sabato 18 giugno 2016




tocca tutta la mia esperienza di insegnamento ed ha ispirato queste mie riflessioni.


Non è la lezione frontale che va evitata, ma l'idea della lezione versativa, che considera l'esposizione sufficiente a mettere in condizione l'alunno di "riversare" o "restituire" quanto "insegnato". La lezione frontale trasmette entusiasmo e senso, se fatta con arte e soprattutto solida esperienza come ben descritto da Roberto Contu. Ma credo, e ne sono sicuro per le materie scientifiche che insegno, che questo sia solo l'inizio della comprensione. Quando ciò che c'è da capire non sono concetti rapportabili alla condizione umana e all'esperienza quotidiana, o facilmente traslabili nel tempo e nello spazio rispetto a questa, ma concetti astratti, è strettamente necessario un lavoro addizionale che coinvolga direttamente il singolo alunno in modo attivo e non passivo, lo stimoli a parlare e interagire con gli altri modificando così le proprie rappresentazioni. Quando alla fine di questo lavoro l'alunno riesce veramente a capire di cosa sta parlando, il risultato è simile a quello ottenuto dall'insegnamento frontale, ma il risultato non è affatto ottenibile con la semplice narrazione, per quanto sintetica e appassionata essa sia.

Ciò a cui assisto, purtroppo, è che l'insegnante dica: "io te l'ho spiegato, tu lo dovevi studiare (e aggiunge, per pararsi il culo, che stava da pagina x a pagina y del libro) quindi adesso lo dovevi sapere". Quelli che studiano, dunque, diventano quelli che "ripetono", l'istanza della comprensione diventa quanto mai indesiderata e non le è permesso di guastare la festa della didattica restitutiva.

Ciò a cui assisto, purtroppo, è che l'insegnante dica: "io te l'ho spiegato, tu lo dovevi studiare (e aggiunge, per pararsi il culo, che stava da pagina x a pagina y del libro) quindi adesso lo dovevi sapere". Quelli che studiano, dunque, diventano quelli che "ripetono", l'istanza della comprensione diventa quanto mai indesiderata e non le è permesso di guastare la festa della didattica restitutiva.

