- L’IBL non è attuabile autonomamente dai ragazzi, ma solo in presenza del mediatore adulto esperto, come guida alla lettura e rilettura ripetuta della realtà, tenendo conto che a), diversamente da noi, che abbiamo già la padronanza dei concetti scientifici, l’aspetto linguistico costituisce la prima necessità e la priorità per i nostri allievi, b) la parola - significato non è insegnabile per trasmissione diretta, ma solo attraverso l’uso ripetuto in contesto di collaborazione con il maestro, strategia che Vygotskij chiama “imitazione” tenendo ben distinto questo termine dall’imitazione delle scimmie; c) non arriviamo a costruire la padronanza (uso cosciente e volontario, capacità autonoma di costruire una definizione adatta al contesto), ma a prepararla. In pratica il nostro compito è “suppletivo” di ciò che i ragazzi del biennio in maggioranza non possono ancora essere in grado di fare da soli: usare volontariamente il concetto in situazione. Essi possono ripetere per imitazione i modi di usarlo. Per questa ragione, essi non riusciranno a risolvere veri problemi da soli.
- Ciò nonostante l’imitazione collaborativa (una mediazione che già si rivolge alla futura evoluzione) deve essere fatta anche sulla risoluzione di problemi, specialmente del tipo che si basa sulla realtà sperimentale, per preparare sia la concettualizzazione vera successiva, sia l’autonomia nel problem solving. In questo modo facciamo due cose fondamentali: prepariamo lo “scaffolding” ai concetti scientifici e al tempo stesso costruiamo una base di concetti spontanei quotidiani, cioè la base di esperienza comune che è ugualmente necessaria sia per costruire la lingua madre, sia per costruire un sapere disciplinare. In altre parole dobbiamo permettere l’accumulo di esperienze e, per quanto riguarda la comprensione di queste, essere “pazienti ed imitabili”, perché ciò che essi sono in grado da fare oggi solo col nostro supporto, diventeranno capaci di farlo in poco tempo da soli. Non dobbiamo avere alcuna fretta su questo.
- Per quanto riguarda il ruolo dell’esperienza e dell’agire con le mani credo che a) l’idea che i ragazzi si costituiscono della nostra scienza sia legata positivamente a questo aspetto e, quindi, facciamo bene a sfruttare questo legame e a far uso del laboratorio; b) al tempo stesso non dobbiamo abusarne per una serie di ragioni, prima di tutte il ridotto tempo a disposizione, poi il fatto che il fine, il risultato di ogni attività pratica lascia un segno forte che a volte non solo oscura tutto ciò che è significativamente correlato all’attività nel suo insieme, ma è addirittura in conflitto con ciò che volevamo insegnare (vedi ad esempio la buretta: con i piccoli (1° anno) la soluzione satura si ottiene solo quando tutto il sale si è sciolto; con i grandi (2°-3° anno), la reazione è completa solo al viraggio); c) soprattutto il laboratorio deve essere il punto di partenza e non l’esperienza totalizzante in se stessa, per avere tanti ancoraggi e sviluppi successivi relativi al nostro compito principale che è quello di preparare individui che saranno in grado, almeno in alcuni campi, di usare autonomamente in modo differenziato, volontario e consapevole i significati e le parole associate. In poche parole dobbiamo fare poche esperienze significative che abbiano qualche aspetto investigativo, e poi lavorarci molto e poi molto sopra a tavolino.
