domenica 26 febbraio 2012

Un biennio con i piedi per terra

In questo post rispondo a tre domande utili a individuare la presa del progetto di insegnamento scientifico "P.R.O.F.I.L.E.S." sulla realtà educativa di un biennio ITIS (anzi, ora ITT).

PROFILES
Professional Reflection-Oriented Focus on Inquiry Learning and Education through Science
Studio sull'insegnamento delle materie scientifiche: Scheda delle risposte per la formulazione delle idee
Quali caratteristiche dell'insegnamento delle scienze considera utili e pedagogicamente desiderabili per l'individuo nella società di oggi e nel futuro prossimo?
Dovrebbe pensare ad adolescenti alla fine della scuola dell’obbligo (intorno all’età di 15/16 anni).
Lo spazio per ciascuna risposta è libero
1° Situazione/Contesto e/o Motivo: Quali situazioni e motivazioni possono essere considerate importanti e in quale contesto dovrebbero avvenire le lezioni delle materie scientifiche per stimolare, interessare e appassionare gli studenti alle scienze?
Se c’è una cosa che caratterizza il mio insegnamento è il continuo studio, osservazione e di conseguenza il continuo cambiamento, si spera verso un miglioramento. Per cui non ho alcuna certezza cristallizzata. Al massimo posso elaborare le mie “convinzioni del momento”, quelle che dovranno regolare la mia azione futura.
Continuo a credere, come in passato, che l’Inquiry Based Learning o IBL (concetti di pensiero “inquisitivo” contrapposto ad “accettativo”) sia la base stessa della comprensione profonda e che questo rimane il nostro obiettivo del quinquennio, raggiungibile per tutti anche se limitatamente ad alcune discipline o meglio aree disciplinari. Ora penso che, come nostra responsabilità formativa, non sia necessario che questo obiettivo sia raggiunto a 360 gradi. Ma deve essere qualcosa in più delle competenze singole, o se vogliamo una specie di macrocompetenza, che deve essere raggiunta. Questo può essere tradotto in “padronanza concettuale almeno in alcuni settori disciplinari”. In altre parole, così come le competenze implicano le conoscenze, così a sua volta la padronanza concettuale settoriale implica le competenze.
Detto ciò sulle finalità, veniamo a ciò che secondo le mie visioni attuali dovrebbe accadere prima, nel primo biennio e, suppongo, anche alle medie.
  1. L’IBL non è attuabile autonomamente dai ragazzi, ma solo in presenza del mediatore adulto esperto, come guida alla lettura e rilettura ripetuta della realtà, tenendo conto che a), diversamente da noi, che abbiamo già la padronanza dei concetti scientifici, l’aspetto linguistico costituisce la prima necessità e la priorità per i nostri allievi, b) la parola - significato non è insegnabile per trasmissione diretta, ma solo attraverso l’uso ripetuto in contesto di collaborazione con il maestro, strategia che Vygotskij chiama “imitazione” tenendo ben distinto questo termine dall’imitazione delle scimmie; c) non arriviamo a costruire la padronanza (uso cosciente e volontario, capacità autonoma di costruire una definizione adatta al contesto), ma a prepararla. In pratica il nostro compito è “suppletivo” di ciò che i ragazzi del biennio in maggioranza non possono ancora essere in grado di fare da soli: usare volontariamente il concetto in situazione. Essi possono ripetere per imitazione i modi di usarlo. Per questa ragione, essi non riusciranno a risolvere veri problemi da soli.
  2. Ciò nonostante l’imitazione collaborativa (una mediazione che già si rivolge alla futura evoluzione) deve essere fatta anche sulla risoluzione di problemi, specialmente del tipo che si basa sulla realtà sperimentale, per preparare sia la concettualizzazione vera successiva, sia l’autonomia nel problem solving. In questo modo facciamo due cose fondamentali: prepariamo lo “scaffolding” ai concetti scientifici e al tempo stesso costruiamo una base di concetti spontanei quotidiani, cioè la base di esperienza comune che è ugualmente necessaria sia per costruire la lingua madre, sia per costruire un sapere disciplinare. In altre parole dobbiamo permettere l’accumulo di esperienze e, per quanto riguarda la comprensione di queste, essere “pazienti ed imitabili”, perché ciò che essi sono in grado da fare oggi solo col nostro supporto, diventeranno capaci di farlo in poco tempo da soli. Non dobbiamo avere alcuna fretta su questo.
  3. Per quanto riguarda il ruolo dell’esperienza e dell’agire con le mani credo che a) l’idea che i ragazzi si costituiscono della nostra scienza sia legata positivamente a questo aspetto e, quindi, facciamo bene a sfruttare questo legame e a far uso del laboratorio; b) al tempo stesso non dobbiamo abusarne per una serie di ragioni, prima di tutte il ridotto tempo a disposizione, poi il fatto che il fine, il risultato di ogni attività pratica lascia un segno forte che a volte non solo oscura tutto ciò che è significativamente correlato all’attività nel suo insieme, ma è addirittura in conflitto con ciò che volevamo insegnare (vedi ad esempio la buretta: con i piccoli (1° anno) la soluzione satura si ottiene solo quando tutto il sale si è sciolto; con i grandi (2°-3° anno), la reazione è completa solo al viraggio); c) soprattutto il laboratorio deve essere il punto di partenza e non l’esperienza totalizzante in se stessa, per avere tanti ancoraggi e sviluppi successivi relativi al nostro compito principale che è quello di preparare individui che saranno in grado, almeno in alcuni campi, di usare autonomamente in modo differenziato, volontario e consapevole i significati e le parole associate. In poche parole dobbiamo fare poche esperienze significative che abbiano qualche aspetto investigativo, e poi lavorarci molto e poi molto sopra a tavolino.
  4. Aspetti affettivi e valutativi. Metto insieme queste due cose per evitare all’origine il malinteso: “facciamoli appassionare in qualunque modo e con qualunque trucco o seduzione, quindi la carica affettiva sarà da sé sufficiente a sviluppare qualunque livello di apprendimento e, in questa ottica, rimandiamo il problema di se e come valutare l’apprendimento effettivo”. Se siamo professionisti sappiamo due cose:
    a) che la passione per qualcosa è un prodotto o conseguenza della confidenza e familiarità con quella cosa e non una precondizione innata o una causa dell’acquisizione della confidenza con quella cosa. Infatti vediamo invariabilmente che quando i ragazzi cominciano a capirci-capire, a sentirsi “confidenti”, al tempo stesso diventano appassionati e disposti a cimentarsi anche in compiti leggermente più complessi cognitivamente. Il viceversa non è affatto vero. Partire dal presupposto che una passione pregressa di uno studente per i razzi possa essere connesso ad una sua propensione e garanzia di una “spinta aumentata” ad arrivare a qualcosa in più della confidenza per i razzi, cioè alla comprensione e alla sua “disponibilità ad assorbire”, magari “trasmissivamente” leggi e teorie fisiche e chimiche che stanno dietro al funzionamento e alla fabbricazione dei razzi, ipoteticamente collegabili a tutto il programma di chimica del triennio, è non solo una ingenuità, una pia illusione, ma anche qualcosa di molto grave e irresponsabile dal punto di vista professionale.
    b) A ciò l’aspetto valutativo è strettamente connesso. La valutazione autentica concerne ogni fase del passaggio dall’esperienza alla confidenza, allo sviluppo del dizionario, alla capacità di imitare e poi della comprensione e infine allo sviluppo di una competenza specifica. Questo è indispensabile perché come professionisti dobbiamo essere consapevoli del processo e deve esserci una presa su ciò che funziona e ciò che non funziona in ciascuna delle varie fasi. La difficoltà semmai è nell’abituarsi a osservare i dettagli nell’ottica di un piano a lungo termine, nel fare questo senza inibire lo sviluppo della confidenza che precede e permette un livello almeno potenziale di “passione” (le due cose non sono incompatibili, anche se spesso lo diventano per un uso sbagliato del significato che si dà alle valutazioni o per un eccessivo valore dato al learning object come “oggetto di passione”). Qui si tratta di restituire alla valutazione il ruolo di verità condivisa e di forza positiva. Ho una verifica: un problema che era a rischio è stato fatto bene grazie al fatto che l’idea di imitazione ha funzionato e pare aver dato dei frutti. Altri quesiti sono andati male in essi si richiedeva il possesso di più concetti autonomi? Forse; ma se nel frattempo che io ci rifletto sopra, dovessi dare a questa verifica il senso tradizionale di voto nel suo insieme, stempererei quella positività del problema ben fatto (sulla concentrazione e diluizione di una soluzione) nella negatività del punteggio complessivo. Sarebbe come dire: questo lo avete saputo fare “solo” grazie ai miei aiuti e alle mie “concessioni” (ho rimandato due volte il compito, e grazie alle tre ore di lezione guadagnate, la mia collaborazione è potuta continuare anche quando avete provato a casa a rifarlo da soli nello studio) ma rimanete sostanzialmente dei somari perché molti concetti non li avete per niente acquisiti ed è ciò che il voto sta a testimoniare. I ragazzi si prenderebbero il 3 o il 4 senza problemi, come spesso accaduto in passato. Ma in realtà commetterei un errore. Un errore già commesso ripetutamente. Nella valutazione non ha alcun senso “sommare”. Tute le nostre valutazioni devono essere esclusivamente formative, tranne quelle delle competenze, sommative, la cui provenienza dovrebbe essere esterna al sistema. Pe me ha senso dire: “vediamo perché questa cosa ha funzionato: non ci speravo, non perché voi non foste all’altezza, ma perché è un compito difficile e io non mi sento all’altezza di avere sempre la soluzione in mano per aiutarvi a capire meglio qualcosa. Facciamo tesoro del fatto che quel quesito sia andato bene. Non avete copiato nonostante ci fosse stata in gioco una insufficienza, avete fatto bene perché c’è qualcosa, nelle attività svolte in questi giorni, che vi ha aiutato a diventare capaci, e adesso dobbiamo capire bene, io per primo, che cosa è stato”. Con lo stesso spirito andiamo ad analizzare, dopo, le risposte errate degli altri quesiti. Questo significa creare una comunità di apprendimento che lavora in modo concorde e sinergico verso dei target comuni, piuttosto che una comunità schizofrenica come quella che vuol farci fare chi si riempie la bocca di “meritocrazie” e voti.
Certo, è molto più facile creare questo tipo di situazioni, motivazioni e contesto: 1. La disciplina è fondamentale e adotto delle tattiche per ottenere sempre una classe perfettamente attenta per 50 minuti; 2. Dire: “Se voi state attenti alle spiegazioni non avrete nessun problema con me (con questa materia)”; 3. Ottenere che 1 + 2 sia uguale a buoni voti e quindi buon feedback basato sui numeri anziché sulle prove di competenza effettive, esterne al rapporto classe docente. È evidente che insegnanti di questo tipo, nelle classi dove non vola una mosca, dove non ci sono problemi di processi e strategie, dove i voti volano dai rari 5 al 6 e al top del 7, avranno qualche difficoltà con i test delle competenze e con qualunque tipo di valutazione esterna.


