a mente è quello di Don Milani, non quello di 25 ragazzi sbracati davanti al computer, ciascuno a farsi gli affari propri come succede nelle realtà dove si usano aule di informatica. Sono i ragazzi stessi che a 16-18 anni mi dicono: "finché si gioca si gioca, ma quando devo capire e imparare qualcosa mi serve un libro, una matita, una persona che mi sa spiegare, e devo spegnere il computer che mi distrae". Purtroppo ogni volta che si parla di ICT a scuola si parla sempre degli strumenti usati, ma mai di ciò che si fa di cognitivamente e di significativamente diverso dalle "solite" lezioni con tali strumenti tecnologici.
Le lezioni senza tecnologie devono essere per forza etichettate come "solite" e come "frontali"? Sarà... ma io invece, da chimico, che analizza le cose e non chiama "uguali" cose diverse, e non perde di vista la concretezza della materia e degli scopi, dico che le lezioni fatte con le tecnologie sono giochini divertenti che sfiorano la superficie delle discipline e girano attorno ai problemi. Almeno adesso siamo pari.
Post scriptum da FB
Perdere tempo in distrazioni (e aggeggi che non funzinanononsicolleganonon
Per cortesia, guardiamo prima la sostanza, non gli strumenti, se vogliamo migliorare la scuola.
venerdì 1 luglio 2011
Prima pensiamo a delle teste ben fatte, poi all'orientamento e al territorio
Sottotitolo: W LE APPLICAZIONI TECNICHE!
Mi riferisco alla e proseguo la discussione su:
1. Il problema della frammentazione dell'offerta formativa si profila ora più che mai all'istituto tecnico: la scuola che da sempre considero la migliore che abbiamo in Italia e non solo, quella che più è migliorata rispetto a quella frequentata da me trentacinque anni fa. Il fatto è che tutte le possibilità di accorpamento ed eliminazione di qualche insegnamento sono decaduti: storia diritto ed economia, laboratorio di fisica e chimica, già lungamente sperimentato. La logica è stata: facciamo tagli a tutti così nessuno potrà sentirsi più maltrattato di altri (cosa che invece accade, sulla pelle dei più deboli) dato che fare le scelte è più impopolare, farle intelligenti richiede anche autorevolezza e intelligenza che non ci sono e comunque sono accessorie rispetto al vero fine di riuscire, nonostante tutto, a mantenersi al potere antidemocraticamente. Il risultato sarà un gran maltrattamento della scuola, specie quella tecnica. Laboratori umiliati, aggiunta di materie tecnologiche generiche che non si capisce bene in cosa dovrebbero differire da tecnologia e disegno quando, ripeto, abbiamo ragazzi che non sanno assolutamente trarre alcun vantaggio da tale spezzatino di ore, in cui nessuna materia raggiungerà più la soglia d'impatto.
2. Si parla di apprendimento orientante, sapere, saper fare e integrazioni tra queste cose. Preferisco occuparmi della comprensione (che non esclude i vari apprendimenti, ma che non è affatto implicata da questi). Questo obiettivo deve essere un must della scuola secondaria. La nuova scuola deve imparare a fornire esperienze di scoperta e di presa di coscienza dei processi di comprensione a TUTTI. Facciamo mente locale: QUANTE MATERIE insegnava Don Milani? forse undici o dodici? ma, quanta consapevolezza costruiva? Solo quando gli studenti sapranno controllare coscientemente le proprie funzioni intellettive superiori potranno usufruire proficuamente di tirocini, diversificazioni e altre risorse pensate per favorire l'orientamento e la motivazione. Fino ad allora avremo ragazzi che si baseranno su fattori esterni, sull'immagine di sé mutuata dalle proiezioni dei genitori, limitata dall'ambiente sociale, trainata dalle mode e dalle amicizie o da prof che si usano la media dei voti per dire dove iscrivere i figli. Minori che arriveranno ad una scuola del 2° ciclo che non corrisponderà alle aspettative vaghe che, in realtà, non avevano. Ma se vogliamo la scuola con minor autonomia e più confusione di 40 anni fa, basta non fare nulla: non occorre agitarsi tanto.