Contu è troppo ottimista. Ho conosciuto insegnanti di Italiano considerati bravi e i cui alunni, miei alunni, superavano con successo gli esami; ma essi insegnavano solo gli stereotipi, occorreva CONOSCERE tutti e bene quegli stereotipi bignamici, per cui essi venivano richiesti, fatti recitare, continuamente. Vi assicuro che recitare sequenze di stereotipi non fa avanzare di un millimetro la consapevolezza, neanche di studenti diciottenni già maturi. Ho anche conosciuto insegnanti di Italiano come Contu, che appassionavano, pur essendo giovani e alle prime armi, quindi con una passione che derivava dai propri studi e non dall'esperienza d'insegnamento e forse i propri allievi non hanno fatto l'exploit all'esame, ma ne conosco almeno due che da periti chimici nella vita sono diventati collega di Italiano e filosofo. Qual è stato allora l'insegnante migliore? Il primo lo è solo nella logica autoreferenziale - che personalmente non posso soffrire - interna alla scuola, quella che va ad autolimitare, in realtà, la libertà di insegnamento e apprendimento.
È troppo ottimista anche quando afferma che "L’insegnante è per definizione un soggetto che accetta di passare la vita a studiare ininterrottamente e in modo forsennato..." e più avanti: "nonché sanare i propri buchi formativi". Nel mio settore di insegnamento questi casi sono l'eccezione rara. Se mai qualcuno dei miei colleghi legge un libro a soggetto disciplinare lo fa per proprio diletto personale, lungi da loro l'idea e il desiderio di adattare e trasmettere quel piacere nella lezione, adattandola. Se anche lo ritenessero possibile, ma non lo credono perché per loro gli studenti sono degli stupidi vasi vuoti da riempire, la logica restitutiva, la loro lezione versativa, hanno raggiunto uno standard di perfezione tale, e il programma fila come olio, che sarebbe follia cambiare.
Anche quando Contu afferma che "è esperienza di ogni docente quella di conoscere e accrescere le proprie carte vincenti e i propri argomenti a prova di classe", ciò acquista nella logica restitutiva un significato pernicioso: la pratica ed esperienza conseguita sono in effetti tale e tanta che l'insegnante "restitutivo" riesce perfino ad affascinare; i suoi ragazzi sono contenti perché riescono a rifare, ripetere, restituire tutto alla perfezione... quello sì che è un bravo docente... ma col piccolo problema che nessuno dei tanti in quella classe sa il senso di ciò che sta facendo: i concetti più sovraordinati, le rappresentazioni, sono completamente errate, basta una piccola e insulsa domanda proveniente da fuori il mondo chiuso della sua classe che questa come un'onda distrugge tutto il castello di sabbia. E a quel punto il cattivo della situazione è quello che vive la disciplina, la sua oggettività e il mondo reale, non il prof.
La sintesi è una gran bella cosa. Avrei potuto dire apoditticamente: "è impossibile eliminare la componente costruttiva dall'apprendimento, quindi nel buon insegnamento occorre una dose di lezione frontale, possibilmente il meno passiva e più interattiva possibile, e una componente di lezione con un ruolo attivo appositamente progettato per lo studente". Però DOVEVO sottolineare che la questione non è tecnica, ma psicologica. Quindi non condivido la conclusione di Contu, che quasi assolutizza il valore della conoscenza in sé, portando a sottovalutare proprio le tecniche necessarie a entrare 'anche' nella logica costruttivista. Ma queste tecniche devono essere psicologicamente informate, mentre troppo spesso sono solo tecnologicamente "mercificate". Per tornare dunque al topic del gesso vs tecnologia, la mia opinione è che di ogni alternativa al gesso occorra 1. imparare a sfruttare i vantaggi fino all'ultimo, penso alla scrittura collaborativa con Google docs o a CmapTools che si autorinnovano e che uso da 14 anni, senza mai confondere l'uso del mezzo e gli artefatti prodotti con l'effettivo risultato pedagogico e 2. abbandonare se i vantaggi reali non ci sono e non solo per il gusto di entusiasmarsi nuovamente su un'altra ultima moda appena arrivata, come mi pare essere l'atteggiamento più diffuso tra i "geek" tecnologici e oggi tra gli oscuri ministeriali (vedi pensiero computazionale imposto all'improvviso alla scuola dopo aver largamente dimenticato tutte le esperienze positive pregresse della primaria e media e anche i docenti esperti che vi erano).

Restitutivo vs costruttivista; gesso vs tecnologia




tocca tutta la mia esperienza di insegnamento ed ha ispirato queste mie riflessioni.


Non è la lezione frontale che va evitata, ma l'idea della lezione versativa, che considera l'esposizione sufficiente a mettere in condizione l'alunno di "riversare" o "restituire" quanto "insegnato". La lezione frontale trasmette entusiasmo e senso, se fatta con arte e soprattutto solida esperienza come ben descritto da Roberto Contu. Ma credo, e ne sono sicuro per le materie scientifiche che insegno, che questo sia solo l'inizio della comprensione. Quando ciò che c'è da capire non sono concetti rapportabili alla condizione umana e all'esperienza quotidiana, o facilmente traslabili nel tempo e nello spazio rispetto a questa, ma concetti astratti, è strettamente necessario un lavoro addizionale che coinvolga direttamente il singolo alunno in modo attivo e non passivo, lo stimoli a parlare e interagire con gli altri modificando così le proprie rappresentazioni. Quando alla fine di questo lavoro l'alunno riesce veramente a capire di cosa sta parlando, il risultato è simile a quello ottenuto dall'insegnamento frontale, ma il risultato non è affatto ottenibile con la semplice narrazione, per quanto sintetica e appassionata essa sia.

Ciò a cui assisto, purtroppo, è che l'insegnante dica: "io te l'ho spiegato, tu lo dovevi studiare (e aggiunge, per pararsi il culo, che stava da pagina x a pagina y del libro) quindi adesso lo dovevi sapere". Quelli che studiano, dunque, diventano quelli che "ripetono", l'istanza della comprensione diventa quanto mai indesiderata e non le è permesso di guastare la festa della didattica restitutiva.