2° Contenuto: Quali contenuti, metodologie e temi relativi alle materie scientifiche si dovrebbero trattare nelle lezioni?
Contenuti: è molto più importante la continuità che il sillabo. Il sillabo è ciò che quella comunità di apprendimento costruisce e non qualcosa di predefinito. Accanto a ciò c’è un numero di strumenti di base (concetti e abilità), propri della disciplina che in un modo o nell’altro devono essere acquisiti, per lo meno a livello di confidenza. Sarebbe importante accordarsi su quali, perché poi i test delle competenze trasversali e disciplinari delle classi parallele dovrebbero essere mirati esclusivamente su questa base comune.
Per esempio, in prima, accanto ai concetti imprescindibili di sostanza, trasformazione chimica, molecola, atomo, elemento e formula, trovo importante tutto ciò che permette di lavorare a più riprese sui rapporti e calcoli proporzionali: errore relativo, densità, concentrazione delle soluzioni, rapporto stechiometrico atomico/molecolare e in massa. Se a ciò aggiungiamo qualche nozione ultraelementare sulla struttura dell’atomo e semplici tecniche di pesata e di separazione (per poter scoprire gli aspetti quantitativi delle trasformazioni chimiche e utili a definire i campi linguistici in cui usare i termini sostanza, miscuglio, soluzione, reagire, combinare, mescolare, unire, e non a imparare queste tecniche in sé come dei piccoli periti chimici), abbiamo fatto il programma di prima. Quello di seconda non aggiungerà chissà che.
Di metodologia ho detto ciò che contava nella precedente risposta. L’IBL è importante, ma non bisogna illudersi che l’IBL sia intrinsecamente motivante. Non potrà esserlo finché non sarà realmente autonomo. Al biennio se è autonomo vuol dire che non richiede padronanza concettuale, quindi è inutile. Se è utile dobbiamo aspettare al triennio prima di parlare di autonomia. La passione verso l’oggetto di indagine dell’IBL al biennio è un fatto molto relativo e dipendente al 90% da cosa fa l’insegnante per mediare gli aspetti di inquiry e quanto sia capace di tradurre ciò che routine non è in oggetto di interesse nonostante la scarsa padronanza concettuale. Anche nei casi più felici non credo si potrà parlare di “innamoramento”. Quando la classe si appassiona alla tecnica di titolazione, e ciò accade poiché arriva a una discreta padronanza operativa, io sono molto preoccupato, e non felice, per La Chimica. E ripenso alle scimmie di Köhler citate da Vygotskij. Questa mia preoccupazione si stempera solo nel momento che vedo, in seconda E, che alcuni ragazzi non vengono a chiedere né a me ne all’ITP come devono fare i calcoli, e arrancano bene in quella che costituisce la vera finalità dell’esperienza: migliorare il campo di esperienza di uso dei concetti quantitativi. Significa che prima, nonostante le batoste delle verifiche e del test delle competenze, ho creato ed è rimasto qualcosa di ciò su cui abbiamo lavorato per mesi. I frutti positivi sono quelli del lavoro svolto in classe, non quelli del ripetere la pratica addestrativa. C’è ancora, però una minoranza di ragazzi che non sanno ugualmente muoversi in nessun modo, non riescono ad imitare, non hanno nulla da imitare, e non calcolano, e neppure chiedono come fare. Quasi sempre sono segnati da un gap, da un differenziale che si trascinano dietro da lungo tempo, fino a diventare una pregiudiziale. Uno svantaggio che si cristallizza sempre di più e che se non facciamo nulla per prevenirlo e ripristinarlo cognitivamente, è destinato a diventare un’invalidità permanente. Non credo che risolverei qualcosa illudendomi io stesso o dando a questi l’illusione che titolare con precisione sia un aspetto centrale della chimica del biennio.
Un altro accenno posso farlo sul cooperative learning. Ci sono delle scuole di pensiero che accomunano l’intervento mediativo dei pari a quello dell’insegnante esperto e vedono nella metodologia cooperative learning il prodotto unico possibile della teoria socioculturale. Né Vygotskij né Feuerstein, collegati in modo tanto intimo quanto misterioso, hanno mai detto qualcosa del genere. Il dialogo, l’ascoltarsi reciproco o anche autonomo, il formulare tutte le proposizioni possibili in un contesto fortemente comunicativo sono aspetti rilevanti e imprescindibili della teoria socioculturale. Ma nel movimento verso la presa di coscienza, il lavoro del mediatore adulto che consiste nella funzione suppletiva di cui ho già parlato all’inizio, è solo in minima parte sostituibile da ciò che può accadere nel gruppo cooperativo eterogeneo (con studenti relativamente “meno inesperti”). Specialmente al biennio il ragazzo “relativamente più esperto” non è affatto esperto dal punto di vista metacognitivo. È tale e quale agli altri, quindi incapace di alcuna reale mediazione. Rimane comunque importante, per una componente variabile, ma non totalizzante del tempo classe, la discussione nel gruppo cooperativo finalizzata a generare un prodotto verbalizzato e cosciente, un apporto diversificato dei singoli gruppi alla riflessione collettiva finale, dove però i singoli ritornino ad essere singoli individui, con il loro rapporto individuale con l’insegnante, in una mediazione diretta dal docente che rimane il RUI: responsabile ultimo indispensabile. In questo senso “solo”, per me è importante il CL. È evidente che, rispetto alla discussione sempre condotta frontalmente con tanti singoli, l’insegnante potrà avere una maggior ricchezza, fondatezza e una maggior condivisione e reciprocità, nei punti di partenza utili, facendo emergere questi “primi passi”, ma anche misconcetti, nei gruppi. Basta poi avere il tempo di gestire, restituire feedback individuali, su ciò che è stato prodotto dai gruppi in tempi brevi. Da questo punto di vista la nostra scelta di mantenere le ore di 53 minuti, per favorire chi fa lezioni frontali e metodologie trasmissive (per cui la classe si annoierebbe comprensibilmente in lezioni frontali di maggior durata), è una scelta pessima. In Finlandia il modulo orario minimo è di 75 minuti e ci sono sempre 15 minuti di intervallo tra l’uno e l’altro. Ma lì non si fanno lezioni dalla cattedra. Siamo noi che vogliamo la parcellizzazione, la frammentazione e il disorientamento. Poi, sono inutili gli ampi sorrisi, le accoglienze e i corsi di recupero come unica alternativa possibile alle sufficienze regalate, in primo.
I temi sono quelli che emergono dalla trattazione dei contenuti: cosa sono le trasformazioni chimiche, come è fatta la materia. Non basta? Credo siano più che sufficienti. Forse non sono intrinsecamente appassionanti, ma il nostro dovere ha a che fare con questo compito ben preciso che non è per niente facile anche se i concetti sono pochi. Può essere importante, una volta conquistata questa confidenza, usarla per estenderla a qualcosa di appassionante e accattivante che c’è dietro le trasformazioni chimiche e le domande su come è fatta la materia. Ma se i ragazzi non sono preparati cognitivamente, l’applicazione accattivante (e questa è una mia opinione) è una cosa effimera e deontologicamente sbagliata.