3. E ancora al biennio della secondaria, gli studenti hanno bisogno di mediazione, aiuto a comprendere, generalizzare e astrarre. E' inutile che insistiate: questo non lo si fa sistematicamente e, nella scuola della molteplicità delle proposte e della confusione, lo si farà sempre meno. Devono ancora conoscere la propria mente, imparare a imparare, astrarre, e a comprendere. Non possiamo trasformare la scuola in "consigli per gli acquisti" nell'illusione, molto pia, che basti vedere, visitare, assistere, ascoltare, partecipare esternamente, essere bombardati di informazioni dalle materie, da promozioni aziendali e da brillanti e flessibili rimescolamenti curriculari di materie, per sapere chiaramente cosa si vuol fare prima ancora di conoscersi. A costo di ripetermi per la terza volta, l'obiettivo non deve essere conoscere, ma saper attivare processi di comprensione. Non si può fare affidamento sulle "contaminazioni" delle offerte provenienti dal territorio in cui i minori si identificano eventualmente con adulti molto appagati, che hanno successo in cose molto meno astratte e complicate di quelle che si deve "subire" a scuola. O magari i minori faticano a proiettarsi in analoghi adulti, irraggiungibili perché affermano, a ragione, che per arrivare a quel livello di successo e di padronanza occorre molto impegno, molto studio, molta curiosità, molto esercizio-sacrificio, e che la scuola è molto, molto importante per cambiare e imparare queste cose. Per ottenere che l'altra metà degli allievi che ancora non conoscono se stessi si considerino incompatibili sia con la scuola che con questa società adulta. Ma perché non gli diamo, piuttosto, il tempo e il modo di crescere intellettualmente? Questo è il nostro dovere di insegnanti.
Mi rendo conto che la mia concezione di scuola come "luogo protetto" possa non essere condivisa da queste teorie funzionalistiche che portano ad un'adultizzazione tanto fittizia quanto precoce. Ma ci tengo a dire che questo biennio protetto deve servire non alla continuazione delle pratiche tradizionali come nei bienni dei licei, dove tutto si cambia per non cambiare nulla, ma deve servire a lavorare intensamente al controllo consapevole della coscienza, delle capacità di riflessione, elaborazione e comprensione di TUTTI (della mancanza delle quali cose tutti i miei colleghi, non a torto si lamentano), a costo di sacrificare qualche materia.
D'altra parte, se qualcuno (genitore e figlio) non ha bisogno di conoscere altro, di sviluppare una migliore qualità del pensiero, né di aspettare, perché ha già capito che ciò che vuole è proseguire la vita e l'azienda di famiglia, non deve andare in giro a cercare col lumicino la scuola più simile a lui, e deve sapere che la scuola non è pensata per lui, ma per chi si prepara ad aprirsi a vivere bene in qualunque possibile tipo di cultura, presente e futura.
PS: Ma quale NiTiNOL!! abbiamo degli adulti che amano divertirsi e hanno bisogno dei giovani come spettatori o dei professionisti dell'educazione che sanno che prima di sperare che sia possibile minimamente comprendere come funziona una transizione di fase austenite/martensite in un materiale con memoria di forma occorre studiare un bel po' di chimica fisica? Capaci dunque di preferire una qualunque altra manifestazione suscettibile di razionalizzazione e comprensione da parte di un 14-enne? Non possiamo trasformare tutto in giochi di prestigio, magie e fenomeni da baraccone. Certo, un fabbricante di occhiali può far capire come si possono fissare delle montature rigidamente, ma con quale mentalità? Questa: esiste un materiale magico che serve allo scopo: lo paghi, lo compri, impari a dominarlo e raggiungi lo scopo. Mentre al liceo scientifico studiano il latino. Ma è mai possibile non capire che in questo modo si uccide l'amore per la comprensione? Anzi, la "speranza" dell'amore per la comprensione! Si dice: le cose sono belle perché (in quanto) funzionano! Ma ci si rende conto? Stiamo entrando nella società futura che dovrà la sua sopravvivenza alla comprensione reciproca, inter e intrapersonale, globale, sistemica, delle cose della natura e ambientale e - ancora oggi - ci basiamo su una scuola che garantisce capacità di comprensione a una percentuale esigua della popolazione scolastica, e che disconosce il piacere della vera comprensione del mondo naturale, scientifico e tecnologico, dunque anche sociale! Quanto rimpiango quando facevo tre cose in tre anni di applicazioni tecniche, traforo, lampadine, interruttori, fili, batterie e le capivo abbastanza bene da costruirmici altre cose simili a casa! Sai cosa me ne poteva fregare di come si facevano le piastrelle! Mica quelle potevo farmele, studiarle!
mercoledì 18 maggio 2011
I test INVALSI: smascherato un maldestro cavallo di Troia
giovedì 31 marzo 2011
la soluzione
domenica 20 marzo 2011
così scrisse Elsa Morante
domenica 13 marzo 2011
Io, invece, mi accanisco!