- Aspetti affettivi e valutativi. Metto insieme queste due cose per evitare all’origine il malinteso: “facciamoli appassionare in qualunque modo e con qualunque trucco o seduzione, quindi la carica affettiva sarà da sé sufficiente a sviluppare qualunque livello di apprendimento e, in questa ottica, rimandiamo il problema di se e come valutare l’apprendimento effettivo”. Se siamo professionisti sappiamo due cose:
a) che la passione per qualcosa è un prodotto o conseguenza della confidenza e familiarità con quella cosa e non una precondizione innata o una causa dell’acquisizione della confidenza con quella cosa. Infatti vediamo invariabilmente che quando i ragazzi cominciano a capirci-capire, a sentirsi “confidenti”, al tempo stesso diventano appassionati e disposti a cimentarsi anche in compiti leggermente più complessi cognitivamente. Il viceversa non è affatto vero. Partire dal presupposto che una passione pregressa di uno studente per i razzi possa essere connesso ad una sua propensione e garanzia di una “spinta aumentata” ad arrivare a qualcosa in più della confidenza per i razzi, cioè alla comprensione e alla sua “disponibilità ad assorbire”, magari “trasmissivamente” leggi e teorie fisiche e chimiche che stanno dietro al funzionamento e alla fabbricazione dei razzi, ipoteticamente collegabili a tutto il programma di chimica del triennio, è non solo una ingenuità, una pia illusione, ma anche qualcosa di molto grave e irresponsabile dal punto di vista professionale.
b) A ciò l’aspetto valutativo è strettamente connesso. La valutazione autentica concerne ogni fase del passaggio dall’esperienza alla confidenza, allo sviluppo del dizionario, alla capacità di imitare e poi della comprensione e infine allo sviluppo di una competenza specifica. Questo è indispensabile perché come professionisti dobbiamo essere consapevoli del processo e deve esserci una presa su ciò che funziona e ciò che non funziona in ciascuna delle varie fasi. La difficoltà semmai è nell’abituarsi a osservare i dettagli nell’ottica di un piano a lungo termine, nel fare questo senza inibire lo sviluppo della confidenza che precede e permette un livello almeno potenziale di “passione” (le due cose non sono incompatibili, anche se spesso lo diventano per un uso sbagliato del significato che si dà alle valutazioni o per un eccessivo valore dato al learning object come “oggetto di passione”). Qui si tratta di restituire alla valutazione il ruolo di verità condivisa e di forza positiva. Ho una verifica: un problema che era a rischio è stato fatto bene grazie al fatto che l’idea di imitazione ha funzionato e pare aver dato dei frutti. Altri quesiti sono andati male in essi si richiedeva il possesso di più concetti autonomi? Forse; ma se nel frattempo che io ci rifletto sopra, dovessi dare a questa verifica il senso tradizionale di voto nel suo insieme, stempererei quella positività del problema ben fatto (sulla concentrazione e diluizione di una soluzione) nella negatività del punteggio complessivo. Sarebbe come dire: questo lo avete saputo fare “solo” grazie ai miei aiuti e alle mie “concessioni” (ho rimandato due volte il compito, e grazie alle tre ore di lezione guadagnate, la mia collaborazione è potuta continuare anche quando avete provato a casa a rifarlo da soli nello studio) ma rimanete sostanzialmente dei somari perché molti concetti non li avete per niente acquisiti ed è ciò che il voto sta a testimoniare. I ragazzi si prenderebbero il 3 o il 4 senza problemi, come spesso accaduto in passato. Ma in realtà commetterei un errore. Un errore già commesso ripetutamente. Nella valutazione non ha alcun senso “sommare”. Tute le nostre valutazioni devono essere esclusivamente formative, tranne quelle delle competenze, sommative, la cui provenienza dovrebbe essere esterna al sistema. Pe me ha senso dire: “vediamo perché questa cosa ha funzionato: non ci speravo, non perché voi non foste all’altezza, ma perché è un compito difficile e io non mi sento all’altezza di avere sempre la soluzione in mano per aiutarvi a capire meglio qualcosa. Facciamo tesoro del fatto che quel quesito sia andato bene. Non avete copiato nonostante ci fosse stata in gioco una insufficienza, avete fatto bene perché c’è qualcosa, nelle attività svolte in questi giorni, che vi ha aiutato a diventare capaci, e adesso dobbiamo capire bene, io per primo, che cosa è stato”. Con lo stesso spirito andiamo ad analizzare, dopo, le risposte errate degli altri quesiti. Questo significa creare una comunità di apprendimento che lavora in modo concorde e sinergico verso dei target comuni, piuttosto che una comunità schizofrenica come quella che vuol farci fare chi si riempie la bocca di “meritocrazie” e voti.
domenica 26 febbraio 2012
Un biennio con i piedi per terra
giovedì 12 gennaio 2012
Istruzione Made in Italy?