3° Abilità: Quali abilità o competenze e attitudini sono da sviluppare e migliorare per istruire gli studenti nelle materie scientifiche?
Occorre dividere le abilità o competenze in due categorie: quelle di base e quelle specifiche disciplinari.
Tra quelle di base metterei molte abilità linguistiche, come l’uso dei connettivi logici, es. il “perché”, il “perciò”, il se… allora… ecc. per costruire le basi del pensiero causativo, dei ragionamenti. Se non prepariamo l’uso di queste parole è impensabile richiedere una spiegazione di un qualcosa o progettare un piano di lavoro per la risoluzione di un problema due cose senza le quali non parliamo di scienze ma di nozionismo. Sempre tra le abilità di base, o trasversali, metterei quelle matematiche: il ragionamento proporzionale; riconoscere l’operazione singola da usare in problemi basati su rapporti di frazioni pure (multipli e sottomultipli) anche in relazione ai decimali, alla valutazione degli ordini di grandezza, i rapporti di distribuzione e contenenza tra variabili discrete e continue: saper leggere mg/L come “numero di milligrammi per ogni Litro”. Il concetto di variabile, per cui nella frase “in questa scuola per ogni studentessa ci sono 4 studenti maschi” non sia tradotto 1F = 4M, dove i simboli “F”, “=”, “M”, sono visti come sostituti delle parole “femmina”, “ci sono”, “maschi”.
È evidente che all’acquisizione di queste competenze dovrebbero lavorare insieme tutti i docenti del biennio.
Per quanto riguarda le competenze specifiche disciplinari non dovrebbero esserci problemi a includere il tutte le competenze relative al passaggio dal livello simbolico a quello sostanziale-fenomenologico e dal simbolico al particellare e viceversa. Per esempio, quante molecole, quanti atomi, quante diverse sostanze, quanti elementi sono compresi o indicati nella scrittura 3H2O + 2SO3.
Insomma, abbiamo sempre a che fare col linguaggio: linguaggio relativo al testo descrittivo – esplicativo; l’uso di segni matematici, entrambi in prestito all’ambito linguistico specifico della chimica.
In effetti imparare una disciplina non è molto diverso dall’imparare la lingua madre. In entrambi i percorsi ci sono dei concetti spontanei che iniziano a viaggiare verso l’alto fino a convergere nelle strutture concettuali preparate dall’istruzione. Ne l’una né l’altra si possono dire concluse in due soli anni. In entrambi i casi le regole grammaticali non bastano: occorrono l’esperienza concreta e l’esperienza mediata, consistente nella possibilità di cimentarsi, imitare e mettersi in gioco nella nuova lingua.

giovedì 12 gennaio 2012

Istruzione Made in Italy?

Miei commenti di risposta all'interessante articolo di Claudia Fanti su Educazione&Scuola, ripubblicato sul blog della Garamond "Per un Made in Italy dell'Istruzione" dove si trova solo il primo dei due commenti.

Primo commento 3 gennaio 2012

Approvo e apprezzo questo documento che più che una proposta potrebbe diventare un manifesto fondativo su cui lavorare.

In particolare sono felice di leggere finalmente una condanna dell'applicazione acritica della meritocrazia anche alla relazione educativa. Tra l'altro esistono esperienze solide di altri sistemi educativi che dimostrano quanto la "ovvietà" della meritocrazia, applicata non solo alla relazione educativa, ma anche al rapporto del docente con l'istituzione, dia risultati mediocri (per es. vedere questo articolo.

E la maestra Fanti rende in modo molto chiaro e convincente ciò che potrebbe esserci di meglio e alternativo sia al buonismo sia al suo opposto simmetrico: la meritocrazia.

Un altro aspetto importante in cui mi riconosco pienamente è la relativizzazione dell'altro idolo, la tecnologia.

Ma è la parte dialogica, collaborativa, della scoperta, dei tempi lunghi per la costruzione di conoscenze autonome, che mi sento di difendere con maggior forza. Occorre difenderla dall'unica obiezione giusta che si potrebbe fare a questa proposta, cioè che la sottrazione dei voti dal sistema non debba coincidere con un vuoto valutativo e che i voti non siano sostituiti da illusioni sull'efficacia dell'applicazione del nuovo modello di relazione educativa ai singoli casi e alle singole azioni didattiche.

Il sistema-minaccia dei voti è ovviamente un'illusione ancora peggiore, che offre il salvacondotto di aver fatto il proprio dovere verificando oggi ciò che si è trasmesso ieri e che gli studenti hanno (si auspica) studiato ieri pomeriggio e dimenticheranno domani. È un autoinganno in cui si vuol credere perché dà sicurezza e perché si constata, sui lunghi tempi, che molti bravi studenti compiono comunque progressi. A questo punto non è difficile illudersi ulteriormente inventando una correlazione tra studio finalizzato anche al voto e successo scolastico. O forse esisterà pure: non sarà il successo cognitivo e scolastico, forse, solo il frutto dello sviluppo generale dell'individuo e delle premesse e delle condizioni ambientali, familiari, e sociali favorevoli. Comunque tale correlazione, tale valore aggiunto fornito dall'attuale scuola riguarda una frazione di studenti troppo esigua, e non ci autorizza a disconoscere la stratosferica percentuale dei fallimenti.

Ma non è fossilizzandoci su cosa è illusorio e va tolto che riusciamo a far sì che tante certezze che bloccano la scuola siano rimesse in discussione.

Un aspetto rilevante credo sia capire che mentre alla scuola dell'infanzia e primaria la valutazione sia un tutt'uno con l'attività e il buon funzionamento dell'azione educativa sia facilmente visibile, monitorabile, sotto tutti gli aspetti, quindi alla bisogna immediatamente correggibile, alla secondaria abbiamo a che fare con la costruzione di competenze in sistemi concettuali astratti, simbolici, un processo che non è direttamente monitorabile, valutabile e autovalutabile. Dobbiamo introdurre delle strategie, come il problem solving autentico in cui oltre alla consapevolezza dell'aver passato del tempo a studiare ci si scopre di essere in grado di pensare, creare, di possedere conoscenze astratte "proprie" perché le si utilizzano in modo contestualizzato e non "pre-addestrato". In questo senso il problem solving può costituire un sistema analogo a quello della primaria, dove insegnamento, apprendimento e valutazione formano un tutt'uno, con l'aggiunta della maggior consapevolezza dell'autovalutazione.

Ma la difficoltà è che, come ogni attività di problem solving autentico comporta, ci sono successi e ci sono fallimenti.

Allora la nuova scuola si deve distinguere dalla vecchia per come risponde al piccolo fallimento (per evitare quello grande a cui assistiamo oggi continuamente) e per la sua capacità di riconoscerlo, che comporta anche delle verifiche autentiche di medio e lungo periodo.

Infatti quando si hanno degli obiettivi formativi su sistemi concettuali astratti e simbolici (e non credo si abbia intenzione di rinunciarvi) l'acquisizione di padronanza e la presa di coscienza diventano molto più difficili da riconoscere e valutare, e il rischio della pura illusione della modificazione cognitiva è maggiore sia nell'alunno sia nel docente.

Il clima sociale e collaborativo contribuisce a creare l'illusione che "tra un mese sarò/à in grado di avvalermi/si di questa competenza di nuovo e da solo, perché ho/ha colto ciò che era essenziale".