Non si può CANCELLARE il problema perché ANCORA non si riesce a risolverlo adeguatamente. Montaigne diceva: "quando un problema è senza soluzione allora è necessario eliminare il problema", ma si riferiva evidentemente a problemi di natura individuale. La condivisione e l'identificazione culturale sono il collante sociale fondamentale di un Paese, e possono essere realizzate in modo certamente più indolore di come la scuola vorrebbe continuare a fare con metodi che erano adeguati alla società di due o tre generazioni fa. Come ad esempio pensando di poter trasferire le proprie idee di bello, di buono ed utile, associate a determinati contenuti, a studenti che dovrebbero acquisirle belle e pronte, con gli stessi sensi e significati che forse lo stesso docente non ha ancora pienamente elaborato. Con tutta l'abnegazione, la buona volontà del mondo, ciò non è possibile perché contrario all'asserto fondamentale della pedagogia: che la conoscenza e la consapevolezza sono costruzioni individuali mediate dal dialogo sociale. Rifiuto l'idea che l'istruzione si possa snaturare per consentire ai delusi dell'insegnamento di avere davanti solo studenti desiderosi di seguire le orme del loro amato docente.
Credo che il mio insegnamento può essere utile e positivo qualunque siano gli ideali di vita dei miei studenti, altrimenti sto compiendo un errore, una riduzione. Ad esempio, l'imparare cosa significhi conoscere e comprendere, risolvere problemi, arrivare a capire che anche questo può essere buono e bello, oltre che utile, non possono essere acquisizioni destinate solo ad uno spaccato della società. La scuola può avere margini di successo nel dare questi strumenti a tutti. E dobbiamo farlo, a meno che non pensiamo che la cultura della comprensione, di E. Morin, per intenderci, sia accessibile solo per chi deve comandare (magari fosse, mi viene da pensare) o, peggio, che sia sostituibile dal sentimento religioso come unico capace di raggiungere tutti gli uomini.
Rifiuto l'idea che la scuola non sia modificante e serva anzi per cristallizzare ogni giovane in età evolutiva sul suo progetto di vita, qualunque esso sia, cioè sul suo contesto sociale, sul proprio micromondo.
Liberare un giovane implica sì capire che questa scuola non sta funzionando, ma anche poi dare a tutti, giovani e meno giovani, gli strumenti fondamentali per comprendere e scegliere sempre, non una sola volta nella vita.
Il mio accanimento è meno folle di quanto molti pensano, il mio compito è dolce, perché vedo che studenti che hanno i più disparati interessi, quando riesco comunque a ingaggiarli, quando si accorgono che la loro testa funziona, cambiano la luce nei loro occhi. Ma ciò accade solo se e quando riesco ad andare oltre il mio sentimento di insoddisfazione. Se non ce la facciamo, da soli, a gettare la frustrazione dietro le spalle, alleiamoci, cominciamo ad unirci, rimboccarci le maniche e agire per riuscire dove altri hanno fallito. Ma non buttiamo a mare i "non studianti" o i "chattanti", che sono i soli che possono darci qualche vera soddisfazione. E quante cose c'è da imparare per gli studianti della prof.ssa Mastrocola!
Adesso sono entusiasta dei modelli emergenti, un'idea promossa da diversi anni da J.Novak e A. Cañas. Sto cercando di metterla in pratica e di adattarla a tutti i miei precedenti studi e sperimentazioni, con e senza mappe concettuali.
I miei tentativi si possono trovare ad esempio in questo documento condiviso.