Primo commento 3 gennaio 2012
Approvo e apprezzo questo documento che più che una proposta potrebbe diventare un manifesto fondativo su cui lavorare.
In particolare sono felice di leggere finalmente una condanna dell'applicazione acritica della meritocrazia anche alla relazione educativa. Tra l'altro esistono esperienze solide di altri sistemi educativi che dimostrano quanto la "ovvietà" della meritocrazia, applicata non solo alla relazione educativa, ma anche al rapporto del docente con l'istituzione, dia risultati mediocri (per es. vedere questo articolo.
E la maestra Fanti rende in modo molto chiaro e convincente ciò che potrebbe esserci di meglio e alternativo sia al buonismo sia al suo opposto simmetrico: la meritocrazia.
Un altro aspetto importante in cui mi riconosco pienamente è la relativizzazione dell'altro idolo, la tecnologia.
Ma è la parte dialogica, collaborativa, della scoperta, dei tempi lunghi per la costruzione di conoscenze autonome, che mi sento di difendere con maggior forza. Occorre difenderla dall'unica obiezione giusta che si potrebbe fare a questa proposta, cioè che la sottrazione dei voti dal sistema non debba coincidere con un vuoto valutativo e che i voti non siano sostituiti da illusioni sull'efficacia dell'applicazione del nuovo modello di relazione educativa ai singoli casi e alle singole azioni didattiche.
Il sistema-minaccia dei voti è ovviamente un'illusione ancora peggiore, che offre il salvacondotto di aver fatto il proprio dovere verificando oggi ciò che si è trasmesso ieri e che gli studenti hanno (si auspica) studiato ieri pomeriggio e dimenticheranno domani. È un autoinganno in cui si vuol credere perché dà sicurezza e perché si constata, sui lunghi tempi, che molti bravi studenti compiono comunque progressi. A questo punto non è difficile illudersi ulteriormente inventando una correlazione tra studio finalizzato anche al voto e successo scolastico. O forse esisterà pure: non sarà il successo cognitivo e scolastico, forse, solo il frutto dello sviluppo generale dell'individuo e delle premesse e delle condizioni ambientali, familiari, e sociali favorevoli. Comunque tale correlazione, tale valore aggiunto fornito dall'attuale scuola riguarda una frazione di studenti troppo esigua, e non ci autorizza a disconoscere la stratosferica percentuale dei fallimenti.
Ma non è fossilizzandoci su cosa è illusorio e va tolto che riusciamo a far sì che tante certezze che bloccano la scuola siano rimesse in discussione.
Un aspetto rilevante credo sia capire che mentre alla scuola dell'infanzia e primaria la valutazione sia un tutt'uno con l'attività e il buon funzionamento dell'azione educativa sia facilmente visibile, monitorabile, sotto tutti gli aspetti, quindi alla bisogna immediatamente correggibile, alla secondaria abbiamo a che fare con la costruzione di competenze in sistemi concettuali astratti, simbolici, un processo che non è direttamente monitorabile, valutabile e autovalutabile. Dobbiamo introdurre delle strategie, come il problem solving autentico in cui oltre alla consapevolezza dell'aver passato del tempo a studiare ci si scopre di essere in grado di pensare, creare, di possedere conoscenze astratte "proprie" perché le si utilizzano in modo contestualizzato e non "pre-addestrato". In questo senso il problem solving può costituire un sistema analogo a quello della primaria, dove insegnamento, apprendimento e valutazione formano un tutt'uno, con l'aggiunta della maggior consapevolezza dell'autovalutazione.