Oltre ad essere riferibili a sistemi di concettualizzazione scientifica e astratta, queste competenze non sempre accompagnano lo studente per tutta la vita cognitiva in modo olistico, come avviene maggiormente nell'educazione primaria.

Non credo si possa fare a meno, sopra a un certo livello scolare, delle competenze disciplinari; per cui un certo grado di "settorializzazione cognitiva" credo sia inevitabile, ma anche tollerabile.

Con ciò non intendo dimostrare l'inevitabilità dei voti indipendenti per materia, ma l'importanza delle verifiche autentiche delle competenze sul medio e lungo termine (quelle che oggi si tende a evitare perché mettono a nudo la vanità del nostro operato). Se il nuovo sistema funzionerà lo si vedrà dal fatto che gli esiti delle verifiche sul medio termine saranno positivi almeno al 75% e quelle a lungo termine nella quasi totalità. Mantenere le verifiche non significa mantenere il voto (termine che uso per conglobare la serie di misconcetti e percezioni errate che conosciamo bene).

Ciò che deve cambiare è l'uso che facciamo dell'informazione valutativa.

A posto del voto sulla pagella abbiamo bisogno di un sistema di feedback rapido ed efficace per ricuperare quel 25% di esiti negativi con idonee prese di coscienza reciproche e interventi modificanti efficaci ed effettivi.

Significa restituire alla valutazione, al "grado", il senso originario di "corresponsabilità" dal punto di vista professionale e di stimolo positivo per lo studente.

Gli errori sono la fonte principale di apprendimento, se accompagnati da opportuna metacognizione, e tutti nella scuola, docenti e studenti, devono ben sapere che la meta della padronanza richiede a) errori e b) un diverso tipo e numero di errori e riflessioni da parte di individui diversi.

Il seguente commento fa riferimento a due altri commenti privi di inutili ragionamenti:
  1. michele Says:

    E’ proprio questo il pedagogismo che ha distrutto la scuola italiana.

  2. stefano Says:

    Sono d’accordo con te Michele.

Secondo commento 5 gennaio 2012 (non pubblicato)

Potrebbe essere che Michele ravvisi nei tentativi di attuazione di pratiche del "pedagogismo" (termine che si connota negativamente in modo pregiudiziale, così come il termine "esterofilo" usato dalla stessa Fanti) una forte componente di illusorietà degli apprendimenti e delle competenze effettivamente accertate ed acquisite rispetto a quelle attese e a quelle effettivamente costruite con le metodologie tradizionali che sembrano fornire più garanzie.

Sebbene di "pedagogismo" ce ne sia più di uno, complicando con ciò la disamina accurata e non pregiudiziale dell'efficacia reale di tutto ciò che si potrebbe configurare come "tentativi di modificare gli schemi", rimane una valutazione generica secondo me condivisibile, che la didattica innovativa produce entusiasmo, ma che l'entusiasmo spesso non si traduce da sé in valore aggiunto di apprendimento e competenza reale sul lungo periodo, ma appunto, in illusioni e delusioni successive. Questo è reale e documentabile.

E' evidente che non occorrono tanto buone intenzioni ed entusiasmo per attuare sperimentazioni su larga scala e di lungo periodo, al punto da diventare commensurabili con esperienze di altri paesi (cosa non negativa in sé), ma piuttosto teorie ben solide sull'apprendimento e tanta professionalità e disponibilità alla ricerca più che all'entusiasmo delle certezze facili.

Quando ho parlato di gestione dei fallimenti non mi riferivo solo a quelli dell'alunno. Ho parlato di corresponsabilità professionale. Dietro a questo termine c'è il concetto di ricerca (anche ricerca e azione), dato che nessuno ha le soluzioni definitive in mano (e forse queste non esistono in principio).

Ma non possiamo dire neppure che ciò che c'era o ci sarebbe stato prima del pedagogismo o dei pedagogismi, qualunque cosa essi siano questi, era di ottima qualità e soprattutto potrebbe darci oggi la soluzione dei mali.

E' certo che dei cambiamenti sono necessari. Se ogni sforzo non dico di attuarli, ma solo di trovare una direzione per il cambio viene fatto rientrare automaticamente nei "pedagogismi" allora è inutile stare qui a perdere tempo.

A costo di ripetermi, prima di attuare una qualunque innovazione dobbiamo conoscere bene e condividere una teoria dell'apprendimento per cui questa innovazione dovrebbe essere efficace. Oggi abbiamo delle ottime teorie dell'apprendimento, ma dobbiamo averci lavorato sopra e non assumerle per buone solo perché prodotte da cervelloni.

Ciò si deve riconoscere dai nostri tentativi di attuazione delle pratiche, che devono sfociare in verifiche autentiche e rigorose che la padronanza dei concetti si sia effettivamente costruita o meno. C'è meno bisogno di questo nella primaria, per quanto ho già detto, quindi è sbagliato pensare alla didattica dialogica e adisciplinare come di un metodo unico che va bene per individui dai 3 ai 20 anni. Ma è importante che gli esiti negativi delle verifiche autentiche ci siano e siano i veri punti di forza, quindi costituiscano gli elementi positivi, cardine, della nostra ricerca-azione.

Mi viene in mente un esempio importante di "pedagogismo" rispettabile, certamente più del nulla di chi critica solamente e nella convinzione che la soluzione sia nella restaurazione di ciò che funzionava "benissimo".

Per oltre vent'anni Dorothy Gabel, insegnante e ricercatrice americana di didattica della chimica, ha propugnato un "approccio particellare" alla comprensione dei concetti chimici, del quale ero profondamente convinto attuatore e sostenitore. Ho diffuso usanze di simulare concretamente le combinazioni chimiche con mucchi di viti e dadi e altre cose analoghe. Ma col tempo mi sono anche convinto che tutto ciò non funzionava: la manipolazione produceva comprensione delle combinazioni concretamente manipolate, ma non di quelle che costituivano il vero obiettivo. I test di comprensione continuavano a fornire risultati negativi o anche peggiori di prima. All'inizio l'idea di dover abbandonare le mie certezze era quasi tremenda, e cercai altre soluzioni. Poi invece ho studiato qualche teoria psicologica per mio conto e contemporaneamente ho abbandonato l'idea, ancora prima di capire 'perché' non doveva funzionare. Oggi che, dopo altri dieci anni, vedo ancora nei laboratori dei bicchieri pieni di viti e dadi usati da miei colleghi caduti nella stessa trappola per pura imitazione, senza mai aver avuto uno scambio culturale, senza che io abbia mai fatto nulla per convincerli prima o per dissuaderli dopo, mi sono domandato che fine avesse fatto Dorothy Gabel. Un mio amico universitario che conosce bene e di persona i diversi interpreti della ricerca in didattica della chimica mi ha detto: "ha chiuso tutto, ha capito che l'approccio non funzionava". Ah bene, ho risposto, rispetto il fatto che ci abbia impiegato 20 anni, ma non poteva fare allora un articolo a caratteri cubitali e farcelo sapere?

Esistono dunque i pedagogismi che non funzionano, ma esistono pure le spiegazioni e le capacità scientifiche di costruire delle pedagogie che funzionano.

Ecco cosa intendo con l'importanza di riconoscere subito i piccoli fallimenti, essere ricercatori seri, non campare sugli entusiasmi, l'importanza di lavorare in equipe con solide teorie di sfondo, se si vogliono evitare giustificate accuse di "pedagogismo".

martedì 13 settembre 2011

Non più il libro di testo, ma molti libri veri

Commento a due articoli di Paola Limone sulla rivista Bricks, riguardanti l'iniziativa Bookinprogress e Wikibooks.

Il mio punto riguarda il testo scolastico: la sua utilità, la sua trasformazione. Se andiamo ad analizarne le funzioni, si possono riconoscere la funzione informativa-documentativa, la funzione esplicativa, la funzione di riferimento. In poche parole: la parte "bignamica", poi la parte che mi spiega e mi "parla" in modo da aiutarmi a capire, e infine la possibilità di essere trasformato in un riferimento in cui "ritrovare le cose" a distanza di tempo, che è anche il motivo per cui non vorrò mai rivendermi quel libro.
Nell'epoca in cui Internet non c'era e in cui nella scuola secondaria diverse discipline venivano identificate con i contenuti dei rispettivi libri di testo, le tre funzioni erano in essi compresenti. La comprensione poteva essere considerata un processo al limite in cui sia gli insegnanti che gli alunni potevano tendere, per quantità e qualità di conoscenze, all'ideale rappresentato dal testo adottato (il cui autore era, o comunque era considerato, un cultore-padreterno della disciplina). Che un testo sostanzialmente immutato da 30 o più anni potesse fornire una visione cristallizzata di una disciplina altrimenti dinamica, non destava alcuna preoccupazione: le conoscenze potevano anche evolvere e le discipline trasformarsi, tanto a scuola nessuno pretendeva di insegnare le discipline, ma bensì le materie scolastiche che erano, per l'appunto, un tutt'uno con la tradizione immutabile di tali tomi.