Rifiuto di basarmi su una vana speranza: "...con la speranza che la scelgano in tanti e che la cultura non abbandoni la nostra vita)", riferita alla scuola "per lo studio, quella per gli albatros, isolati, diversi, portati allo studio e negletti".
giovedì 3 marzo 2011
Il giorno dopo del collegio docenti
Non mi basta la convinzione che la scuola pubblica sia migliore e più democratica di altre scuole confessionali e/o rivolte a famiglie benestanti. Non mi basta la convinzione che nella nostra scuola, tra i nostri colleghi, ci siano, individualmente, le migliori esperienze e professionalità di tipo specificamente educativo reperibili sul “mercato”. Non mi accontento della convinzione che solo nella nostra scuola resista e sia profondamente e culturalmente radicato, contro tutte le derive “materialiste” e “moraliste”, così dominanti tra giovani e rispettive famiglie, il valore superiore della conoscenza. Mi manca che per trasformare queste potenzialità in una scuola realmente migliore, per avere “i numeri” per poter difendere la scuola pubblica, occorre avere una visione chiara e condivisa di quali problemi ci vengono posti non dalle sprezzanti dichiarazione di chi ci governa, non dalle scuole private, ma dall’evidenza dei cambiamenti sociali, dalla maggior consapevolezza diffusa, anche fuori della scuola, di che cosa significhi oggi essere “competenti” e, se vogliamo, dall’Unione Europea che in realtà non fa altro che recepire tali necessità e stimolarci a guardare in avanti.
Rendere più competitiva la scuola “pubblica” significa oggi “dare” più competenze. È chiaro che cosa siano le competenze; dal collegio ho avuto la netta impressione che ciò fosse chiaro e questo è un notevole passo avanti rispetto al passato. Saper affrontare autonomamente situazioni nuove che comportino scelte, decisioni, consapevolezza nel recuperare opportune e significative conoscenze utili e, proprio per questo, non inerti. In poche parole risolvere problemi autentici, non standardizzati. Sappiamo che questo genere di abilità è tipico di chi ha esperienza in un campo, cosa che dai nostri studenti non si può pretendere. E sappiamo anche che l’avere esperienza di buon livello in un dato settore non aiuta neppure gli adulti esperti a risolvere problemi in un settore diverso e per loro nuovo. Queste due ovvietà ci dicono che una scuola basata sulla risoluzione dei problemi, sull’interpretazione di testi, sulla ricerca del significato, non sia fattibile con studenti normali. A causa di questo facile equivoco ci troviamo a insegnare sistemi formali e contenuti prima del loro scopo, prima dei contesti reali, prima che possa esserci una ragionevole speranza che un alunno “concreto” possa capirne il senso. Abbiamo vissuto personalmente la stessa esperienza di inversione pedagogica e riteniamo che essa sia la cosa migliore: “prima impara, poi saprai applicare, quindi capirai”. Anche i nostri studenti preferiscono in genere che il compito consista solo nella prima parte e temono la seconda. Non mi riferisco alle applicazioni pratiche, ma all’essere competente in senso generale, che è diverso da “ben addestrato”. Anche professionalmente parlando, il compito di insegnare contenuti è in principio più facile: oggi studi, domani dimostri di “possedere” un contenuto. Domani non possiedi il contenuto: prendi un votaccio. È dipeso dallo studio, la prossima volta ti basterà studiare e recupererai il votaccio. Tutto ciò è estremamente semplice. Eviterò di approfondire perché in cotanta semplicità ci rientri una minoranza dei nostri studenti. Ciò che ora è importante chiarire è che per imparare a risolvere problemi, per acquisire competenze, per imparare a interpretare testi e ad argomentare criticamente, lo studio, specialmente quello individuale, non funziona. L’unico modo di imparare a risolvere problemi consiste nell’avere problemi, recepire la loro natura e cercare di risolverli; per imparare ad argomentare occorre avere occasioni di scrivere ed esprimere il proprio pensiero e di vedere come questo è letto, interpretato da altri e riaggiustarlo. Per diverse ragioni, alcune ovvie le ho accennate, tutto ciò non è possibile farlo da soli. Quindi esistono le classi, gli insegnanti, le comunità di apprendimento… la scuola pubblica del futuro, che non è né quella attuale che vogliamo difendere senza cambiare nulla, né tanto meno quella del passato che alcuni di noi vorrebbero restaurare.