Ma la difficoltà è che, come ogni attività di problem solving autentico comporta, ci sono successi e ci sono fallimenti.
Allora la nuova scuola si deve distinguere dalla vecchia per come risponde al piccolo fallimento (per evitare quello grande a cui assistiamo oggi continuamente) e per la sua capacità di riconoscerlo, che comporta anche delle verifiche autentiche di medio e lungo periodo.
Infatti quando si hanno degli obiettivi formativi su sistemi concettuali astratti e simbolici (e non credo si abbia intenzione di rinunciarvi) l'acquisizione di padronanza e la presa di coscienza diventano molto più difficili da riconoscere e valutare, e il rischio della pura illusione della modificazione cognitiva è maggiore sia nell'alunno sia nel docente.
Il clima sociale e collaborativo contribuisce a creare l'illusione che "tra un mese sarò/à in grado di avvalermi/si di questa competenza di nuovo e da solo, perché ho/ha colto ciò che era essenziale".
Oltre ad essere riferibili a sistemi di concettualizzazione scientifica e astratta, queste competenze non sempre accompagnano lo studente per tutta la vita cognitiva in modo olistico, come avviene maggiormente nell'educazione primaria.
Non credo si possa fare a meno, sopra a un certo livello scolare, delle competenze disciplinari; per cui un certo grado di "settorializzazione cognitiva" credo sia inevitabile, ma anche tollerabile.
Con ciò non intendo dimostrare l'inevitabilità dei voti indipendenti per materia, ma l'importanza delle verifiche autentiche delle competenze sul medio e lungo termine (quelle che oggi si tende a evitare perché mettono a nudo la vanità del nostro operato). Se il nuovo sistema funzionerà lo si vedrà dal fatto che gli esiti delle verifiche sul medio termine saranno positivi almeno al 75% e quelle a lungo termine nella quasi totalità. Mantenere le verifiche non significa mantenere il voto (termine che uso per conglobare la serie di misconcetti e percezioni errate che conosciamo bene).
Ciò che deve cambiare è l'uso che facciamo dell'informazione valutativa.
A posto del voto sulla pagella abbiamo bisogno di un sistema di feedback rapido ed efficace per ricuperare quel 25% di esiti negativi con idonee prese di coscienza reciproche e interventi modificanti efficaci ed effettivi.
Significa restituire alla valutazione, al "grado", il senso originario di "corresponsabilità" dal punto di vista professionale e di stimolo positivo per lo studente.
Gli errori sono la fonte principale di apprendimento, se accompagnati da opportuna metacognizione, e tutti nella scuola, docenti e studenti, devono ben sapere che la meta della padronanza richiede a) errori e b) un diverso tipo e numero di errori e riflessioni da parte di individui diversi.Sebbene di "pedagogismo" ce ne sia più di uno, complicando con ciò la disamina accurata e non pregiudiziale dell'efficacia reale di tutto ciò che si potrebbe configurare come "tentativi di modificare gli schemi", rimane una valutazione generica secondo me condivisibile, che la didattica innovativa produce entusiasmo, ma che l'entusiasmo spesso non si traduce da sé in valore aggiunto di apprendimento e competenza reale sul lungo periodo, ma appunto, in illusioni e delusioni successive. Questo è reale e documentabile.
E' evidente che non occorrono tanto buone intenzioni ed entusiasmo per attuare sperimentazioni su larga scala e di lungo periodo, al punto da diventare commensurabili con esperienze di altri paesi (cosa non negativa in sé), ma piuttosto teorie ben solide sull'apprendimento e tanta professionalità e disponibilità alla ricerca più che all'entusiasmo delle certezze facili.
Quando ho parlato di gestione dei fallimenti non mi riferivo solo a quelli dell'alunno. Ho parlato di corresponsabilità professionale. Dietro a questo termine c'è il concetto di ricerca (anche ricerca e azione), dato che nessuno ha le soluzioni definitive in mano (e forse queste non esistono in principio).