Ora, qualcosina è cambiato, anche se per la maggior parte dei dicenti (era un errore di digitazione, ma posso benissimo lasciarlo) pare che non sia accaduto nulla. Le tre funzioni, assieme alla mediazione dell'insegnante, continuano ad essere importanti anche oggi, certamente; ma non hanno più la necessità di dover coesistere in una stessa opera, sia essa cartacea, digitale o mista.
La funzione informativa - documentativa si può benissimo realizzarla liberamente e creativamente usando un noto "contenitore" autoaggiornato e gratuito, senza considerare la crescente disponibilità di opere specializzate non scolastiche in formato digitale (risparmiamo già con ciò molti alberi). I "bignami" dunque non servono più a nulla, se non a riportarci verso vecchi riferimenti culturali che non esistono più in natura.
Le funzioni esplicativa e di auto-riferimento pedagogico sono quelle che un alunno diligente dovrebbe trovare nel proprio testo, se quel testo corrispondesse alle scelte curriculari ed epistemologiche del docente e se tali scelte fossero rispettate anche nelle lezioni in classe. Solo così, in pratica, la funzione esplicativa del testo potrebbe permettere all'alunno di avere risposte a domande coerenti con quelle nate dal contesto educativo. Solo così l'alunno imparerebbe a costruirsi i riferimenti (punti o paragrafi notevoli, soggettivamente, che rendono quel libro un insostituibile riferimento alla mia preparazione) sui quali tornare ciclicamente per costruire la propria struttura narrativa-disciplinare, in corrispondenza tra testo ed esperienza in classe.

Ora, a meno di non voler congelare la didattica, o "curvarla" su un dato testo, la grande flessibilità richiesta dalla differenziazione e dalla effettiva centralità e variabilità dei bisogni cognitivi degli studenti, impediscono la scelta, o anche la semplice concezione di un testo sufficientemente adeguato a tutte e tre le funzioni. Se ci proviamo, a sceglierlo, ad usarlo, con le difficoltà di comprensione della lettura che gli studenti oggi hanno, ci ritroviamo presto con spiegazioni non richieste, esplicazioni non comprensibili e non comprese, o comprese solo in senso letterale, assenza di punti di riferimento e, al massimo, qualche tabella o schema da cui prendere dati per fare qualche esercizio. Stiamo sciupando intere foreste.

L'alternativa che resta è in effetti quella del "fai da te intelligente", come fanno o vorrebbero fare in bookinprogress: la funzione esplicativa si costruisce sulla base di ciò che funziona come esplicazione in classe, ma in classe non c'è il curriculo formale. C'è quello informale. E quello informale della classe A non è uguale a quello informale della classe B. L'importante è che il dovente (altro errore che può restare) digitalizzi, cioè "librifichi" il contenuto esplicativo efficace e che gli studianti (questo typo è voluto) costruiscano un proprio portfolio ove potersi orientare tra riferimenti autonomamente posti, su cui praticare la ricorsività, l'adeguamento, e perciò acquisire, su tale portfolio, una familiarità caratteristica della funzione di auto-riferimento analoga a quella che il "vecchio" libro di testo personalizzato dallo studio rendeva possibile.

E' evidente che il "bando dei libri di testo", e la vicarizzazione delle loro funzioni tradizionali, possono funzionare solo se il docente ha una grande esperienza e si documenta, lui, su fonti disciplinari originali e aggiornate, e non "scolasticizzate" dal mercato mediocrizzante e fossilizzante dell'editoria scolastica; solo se il nostro docente si costruisce nel tempo le proprie spiegazioni e le testa-perfeziona a scuola, avendo a che fare con studenti reali e moderni che ritengono (suppongo a ragione) di poter negoziare il contraddittorio su tutto e su chiunque, e non di essere asserviti a dettami di qualunque testo o docente emanatore di verità assoluta. A questo punto il docente diventa tanto più autorevole e più capace di riportare gli studenti al rispetto del lavoro altrui e delle fonti originali, quanto più egli è umile e perseverante nei confronti del sapere e quanto più si dimostra al tempo stesso esigente, fallace e capace di rimettere in discussione, umanamente e in modo visibile agli studenti, le sue conoscenze. Si tratta di passare dal ruolo di "trasmettitore" di sapere a quello di ricercatore, "mediatore", esemplificatore del processo di costruzione del sapere. Presentandosi con una dispensa, anche con la propria dispensa, il contenuto esplicativo è invece prestabilito e non costruito in classe. Così si massimizza la trasmissione del sapere, anziché ridurla. Poco conta che nella dispensa si siano infilati contributi di revisione di studenti di classi precedenti o "altre".

Se in questo contesto si vuol provare a sgravare e anche migliorare con nuove idee il faticoso compito di mediazione e scrittura-documentazione del docente ricercatore, l'unica soluzione mi pare consistere nell'allargamento delle comunità di apprendimento, con la costituzione di unità di collaborazione più ampie che lavorino con lo stesso materiale comune costruito in tempo reale, così come avverrebbe nel lavoro del singolo docente ma limitatamente alla singola classe. I materiali elaborati in questi contesti, infatti, non hanno alcun valore al di fuori della comunità di apprendimento che li elabora. Non ha senso impacchettare le dispense che rispecchiano un'esperienza educativa e darle a un altro gruppo. In queste comunità non circolerebbero né dispense né testi scolastici, ma molti brani tratti da testi autentici, spiegazioni costruite dal docente e validate - aggiustate nelle dialettiche di classe, strutture portatili di significati e riferimenti costruiti dai singoli alunni e almeno in parte condivise (portfolio). Gli obiettivi sono due, ugualmente importanti: impostare una didattica costruttivista, far sì che a scuola si ricominci a parlare delle discipline e del sapere autentico e non della sua contraffazione.

Wikibooks: così a occhio e croce direi che sono una buona cosa. Vedo però una difficoltà nel pensare alla trasformazione dei wikibooks in libri di testo in senso classico, cioè statico. Un problema di fattibilità; un tipo di organizzazione del libro ne esclude altre. Nell'escludere un'organizzazione si escludono contributi validi. Perché farlo? perché non ridisegnare piuttosto l'obiettivo in "wikischolars"? Non preoccuparsi tanto della creazione del libro di testo scaricabile o fruibile online, con le sue caratteristiche di completezza, coerenza stilistica e strutturale ecc. ecc. necessarie per entrare nel mercato. Ma raccogliendo, catalogando e validando col metodo tipico del wiki, soluzioni esplicative sulle quali esperti della disciplina e del suo insegnamento potrebbero interagire.
Andando a leggere gli esempi, tutti incompiuti, ci rendiamo conto che i wikibooks sono invece appesantiti dalla funzione informativa-documentativa (come autore conosco bene la preoccupazione delle parole che saltano fuori a un certo punto e bisogna aver cura di andarle a sistemare, spesso letteralmente infilare, nei "capitoli precedenti" che così rischiano di diventare sempre più infarciti di nozioni) che è utile solo nell'improbabile eventualità che un docente X adotti quel wikitomo per tutta la programmazione dall'inizio alla fine dell'anno scolastico.

giovedì 25 agosto 2011

CLIL e comprensione: non è la lingua che fa la differenza

Riporto un mio commento ad un post su una lezione CLIL:
La mia critica è ovviamente rivolta alla lezione "esemplare" tratta da YourTeacher.com e non al prof. di matematica e compagno di corso Giulio, che l'ha scelta per mostrare come sia possibile fare un buon lavoro di CLIL, disciplinare e linguistico, anche sfruttando unicamente le competenze linguistiche dei ragazzi.