La parte più difficile consiste nel riconoscere la natura di un problema e l’insegnante potrebbe facilitare questo compito. Si tratta di acquisire la percezione delle variabili, capire dove ci si trova, dove si deve arrivare, quindi vedere l’ostacolo, comprendere il problema. Se si è aiutati ciò può avvenire anche senza una grande esperienza. Aiutare nel migliore dei modi, per me significa porsi più vicino al livello degli studenti, senza paura di apparire incompetenti. È naturale che ciò accada quando in classe o in laboratorio si affrontano problemi reali, nuovi anche per noi e – vi posso assicurare – i ragazzi non mi considerano incompetente quando lo faccio. Ciò che conta è che i ragazzi percepiscano la nostra curiosità ed è ovvio, pertanto, che noi si debba averne. Una volta compreso il principio che anche gli inesperti possono, in questa maniera, con questo genere di guida, imparare una disciplina, costruire significati e risolvere i problemi usando la disciplina, rimane il problema della valutazione. Non possiamo utilizzare la minaccia del voto per far sì che i nostri studenti vincano la paura di non essere all’altezza, di non riuscire, accettino la sfida della conoscenza e si impegnino in essa. La minaccia del voto può servire per “sciupare” mezzora del proprio tempo a imparare una cosa certa, che sarà richiesta con certezza nella verifica giorno dopo piuttosto che stare mezzora su Facebook, o fare un’altra attività d’interesse. Per la maggior parte dei ragazzi lo studio autonomo non è affatto sufficiente ad acquisire le competenze. Svolgere attività autonome e anche collaborative che siano la prosecuzione delle lezioni centrate sui problemi, questa costituisce una strategia qualitativamente diversa perché è di tipo collaborativo. Il metodo di verifica e valutazione penalizzante l’insuccesso è legato al modello di studio-insegnamento finalizzato al possesso di contenuti. Il più comodo da insegnare e da studiare. Ma il meno rilevante per moltissimi studenti. E il meno utile alla società, all’umanità, che necessita sempre più di individui capaci di riflessione e comprensione. Il nostro problema –secondario- consiste nel trovare il modo di valutare in modo umano il coinvolgimento, l’apprendimento e infine il rendimento in termini di competenze acquisite, senza penalizzare gli insuccessi ma, eventualmente, dopo attento esame delle situazioni, dopo aver compreso le reali cause dell’insuccesso, dopo un’autovalutazione dello studente, penalizzando la mancanza di impegno. Queste sono le condizioni al contorno perché si possa affrontare e risolvere il problema primario: il recupero della curiosità, del valore della conoscenza , l’ingaggio di tutti nei problemi, senza snaturare le discipline che insegniamo, senza riempire l’istruzione di inutili progetti.
Se esiste tra noi la volontà di difendere un’idea del genere di scuola futura che non tema competitori, da stupidi attacchi, allora sono disposto a firmare mozioni di difesa che parlano della nostra dignità.
Alfredo Tifi
martedì 11 gennaio 2011
dalle espressioni verbali alle mappe concettuali
I termini sono generali, poi le tecnologie possono essere individuate.
1. il punto di partenza dell'approccio costruttivista non sono i concetti singoli ma le espressioni orali spontanee, con i loro "accavallamenti di idee", così come nascono da discussioni in classe, magari improntate alla risoluzione di un semplice problema. Queste espressioni devono essere immediatamente catturate, letteralmente e in forma scritta, quindi analizzate (punto 2)
2. L'analisi deve far sì che le idee accavallate siano distinte, riformulate sotto forma di proposizioni complete e l'introduzione di termini scientifici che, essendo nuovi, faticano ad apparire nel linguaggio naturale della comunità. Le proposizioni, che rappresentano il passaggio graduale dal linguaggio spontaneo al linguaggio con i concetti scientifici, sono rilette e riscritte rigirate e ricombinate in modi diversi, in una specie di "gioco" del linguaggio. Grazie al gioco del linguaggio prolungato è possibile imparare a usare in modo sensato e dinamico i concetti ad un livello di efficienza che sarebbe impensabile ottenere costruendo mappe concettuali. Manca però la consapevolezza epistemologica, che non si può ottenere da questo tipo di pratica.
3. Questo tipo di consapevolezza deve essere costruito prima come mappe mentali (non intendendo quelle sulla carta o al computer, ma quelle nella testa, nella mente). Come? modificando il gioco del linguaggio in modo da richiedere che cosa è collegato a che cosa, o quale proposizione viene prima e quale viene dopo, come conseguenza, il "gioco dei perché", ecc. Ci si accorgerà che nel fare ciò non si partirà da zero, ma che molte delle proposizioni erano già state connesse e gerarchizzate spontaneamente dagli studenti durante gli esercizi col registro linguistico base della disciplina. Si tratta semplicemente di recuperare in termini di consapevolezza tutti i collegamenti strutturali necessari ad avere una visione globale della materia o, per l'esattezza, di un dato dominio della materia.