Ma non possiamo dire neppure che ciò che c'era o ci sarebbe stato prima del pedagogismo o dei pedagogismi, qualunque cosa essi siano questi, era di ottima qualità e soprattutto potrebbe darci oggi la soluzione dei mali.
E' certo che dei cambiamenti sono necessari. Se ogni sforzo non dico di attuarli, ma solo di trovare una direzione per il cambio viene fatto rientrare automaticamente nei "pedagogismi" allora è inutile stare qui a perdere tempo.
A costo di ripetermi, prima di attuare una qualunque innovazione dobbiamo conoscere bene e condividere una teoria dell'apprendimento per cui questa innovazione dovrebbe essere efficace. Oggi abbiamo delle ottime teorie dell'apprendimento, ma dobbiamo averci lavorato sopra e non assumerle per buone solo perché prodotte da cervelloni.
Ciò si deve riconoscere dai nostri tentativi di attuazione delle pratiche, che devono sfociare in verifiche autentiche e rigorose che la padronanza dei concetti si sia effettivamente costruita o meno. C'è meno bisogno di questo nella primaria, per quanto ho già detto, quindi è sbagliato pensare alla didattica dialogica e adisciplinare come di un metodo unico che va bene per individui dai 3 ai 20 anni. Ma è importante che gli esiti negativi delle verifiche autentiche ci siano e siano i veri punti di forza, quindi costituiscano gli elementi positivi, cardine, della nostra ricerca-azione.
Mi viene in mente un esempio importante di "pedagogismo" rispettabile, certamente più del nulla di chi critica solamente e nella convinzione che la soluzione sia nella restaurazione di ciò che funzionava "benissimo".
Per oltre vent'anni Dorothy Gabel, insegnante e ricercatrice americana di didattica della chimica, ha propugnato un "approccio particellare" alla comprensione dei concetti chimici, del quale ero profondamente convinto attuatore e sostenitore. Ho diffuso usanze di simulare concretamente le combinazioni chimiche con mucchi di viti e dadi e altre cose analoghe. Ma col tempo mi sono anche convinto che tutto ciò non funzionava: la manipolazione produceva comprensione delle combinazioni concretamente manipolate, ma non di quelle che costituivano il vero obiettivo. I test di comprensione continuavano a fornire risultati negativi o anche peggiori di prima. All'inizio l'idea di dover abbandonare le mie certezze era quasi tremenda, e cercai altre soluzioni. Poi invece ho studiato qualche teoria psicologica per mio conto e contemporaneamente ho abbandonato l'idea, ancora prima di capire 'perché' non doveva funzionare. Oggi che, dopo altri dieci anni, vedo ancora nei laboratori dei bicchieri pieni di viti e dadi usati da miei colleghi caduti nella stessa trappola per pura imitazione, senza mai aver avuto uno scambio culturale, senza che io abbia mai fatto nulla per convincerli prima o per dissuaderli dopo, mi sono domandato che fine avesse fatto Dorothy Gabel. Un mio amico universitario che conosce bene e di persona i diversi interpreti della ricerca in didattica della chimica mi ha detto: "ha chiuso tutto, ha capito che l'approccio non funzionava". Ah bene, ho risposto, rispetto il fatto che ci abbia impiegato 20 anni, ma non poteva fare allora un articolo a caratteri cubitali e farcelo sapere?
Esistono dunque i pedagogismi che non funzionano, ma esistono pure le spiegazioni e le capacità scientifiche di costruire delle pedagogie che funzionano.
Ecco cosa intendo con l'importanza di riconoscere subito i piccoli fallimenti, essere ricercatori seri, non campare sugli entusiasmi, l'importanza di lavorare in equipe con solide teorie di sfondo, se si vogliono evitare giustificate accuse di "pedagogismo".martedì 13 settembre 2011
Non più il libro di testo, ma molti libri veri
giovedì 25 agosto 2011
CLIL e comprensione: non è la lingua che fa la differenza
mercoledì 13 luglio 2011
Professore: quando andiamo in laboratorio?