Caro Giulio. C'era un punto critico di questa presentazione che mi era parso evidente anche la prima volta che ci presentasti il video.
Credo (o spero) che chiunque insegni la matematica della retta, a differenza di quel video, faccia diverse altre cose:
1. mostri con esempi come cambia il rapporto rise/run con rette a diversa pendenza e soprattutto
2. RICAVI la forma Y = mx + q DOPO aver definito per via grafica i due parametri m e q come da video. (al limite partendo da quella retta particolare e poi provando se la stessa forma funziona anche per altre rette, piuttosto che lavorando in termini simbolici e generali, più complicati).
Qui invece mi dà l'impressione che si tratti del solito tipo di insegnamento in cui l'alunno non sia (non debba essere) un generatore di domande, del tipo: "come faceva la teacher a sapere da prima che 1/2 doveva corrispondere al parametro m della retta?"; oppure: "Come fa a essere sicura che per tutti i punti il calcolo 1/2x + 3 mi dà sempre il corretto valore y e, se la magia è confermata da alcuni test, da dove è uscita?". Oppure ancora: "esistono altre forme di retta oltre alla slope-intercept?" (domanda insita nel titolo dell'argomento), e poi: "La retta è sempre la stessa anche in forme diverse?" o "Come passo da una forma all'altra di rappresentazione della stessa retta?".
Queste sono domande-esigenze che gli "studenti-comprenditivi" tenderebbero a fare-avere, o perlomeno intuire, che diventerebbero domande ben coscienti e presenti in una scuola che puntasse alla comprensione. Questo c'entra molto con il CLIL: secondo me non possiamo rinunciare alla didattica della comprensione, ben diversa dalla didattica dell'"accettazione" (non facciamo gli gnorri!), solo per la difficoltà della lingua. Il momento della riflessione metacognitiva è fondamentale e se serve si può farlo anche in italiano. Per esempio, la lezione vista NON sarebbe affatto più difficile dal punto di vista linguistico se, invece di partire dall'equazione della retta già data, si mostrasse visualmente con altri due esempi identici a quello fatto, che si ottiene sempre slope = 1/2 allungando il tratto "run" verso sinistra fino ad arrivare al valore x al punto q,0, per cui sarebbe evidente (costruito nella mente e non ricavato già fatto dalla teacher) che per tutti i punti il pezzo di ordinata da sommare a q è mx. Insomma non è la lingua che fa la differenza, ma la nostra concezione dell'insegnamento-apprendimento. Potemmo anche lasciare la lezione tal quale e riservare tempo alle domande (spazio metacognitivo + ricerca di soluzioni e spiegazioni): alla fine il risultato sarebbe simile (ma -in questo caso - più time demanding). Si avrebbe anche il risultato che i ragazzi capirebbero che non è importante la fonte della conoscenza, ma ciò che essi stessi, la comunità di apprendimento, è in grado di costruire da/su di essa.
Molti colleghi dicono che i ragazzi non sono interessati e non si attivano affatto alla comprensione, e ciò giustifica le loro scelte didattiche "accettative" che andrebbero "al sodo" (traduz. "a ciò che c'è da saper ripetere o ri-fare") e non si perderebbero in "inutili e controproducenti problematizzazioni". Io invece sostengo, al contrario, che è l'applicazione diffusa di questa convinzione la causa stessa della "docilità passiva"¹ (sostanziale istupidimento) degli studenti, e non viceversa. Cioè è la scuola che spegne in qualche modo (fortunatamente spesso solo all'interno delle sue pareti) l'esigenza di comprensione che è naturale nell'uomo.

¹ Mi piace il termine "docilità passiva", degno sostituto di "accettatività". L'ho tratto dall'introduzione di Rinaldo Pitoni (Traduttore e curatore per la Società Tipografico-editrice Nazionale nel 1911) all'opera di Edward Thorpe "History of Chemistry" del 1909 (scaricabile gratis da liberlibri).

mercoledì 13 luglio 2011

Professore: quando andiamo in laboratorio?

Sottotitolo: mezzi e fini

Risposta al post "Professore, quando andiamo in laboratorio?", su Educazione 2.0

è una delle domande che odio di più. Come dire: "invece a star qui a sorbirci un compito di apprendimento al quale è interessato solo il prof, perché non accendiamo la televisione? Poi, girando col telecomando, troveremo qualcosa per passare il tempo". Questo è esattamente ciò che hanno in mente la maggior parte degli studenti italiani, tranne forse qualche figlio di papà in qualche scuola ultraprivata, quando chiedono (o spesso anche pretendono) di andare in laboratorio, come da calendario. Si sa che ci si vuole andare, ma non si sa a fare che cosa. Non importa. Questo è vero sia che si tratti di un laboratorio di informatica, sia di chimica. E' evidente che a tutti piaccia la vita dello spettatore e del "curiosatore", ben più di quella del discente: risposte passive di fronte a tutto ciò che comporti cambiamento e sforzo di comprensione, risposte attive nei confronti di tutto ciò che comporti puro svago e divertimento, o puro curiosare (non seguito da alcuna responsabilità individuale di studio e approfondimento sistematico).

Il vero problema è che spesso il compito di apprendimento (il fine) non è definito, non è condiviso o ambedue le cose, fin dall'inizio. Il problema delle tecnologie è irrilevante di fronte a questo problema, ed è subordinato ad esso.

Non possiamo confondere l'uso di "concessioni", "diversivi motivanti e divertenti", e passa-tempi trascorsi in laboratorio (mezzi, che costano molto più degli strumenti tradizionali), con il raggiungimento del fine.

So per certo, per i numerosi tentativi fatti, che anche quando si hanno a disposizione mezzi tecnologici (che il 90-95% dei miei studenti possiede a casa e il 100% usa sistematicamente a scuola), la "realizzazione di una vera e inclusiva comunità educativa" è ostacolata dal fattore "fine curriculare" (quando questo riguarda la mente degli studenti e non le ram dei computer o i fogli stampati). E' così. Le ICT non risolvono il problema centrale dell'istruzione, superare compiti di apprendimento e comprensione che richiedono pazienza, impegno, perseveranza, aiuto e mediazione a volte uno a uno e una comunità di apprendimento. Solo in situazioni veramente eccezionali, che richiedono anni di lavoro si realizzano vere comunità di apprendimento, ma in tali casi vi si riesce anche in assenza di tecnologie o con un uso limitato delle tecnologie. L'esempio da tenere a mente è quello di Don Milani, non quello di 25 ragazzi sbracati davanti al computer, ciascuno a farsi gli affari propri come succede nelle realtà dove si usano aule di informatica. Sono i ragazzi stessi che a 16-18 anni mi dicono: "finché si gioca si gioca, ma quando devo capire e imparare qualcosa mi serve un libro, una matita, una persona che mi sa spiegare, e devo spegnere il computer che mi distrae". Purtroppo ogni volta che si parla di ICT a scuola si parla sempre degli strumenti usati, ma mai di ciò che si fa di cognitivamente e di significativamente diverso dalle "solite" lezioni con tali strumenti tecnologici.

Le lezioni senza tecnologie devono essere per forza etichettate come "solite" e come "frontali"? Sarà... ma io invece, da chimico, che analizza le cose e non chiama "uguali" cose diverse, e non perde di vista la concretezza della materia e degli scopi, dico che le lezioni fatte con le tecnologie sono giochini divertenti che sfiorano la superficie delle discipline e girano attorno ai problemi. Almeno adesso siamo pari.


Post scriptum da FB

Perdere tempo in distrazioni (e aggeggi che non funzinanononsicolleganonon​sonougualinonsiaggiornanon​onstampanonononsalvano) è ancora più discriminante. In Finlandia ho visto ben altro. In un laboratorio, con tutti i mezzi tecnologici del mondo: SPENTI, lezione interattiva, ma frontale, sequenziale, con i "soliti" banchi a scacchiera. Strumenti usati: testo, gesso lavagna, quaderno e fogli di carta e altri oggetti comuni per capire la caduta dei gravi. Chi faceva le dimostrazioni? la prof. e due allievi irrequieti che così almeno non infastidivano. Gli altri 20 quattordicenni partecipavano domandando, proponendo, scrivendo e rispondendo. Non fremevano per salire anch'essi sul banco e per piegare o accartocciare i fogli e lasciar cadere le monete. Sapevano che il compito era cognitivo e non manipolativo e condividevano questo fine implicito. L'ambiente era stimolante. Le concezioni precedenti sono state messe in crisi senza formule e senza matematica. Il metodo era sufficientemente inquisitivo e motivante. Questa era una docente normale, molto giovane, in una scuola normale che svolgeva una lezione normalmente preparata e standardizzata per essere ripetuta in altre classi.

Per cortesia, guardiamo prima la sostanza, non gli strumenti, se vogliamo migliorare la scuola.

venerdì 1 luglio 2011

Prima pensiamo a delle teste ben fatte, poi all'orientamento e al territorio

Sottotitolo: W LE APPLICAZIONI TECNICHE!