Per come è strutturato il linguaggio umano, il senso non è portato da singole parole, e ciò che avviene spontaneamente non è la formazione di connessioni tra concetti (dotati di significato ma non di senso), ma piuttosto lo stabilirsi di connessioni tra proposizioni (comprensive di senso e di concetti).
Ovviamente una disciplina (es. la chimica) può essere dotata di un proprio linguaggio specifico altamente logico e simbolico e anche concreto-manipolativo, esperenziale.
Il docente dovrà evitare che tali linguaggi "interni", simbolici, tecnici, iconici, pittografici, ecc., dominino le pratiche disciplinari e dovrà curare che ogni tipo di discussione sia ritradotta nel normale registro scritto-orale. Evitare dunque l'oggettificazione dei segni e dei simboli, come normalmente si fa in matematica e nelle materie scientifiche. Quindi la principale innovazione da fare nell'insegnamento delle materie scientifiche non consiste nel fare più laboratorio o nell'usare più tecnologie, ma nel rendere l'insegnamento-apprendimento di queste materie più dipendenti dal linguaggio e più simili alle materie umanistiche. Praticamente la "scoperta dell'acqua calda".
PS: il punto 3 è più complesso di quello che pensavo. Ci sono differenze qualitative rilevanti tra la capacità di mantenere significati costruiti usando le stesse strategie su argomenti simili in primo (quattordicenni, nessuna stabilità) e in terzo (sedicenni, discreta stabilità nel medio termine) o in quarto. Ciò meriterebbe un'indagine più approfondita. Forse Vygotsky viene in aiuto nello spiegare questa differenza come risultato della transizione ancora non teminata dalle struttire di generalizzazoine per complessi a quella per concetti scientifici. Occorre comunque un modello più specifico per adattare la strategia dei giochi linguistici al biennio.
4. Una volta che si comincia a costruire il sistema nella mente, lo studente potrà rendersi conto di lacune e incoerenze, sarà in grado di utilizzarlo per formulare un ragionamento nuovo. Pertanto la fase successiva è l'utilizzo dei concetti scientifici appena conquistati per risolvere veri problemi, per affrontare casi.
Questi sono i presupposti indispensabili per poter raggiungere una comprensione profonda degli argomenti disciplinari per tutti, cosa non più opzionale nell'educazione secondaria moderna. La presenza di tale tipo di comprensione è riconoscibile in tante forme: capacità di produrre argomenti, capacità di affrontare problemi nuovi, capacità di riconoscere l'esistenza di problemi e accorgersi di difetti nei testi e nelle impostazioni di fonti esterne, capacità di ricostruire l'essenza di un testo quando questa non è esplicita. L'apprendimento significativo (dei significati e della loro struttura) in sé non è affatto sufficiente per questo tipo di prestazioni. Esso è perfettamente compatibile con un approccio "accettativo" alla conoscenza, cioè opposto a quello critico richiesto nella comprensione profonda.
5. A questo punto la mappa concettuale può essere costruita a) per aiutare a gestire la complessità della struttura dei significati, b) per favorire il confronto tra diverse epistemologie elaborate da diversi studenti, c) per facilitare l'integrazione della cultura costruita localmente con gli artefatti culturali esterni alla comunità di apprendimento. Ma in ogni caso si deve partire dalla convinzione che la mappa concettuale 1. non è il punto di arrivo e 2. non sarà mai rappresentativa di tutto ciò che si conosce e si sa fare grazie alla competenza nell'utilizzo del linguaggio disciplinare nei diversi e numerosissimi contesti che si presentano in una disciplina.
Il programma è chiaro e da me già testato con un certo successo, in un anno di lavoro, in cui ho ottenuto studenti in grado di parlare di chimica organica certamente meglio di altri gruppi precedenti. Alla fine di un percorso, iniziato da molto prima, ho raggiunto una certa consapevolezza (derivata non solo dall'esperienza sul campo, ma dalla lettura approfondita di autori di riferimento, tra cui soprattutto Vygotsky) di ciò che è accaduto, di ciò che andava fatto e che ho fatto e del perché deve essere fatto.
Le tecnologie, come possono aiutare, semplificare, le diverse fasi? A suggerirci come fare ciò che va fatto?