Sottotitolo: mezzi e fini
Risposta al post "Professore, quando andiamo in laboratorio?", su Educazione 2.0
è una delle domande che odio di più. Come dire: "invece a star qui a sorbirci un compito di apprendimento al quale è interessato solo il prof, perché non accendiamo la televisione? Poi, girando col telecomando, troveremo qualcosa per passare il tempo". Questo è esattamente ciò che hanno in mente la maggior parte degli studenti italiani, tranne forse qualche figlio di papà in qualche scuola ultraprivata, quando chiedono (o spesso anche pretendono) di andare in laboratorio, come da calendario. Si sa che ci si vuole andare, ma non si sa a fare che cosa. Non importa. Questo è vero sia che si tratti di un laboratorio di informatica, sia di chimica. E' evidente che a tutti piaccia la vita dello spettatore e del "curiosatore", ben più di quella del discente: risposte passive di fronte a tutto ciò che comporti cambiamento e sforzo di comprensione, risposte attive nei confronti di tutto ciò che comporti puro svago e divertimento, o puro curiosare (non seguito da alcuna responsabilità individuale di studio e approfondimento sistematico).
Il vero problema è che spesso il compito di apprendimento (il fine) non è definito, non è condiviso o ambedue le cose, fin dall'inizio. Il problema delle tecnologie è irrilevante di fronte a questo problema, ed è subordinato ad esso.
Non possiamo confondere l'uso di "concessioni", "diversivi motivanti e divertenti", e passa-tempi trascorsi in laboratorio (mezzi, che costano molto più degli strumenti tradizionali), con il raggiungimento del fine.
So per certo, per i numerosi tentativi fatti, che anche quando si hanno a disposizione mezzi tecnologici (che il 90-95% dei miei studenti possiede a casa e il 100% usa sistematicamente a scuola), la "realizzazione di una vera e inclusiva comunità educativa" è ostacolata dal fattore "fine curriculare" (quando questo riguarda la mente degli studenti e non le ram dei computer o i fogli stampati). E' così. Le ICT non risolvono il problema centrale dell'istruzione, superare compiti di apprendimento e comprensione che richiedono pazienza, impegno, perseveranza, aiuto e mediazione a volte uno a uno e una comunità di apprendimento. Solo in situazioni veramente eccezionali, che richiedono anni di lavoro si realizzano vere comunità di apprendimento, ma in tali casi vi si riesce anche in assenza di tecnologie o con un uso limitato delle tecnologie. L'esempio da tenere a mente è quello di Don Milani, non quello di 25 ragazzi sbracati davanti al computer, ciascuno a farsi gli affari propri come succede nelle realtà dove si usano aule di informatica. Sono i ragazzi stessi che a 16-18 anni mi dicono: "finché si gioca si gioca, ma quando devo capire e imparare qualcosa mi serve un libro, una matita, una persona che mi sa spiegare, e devo spegnere il computer che mi distrae". Purtroppo ogni volta che si parla di ICT a scuola si parla sempre degli strumenti usati, ma mai di ciò che si fa di cognitivamente e di significativamente diverso dalle "solite" lezioni con tali strumenti tecnologici.
Le lezioni senza tecnologie devono essere per forza etichettate come "solite" e come "frontali"? Sarà... ma io invece, da chimico, che analizza le cose e non chiama "uguali" cose diverse, e non perde di vista la concretezza della materia e degli scopi, dico che le lezioni fatte con le tecnologie sono giochini divertenti che sfiorano la superficie delle discipline e girano attorno ai problemi. Almeno adesso siamo pari.