Mi riferisco alla e proseguo la discussione su:

educationduepuntozero.it

1. Il problema della frammentazione dell'offerta formativa si profila ora più che mai all'istituto tecnico: la scuola che da sempre considero la migliore che abbiamo in Italia e non solo, quella che più è migliorata rispetto a quella frequentata da me trentacinque anni fa. Il fatto è che tutte le possibilità di accorpamento ed eliminazione di qualche insegnamento sono decaduti: storia diritto ed economia, laboratorio di fisica e chimica, già lungamente sperimentato. La logica è stata: facciamo tagli a tutti così nessuno potrà sentirsi più maltrattato di altri (cosa che invece accade, sulla pelle dei più deboli) dato che fare le scelte è più impopolare, farle intelligenti richiede anche autorevolezza e intelligenza che non ci sono e comunque sono accessorie rispetto al vero fine di riuscire, nonostante tutto, a mantenersi al potere antidemocraticamente. Il risultato sarà un gran maltrattamento della scuola, specie quella tecnica. Laboratori umiliati, aggiunta di materie tecnologiche generiche che non si capisce bene in cosa dovrebbero differire da tecnologia e disegno quando, ripeto, abbiamo ragazzi che non sanno assolutamente trarre alcun vantaggio da tale spezzatino di ore, in cui nessuna materia raggiungerà più la soglia d'impatto.


2. Si parla di apprendimento orientante, sapere, saper fare e integrazioni tra queste cose. Preferisco occuparmi della comprensione (che non esclude i vari apprendimenti, ma che non è affatto implicata da questi). Questo obiettivo deve essere un must della scuola secondaria. La nuova scuola deve imparare a fornire esperienze di scoperta e di presa di coscienza dei processi di comprensione a TUTTI. Facciamo mente locale: QUANTE MATERIE insegnava Don Milani? forse undici o dodici? ma, quanta consapevolezza costruiva? Solo quando gli studenti sapranno controllare coscientemente le proprie funzioni intellettive superiori potranno usufruire proficuamente di tirocini, diversificazioni e altre risorse pensate per favorire l'orientamento e la motivazione. Fino ad allora avremo ragazzi che si baseranno su fattori esterni, sull'immagine di sé mutuata dalle proiezioni dei genitori, limitata dall'ambiente sociale, trainata dalle mode e dalle amicizie o da prof che si usano la media dei voti per dire dove iscrivere i figli. Minori che arriveranno ad una scuola del 2° ciclo che non corrisponderà alle aspettative vaghe che, in realtà, non avevano. Ma se vogliamo la scuola con minor autonomia e più confusione di 40 anni fa, basta non fare nulla: non occorre agitarsi tanto.


3. E ancora al biennio della secondaria, gli studenti hanno bisogno di mediazione, aiuto a comprendere, generalizzare e astrarre. E' inutile che insistiate: questo non lo si fa sistematicamente e, nella scuola della molteplicità delle proposte e della confusione, lo si farà sempre meno. Devono ancora conoscere la propria mente, imparare a imparare, astrarre, e a comprendere. Non possiamo trasformare la scuola in "consigli per gli acquisti" nell'illusione, molto pia, che basti vedere, visitare, assistere, ascoltare, partecipare esternamente, essere bombardati di informazioni dalle materie, da promozioni aziendali e da brillanti e flessibili rimescolamenti curriculari di materie, per sapere chiaramente cosa si vuol fare prima ancora di conoscersi. A costo di ripetermi per la terza volta, l'obiettivo non deve essere conoscere, ma saper attivare processi di comprensione. Non si può fare affidamento sulle "contaminazioni" delle offerte provenienti dal territorio in cui i minori si identificano eventualmente con adulti molto appagati, che hanno successo in cose molto meno astratte e complicate di quelle che si deve "subire" a scuola. O magari i minori faticano a proiettarsi in analoghi adulti, irraggiungibili perché affermano, a ragione, che per arrivare a quel livello di successo e di padronanza occorre molto impegno, molto studio, molta curiosità, molto esercizio-sacrificio, e che la scuola è molto, molto importante per cambiare e imparare queste cose. Per ottenere che l'altra metà degli allievi che ancora non conoscono se stessi si considerino incompatibili sia con la scuola che con questa società adulta. Ma perché non gli diamo, piuttosto, il tempo e il modo di crescere intellettualmente? Questo è il nostro dovere di insegnanti.

Mi rendo conto che la mia concezione di scuola come "luogo protetto" possa non essere condivisa da queste teorie funzionalistiche che portano ad un'adultizzazione tanto fittizia quanto precoce. Ma ci tengo a dire che questo biennio protetto deve servire non alla continuazione delle pratiche tradizionali come nei bienni dei licei, dove tutto si cambia per non cambiare nulla, ma deve servire a lavorare intensamente al controllo consapevole della coscienza, delle capacità di riflessione, elaborazione e comprensione di TUTTI (della mancanza delle quali cose tutti i miei colleghi, non a torto si lamentano), a costo di sacrificare qualche materia.


D'altra parte, se qualcuno (genitore e figlio) non ha bisogno di conoscere altro, di sviluppare una migliore qualità del pensiero, né di aspettare, perché ha già capito che ciò che vuole è proseguire la vita e l'azienda di famiglia, non deve andare in giro a cercare col lumicino la scuola più simile a lui, e deve sapere che la scuola non è pensata per lui, ma per chi si prepara ad aprirsi a vivere bene in qualunque possibile tipo di cultura, presente e futura.


PS: Ma quale NiTiNOL!! abbiamo degli adulti che amano divertirsi e hanno bisogno dei giovani come spettatori o dei professionisti dell'educazione che sanno che prima di sperare che sia possibile minimamente comprendere come funziona una transizione di fase austenite/martensite in un materiale con memoria di forma occorre studiare un bel po' di chimica fisica? Capaci dunque di preferire una qualunque altra manifestazione suscettibile di razionalizzazione e comprensione da parte di un 14-enne? Non possiamo trasformare tutto in giochi di prestigio, magie e fenomeni da baraccone. Certo, un fabbricante di occhiali può far capire come si possono fissare delle montature rigidamente, ma con quale mentalità? Questa: esiste un materiale magico che serve allo scopo: lo paghi, lo compri, impari a dominarlo e raggiungi lo scopo. Mentre al liceo scientifico studiano il latino. Ma è mai possibile non capire che in questo modo si uccide l'amore per la comprensione? Anzi, la "speranza" dell'amore per la comprensione! Si dice: le cose sono belle perché (in quanto) funzionano! Ma ci si rende conto? Stiamo entrando nella società futura che dovrà la sua sopravvivenza alla comprensione reciproca, inter e intrapersonale, globale, sistemica, delle cose della natura e ambientale e - ancora oggi - ci basiamo su una scuola che garantisce capacità di comprensione a una percentuale esigua della popolazione scolastica, e che disconosce il piacere della vera comprensione del mondo naturale, scientifico e tecnologico, dunque anche sociale! Quanto rimpiango quando facevo tre cose in tre anni di applicazioni tecniche, traforo, lampadine, interruttori, fili, batterie e le capivo abbastanza bene da costruirmici altre cose simili a casa! Sai cosa me ne poteva fregare di come si facevano le piastrelle! Mica quelle potevo farmele, studiarle!