Post scriptum da FB
Perdere tempo in distrazioni (e aggeggi che non funzinanononsicolleganonon
Per cortesia, guardiamo prima la sostanza, non gli strumenti, se vogliamo migliorare la scuola.
venerdì 1 luglio 2011
Prima pensiamo a delle teste ben fatte, poi all'orientamento e al territorio
Sottotitolo: W LE APPLICAZIONI TECNICHE!
Mi riferisco alla e proseguo la discussione su:
1. Il problema della frammentazione dell'offerta formativa si profila ora più che mai all'istituto tecnico: la scuola che da sempre considero la migliore che abbiamo in Italia e non solo, quella che più è migliorata rispetto a quella frequentata da me trentacinque anni fa. Il fatto è che tutte le possibilità di accorpamento ed eliminazione di qualche insegnamento sono decaduti: storia diritto ed economia, laboratorio di fisica e chimica, già lungamente sperimentato. La logica è stata: facciamo tagli a tutti così nessuno potrà sentirsi più maltrattato di altri (cosa che invece accade, sulla pelle dei più deboli) dato che fare le scelte è più impopolare, farle intelligenti richiede anche autorevolezza e intelligenza che non ci sono e comunque sono accessorie rispetto al vero fine di riuscire, nonostante tutto, a mantenersi al potere antidemocraticamente. Il risultato sarà un gran maltrattamento della scuola, specie quella tecnica. Laboratori umiliati, aggiunta di materie tecnologiche generiche che non si capisce bene in cosa dovrebbero differire da tecnologia e disegno quando, ripeto, abbiamo ragazzi che non sanno assolutamente trarre alcun vantaggio da tale spezzatino di ore, in cui nessuna materia raggiungerà più la soglia d'impatto.
2. Si parla di apprendimento orientante, sapere, saper fare e integrazioni tra queste cose. Preferisco occuparmi della comprensione (che non esclude i vari apprendimenti, ma che non è affatto implicata da questi). Questo obiettivo deve essere un must della scuola secondaria. La nuova scuola deve imparare a fornire esperienze di scoperta e di presa di coscienza dei processi di comprensione a TUTTI. Facciamo mente locale: QUANTE MATERIE insegnava Don Milani? forse undici o dodici? ma, quanta consapevolezza costruiva? Solo quando gli studenti sapranno controllare coscientemente le proprie funzioni intellettive superiori potranno usufruire proficuamente di tirocini, diversificazioni e altre risorse pensate per favorire l'orientamento e la motivazione. Fino ad allora avremo ragazzi che si baseranno su fattori esterni, sull'immagine di sé mutuata dalle proiezioni dei genitori, limitata dall'ambiente sociale, trainata dalle mode e dalle amicizie o da prof che si usano la media dei voti per dire dove iscrivere i figli. Minori che arriveranno ad una scuola del 2° ciclo che non corrisponderà alle aspettative vaghe che, in realtà, non avevano. Ma se vogliamo la scuola con minor autonomia e più confusione di 40 anni fa, basta non fare nulla: non occorre agitarsi tanto.
3. E ancora al biennio della secondaria, gli studenti hanno bisogno di mediazione, aiuto a comprendere, generalizzare e astrarre. E' inutile che insistiate: questo non lo si fa sistematicamente e, nella scuola della molteplicità delle proposte e della confusione, lo si farà sempre meno. Devono ancora conoscere la propria mente, imparare a imparare, astrarre, e a comprendere. Non possiamo trasformare la scuola in "consigli per gli acquisti" nell'illusione, molto pia, che basti vedere, visitare, assistere, ascoltare, partecipare esternamente, essere bombardati di informazioni dalle materie, da promozioni aziendali e da brillanti e flessibili rimescolamenti curriculari di materie, per sapere chiaramente cosa si vuol fare prima ancora di conoscersi. A costo di ripetermi per la terza volta, l'obiettivo non deve essere conoscere, ma saper attivare processi di comprensione. Non si può fare affidamento sulle "contaminazioni" delle offerte provenienti dal territorio in cui i minori si identificano eventualmente con adulti molto appagati, che hanno successo in cose molto meno astratte e complicate di quelle che si deve "subire" a scuola. O magari i minori faticano a proiettarsi in analoghi adulti, irraggiungibili perché affermano, a ragione, che per arrivare a quel livello di successo e di padronanza occorre molto impegno, molto studio, molta curiosità, molto esercizio-sacrificio, e che la scuola è molto, molto importante per cambiare e imparare queste cose. Per ottenere che l'altra metà degli allievi che ancora non conoscono se stessi si considerino incompatibili sia con la scuola che con questa società adulta. Ma perché non gli diamo, piuttosto, il tempo e il modo di crescere intellettualmente? Questo è il nostro dovere di insegnanti.