mercoledì 18 maggio 2011

I test INVALSI: smascherato un maldestro cavallo di Troia

Non si possono liquidare così sommariamente (come enigmistica o idiozia di capacità generiche senza contenuti) le proposte di problem solving di varia natura, come fa Israel che è in tutta evidenza un negazionista delle istanze pedagogiche. Così come non è scontato il giudizio negativo verso il "teaching to the test". Infatti è innegabile che lavorando seriamente a dei test potenzialmente significativi si POSSONO (con un abile mediatore, dove abile = che sa innanzitutto dove vuole arrivare) sviluppare le capacità generali che hanno in mente i creatori del test e anche altre, e non solo diventare capace di fare test analoghi. Ciò che mi sento di contestare con forza è l'idea approssimativa di meritocrazia, un mito di fronte al quale tutte le opinioni sembrano arrestarsi. Sembra incontestabile che chi merita di più debba avere, meritare, di più. Invece no: è proprio questo il criterio antipedagogico da contestare. La pretesa dell'oggettività e il concetto di valore aggiunto di apprendimento sono solo dei derivati inventati ad hoc per inseguire il falso mito, la semplificazione della meritocrazia. Contesto l'idea stessa della meritocrazia, NON contrapponendo l'idea simmetricamente sbagliata del "buonismo". La scuola è fatta da insegnanti che devono 'fare il loro dovere nella maniera più professionale possibile' e non 'meritare' attraverso gli pseudomeriti dei propri alunni. Nell'insegnare può (dovrebbe) rientrarvi l'utilizzo di problemi di qualunque natura, in quanto compiti-strumenti di apprendimento. Dunque: gradite proposte. Vediamo gli obiettivi dell'OCSE con i suoi test PISA: comparare i sistemi educativi. Ben vengano. Sono fatti a campione; non ci costano, ci restituiscono indicazioni relative al contesto che poi vari manipolatori utilizzano per scopi demagogici. Ma qual è la ricaduta sugli insegnanti? nessuna. Non ci è dato di studiare i test, di comprenderne la portata pedagogica, imparare a usarli, avere un supporto pedagogico. Lo accettiamo, di ospitare l'OCSE senza trarne nessun vantaggio, perché quella è l'OCSE e il nostro paese ne è membro, ma anche perché quei test NON vanno a misurare cose balorde come i valori aggiunti di apprendimento. E sanno che i risultati sono i risultati delle culture, delle storie e dei contesti, con una "piccola interferenza" dovuta al particolare sistema educativo. Particolare sistema che non è fatto solamente dagli insegnanti. E' assurdo e anche sospetto che sia un ente ministeriale a mettersi a misurare pseudomeriti con l'intenzione di portare dentro la meritocrazia sui 'sottoposti' insegnanti senza fare nulla per riportare dentro la scuola un minimo supporto pedagogico sulle competenze, sulle capacità che si intende solo verificare senza far conoscere esplicitamente i parametri che fanno da sfondo e da motivazione dei test. Viene da dire: "ma perché almeno non ce li dite, che noi ci facciamo in quattro per realizzarli, questi obiettivi, come ci siamo sempre fatti in quattro per insegnare qualunque altra cosa, costruendoci anche da soli gli strumenti che ci sembrano più adatti? Non ce li date - lasciate fare da soli - perché non ci ritenete all'altezza? bene, allora perché ci volete valutare su ciò di cui non saremmo all'altezza?" Si dà il caso che il compito e la finalità educativa siano affidate a noi e non all'INVALSI. Quindi se il ministero o per lui l'INVALSI vuole farci migliorare la qualità dell'insegnamento, che ci dia formazione e supporto e, volendo, anche test. Ci faccia imparare anche a noi a farli. Ci faccia partecipare! Con l'obiettivo di migliorare la qualità dell'educazione e non di arrivare a "conoscere i meriti individuali" in base al mito liberista che l'inseguimento del merito incentivi il miglioramento della qualità. E' evidente che in questo caso il "Teaching to the Test" crescerebbe nella sua natura viziosa, arrivando ad intaccare la stessa dignità delle discipline e, di riflesso, quella dei relativi insegnanti.
Tocchiamo un altro aspetto che secondo me va ancor più al cuore della faccenda. I concetti di zona di sviluppo prossimale, di potenziale di apprendimento, di processo e quelli antitetici di merito, valutazione penalizzante/premiante, e cerchiamo di capire perché un laureato non riesce a superare i test d'ingresso ad una facoltà simile a quella in cui si è laureato a buoni voti o altri analoghi paradossi.
La scuola è GIÀ in gran parte basata sulla paura della punizione, cioè sui concetti di pena e premio, almeno la secondaria di 1° e 2° grado, e su questa base sta già funzionando al di sotto delle aspettative, al di sotto delle necessità sociali e, secondo me, anche al di sotto del suo potenziale complessivo. Inserendo i test INVALSI come incentivo al miglioramento della qualità, l'intelletto dei nostri strateghi dell'educazione si aspetterebbe una concatenazione di questo tipo: noi pretendiamo degli standard dai docenti, il mancato raggiungimento dei quali comporta qualche pena di qualche tipo (che non si sa ancora bene come comminare), la paura della quale spingerà gli insegnanti a pretendere standard maggiori dai propri studenti e i fannulloni a fare, ed entrambi ad aumentare la pressione della paura sui propri alunni e genitori che così, con la maggior paura dei voti più bassi (negativi?) produrranno quel valore aggiunto di apprendimento diffuso che coincide con il miglioramento della qualità dell'educazione. Non sto né estremizzando né ironizzando. Questa è la meritocrazia. Questa è la "buona vecchia scuola di una volta di quando si imparava veramente". Quando non c'erano inutili distinzioni tra ricordare, sapere, comprendere e saper comprendere: si sapeva e basta. Quando chi sapeva di più e ricordava più cose superava esami e test basati sulla conoscenza, quindi semplici e oggettivamente capaci di misurare impegno e merito. Per questo persino più democratici. E soprattutto superarli indicava indubbiamente l'avere attitudini per lo studio, per 'quel' particolare tipo di studio. E il non superarli era il chiaro segno di non essere adatti a quel settore di studio o professionale... o non adatto ad uno studio arbitrario ed autoreferenziale? ... o impossibilitati da condizioni socioculturali ad immergersi in questioni astratte che in assenza di interferenze esterne - e di valutazioni scolastiche penalizzanti l'intero individuo - sarebbero immediatamente elaborate?
L'alunno ha dei bisogni. Anzi, ha UN bisogno, di mediazione, e gli insegnanti sono i mediatori. La valutazione ha senso esclusivamente all'interno del rapporto di mediazione e deve essere reciproca e continua, come la stessa mediazione. Lavorare nella zona di sviluppo prossimo significa aiutare l'alunno a realizzare - imitando - dei compiti di apprendimento che non sarebbe - in quella specifica fase evolutiva - in grado di realizzare da solo, ma che invece fruttificano uno spostamento in avanti del potenziale di apprendimento anche se raggiunti con l'aiuto esperto (contrariamente a compiti troppo al di sopra della ZSP che non sono imitabili e, anche se realizzati con tutti i migliori aiuti e ripetizioni del mondo, non fruttano nulla di stabile, e contrariamente ai compiti che facilitano lo studio banalizzando la mediazione, pur di ottenere qualche risultato, che fruttano solo istupidimento). La buona mediazione è protesa anche all'autonomia dell'alunno dal mediatore, ma questo gran risultato deve passare per i tempi lunghi e per la comprensione reciproca dei processi, quindi per la costruzione di una buona metacognizione: controllo, consapevolezza, coscienza della consapevolezza. Certo, un percorso scolastico nel suo insieme dà un valore aggiunto alla persona studente, e non solo ai suoi apprendimenti, ma questo è il servizio da dare a tutti i cittadini che si chiama diritto allo studio. I frutti di questo servizio non sono staccati dalle persone come possono esserlo le prestazioni dei test d'ingresso. Essi si vedono (e la loro azione non si interrompe) nell'arco di tutta la vita. L'apporto del sistema di educazione basato su professionisti esperti (la scuola), consiste in una modificazione cognitiva ed emotiva a lento corso, che solo nei casi migliori diventa anche automodificazione, non è quantificabile né certificabile una volta all'anno, ma è un dovere della società verso l'individuo. Anche se può essere migliorato, questo sistema FUNZIONA ed è arduo immaginare le conseguenze di una sua assenza o snaturazione (testificazione?) E non funziona poco a causa di una somma di demeriti, ma a causa soprattutto di una scarsa consapevolezza della sua essenza, dei suoi scopi, metodi e finalità da parte di chi lo governa. Per questo i suoi principi, anche volendo, non potrebbero trasmettersi in alcun modo, meritocratico o no, ai suoi operatori: i docenti. Se i buoni principi circolano e si applicano, questo è grazie a pratiche tradizionali e/o consapevoli di buoni insegnanti sostanzialmente autodidatti, e se molti studenti diventano ottime persone, questo è un merito distribuito in modo insondabile in tutto il sistema formativo, nella cultura familiare e della società. Una volta assolto in modo consono il dovere governativo di scegliere la destinazione del sistema educativo, una volta usato il denaro pubblico per fornire supporto e coinvolgimento pedagogico-professionale e non per fare test aventi finalità promiscua e tendenziosa, chi ci governa potrebbe pretendere di mettersi a "controllare" che questi questi fannulloni e mascalzoncelli di insegnanti facciano il proprio dovere. Ma come? Semplicemente vedendo se e quanto si impegnano nella loro specifica professione e incentivandoli in questo. Non considerandoli come giunti meccanici da oliare in un meccanismo che produce buone risposte ai test. Altrimenti, che ci venissero loro a fare scuola. Il mio punto di vista consiste nello stabilire un rapporto alla pari di reciproca fiducia professionale. Il loro è quello basato sull'automatismo meritocratico: un'idiozia.