Mi rendo conto che la mia concezione di scuola come "luogo protetto" possa non essere condivisa da queste teorie funzionalistiche che portano ad un'adultizzazione tanto fittizia quanto precoce. Ma ci tengo a dire che questo biennio protetto deve servire non alla continuazione delle pratiche tradizionali come nei bienni dei licei, dove tutto si cambia per non cambiare nulla, ma deve servire a lavorare intensamente al controllo consapevole della coscienza, delle capacità di riflessione, elaborazione e comprensione di TUTTI (della mancanza delle quali cose tutti i miei colleghi, non a torto si lamentano), a costo di sacrificare qualche materia.
D'altra parte, se qualcuno (genitore e figlio) non ha bisogno di conoscere altro, di sviluppare una migliore qualità del pensiero, né di aspettare, perché ha già capito che ciò che vuole è proseguire la vita e l'azienda di famiglia, non deve andare in giro a cercare col lumicino la scuola più simile a lui, e deve sapere che la scuola non è pensata per lui, ma per chi si prepara ad aprirsi a vivere bene in qualunque possibile tipo di cultura, presente e futura.
PS: Ma quale NiTiNOL!! abbiamo degli adulti che amano divertirsi e hanno bisogno dei giovani come spettatori o dei professionisti dell'educazione che sanno che prima di sperare che sia possibile minimamente comprendere come funziona una transizione di fase austenite/martensite in un materiale con memoria di forma occorre studiare un bel po' di chimica fisica? Capaci dunque di preferire una qualunque altra manifestazione suscettibile di razionalizzazione e comprensione da parte di un 14-enne? Non possiamo trasformare tutto in giochi di prestigio, magie e fenomeni da baraccone. Certo, un fabbricante di occhiali può far capire come si possono fissare delle montature rigidamente, ma con quale mentalità? Questa: esiste un materiale magico che serve allo scopo: lo paghi, lo compri, impari a dominarlo e raggiungi lo scopo. Mentre al liceo scientifico studiano il latino. Ma è mai possibile non capire che in questo modo si uccide l'amore per la comprensione? Anzi, la "speranza" dell'amore per la comprensione! Si dice: le cose sono belle perché (in quanto) funzionano! Ma ci si rende conto? Stiamo entrando nella società futura che dovrà la sua sopravvivenza alla comprensione reciproca, inter e intrapersonale, globale, sistemica, delle cose della natura e ambientale e - ancora oggi - ci basiamo su una scuola che garantisce capacità di comprensione a una percentuale esigua della popolazione scolastica, e che disconosce il piacere della vera comprensione del mondo naturale, scientifico e tecnologico, dunque anche sociale! Quanto rimpiango quando facevo tre cose in tre anni di applicazioni tecniche, traforo, lampadine, interruttori, fili, batterie e le capivo abbastanza bene da costruirmici altre cose simili a casa! Sai cosa me ne poteva fregare di come si facevano le piastrelle! Mica quelle potevo farmele, studiarle!
3 Gennaio 2012 at 22:23
E’ proprio questo il pedagogismo che ha distrutto la scuola italiana.
4 Gennaio 2012 at 00:22
Sono d’accordo con te Michele.