Ciò a cui assisto, purtroppo, è che l'insegnante dica: "io te l'ho spiegato, tu lo dovevi studiare (e aggiunge, per pararsi il culo, che stava da pagina x a pagina y del libro) quindi adesso lo dovevi sapere". Quelli che studiano, dunque, diventano quelli che "ripetono", l'istanza della comprensione diventa quanto mai indesiderata e non le è permesso di guastare la festa della didattica restitutiva.

Contu è troppo ottimista. Ho conosciuto insegnanti di Italiano considerati bravi e i cui alunni, miei alunni, superavano con successo gli esami; ma essi insegnavano solo gli stereotipi, occorreva CONOSCERE tutti e bene quegli stereotipi bignamici, per cui essi venivano richiesti, fatti recitare, continuamente. Vi assicuro che recitare sequenze di stereotipi non fa avanzare di un millimetro la consapevolezza, neanche di studenti diciottenni già maturi. Ho anche conosciuto insegnanti di Italiano come Contu, che appassionavano, pur essendo giovani e alle prime armi, quindi con una passione che derivava dai propri studi e non dall'esperienza d'insegnamento e forse i propri allievi non hanno fatto l'exploit all'esame, ma ne conosco almeno due che da periti chimici nella vita sono diventati collega di Italiano e filosofo. Qual è stato allora l'insegnante migliore? Il primo lo è solo nella logica autoreferenziale - che personalmente non posso soffrire - interna alla scuola, quella che va ad autolimitare, in realtà, la libertà di insegnamento e apprendimento.
È troppo ottimista anche quando afferma che "L’insegnante è per definizione un soggetto che accetta di passare la vita a studiare ininterrottamente e in modo forsennato..." e più avanti: "nonché sanare i propri buchi formativi". Nel mio settore di insegnamento questi casi sono l'eccezione rara. Se mai qualcuno dei miei colleghi legge un libro a soggetto disciplinare lo fa per proprio diletto personale, lungi da loro l'idea e il desiderio di adattare e trasmettere quel piacere nella lezione, adattandola. Se anche lo ritenessero possibile, ma non lo credono perché per loro gli studenti sono degli stupidi vasi vuoti da riempire, la logica restitutiva, la loro lezione versativa, hanno raggiunto uno standard di perfezione tale, e il programma fila come olio, che sarebbe follia cambiare.
Anche quando Contu afferma che "è esperienza di ogni docente quella di conoscere e accrescere le proprie carte vincenti e i propri argomenti a prova di classe", ciò acquista nella logica restitutiva un significato pernicioso: la pratica ed esperienza conseguita sono in effetti tale e tanta che l'insegnante "restitutivo" riesce perfino ad affascinare; i suoi ragazzi sono contenti perché riescono a rifare, ripetere, restituire tutto alla perfezione... quello sì che è un bravo docente... ma col piccolo problema che nessuno dei tanti in quella classe sa il senso di ciò che sta facendo: i concetti più sovraordinati, le rappresentazioni, sono completamente errate, basta una piccola e insulsa domanda proveniente da fuori il mondo chiuso della sua classe che questa come un'onda distrugge tutto il castello di sabbia. E a quel punto il cattivo della situazione è quello che vive la disciplina, la sua oggettività e il mondo reale, non il prof.
La sintesi è una gran bella cosa. Avrei potuto dire apoditticamente: "è impossibile eliminare la componente costruttiva dall'apprendimento, quindi nel buon insegnamento occorre una dose di lezione frontale, possibilmente il meno passiva e più interattiva possibile, e una componente di lezione con un ruolo attivo appositamente progettato per lo studente". Però DOVEVO sottolineare che la questione non è tecnica, ma psicologica. Quindi non condivido la conclusione di Contu, che quasi assolutizza il valore della conoscenza in sé, portando a sottovalutare proprio le tecniche necessarie a entrare 'anche' nella logica costruttivista. Ma queste tecniche devono essere psicologicamente informate, mentre troppo spesso sono solo tecnologicamente "mercificate". Per tornare dunque al topic del gesso vs tecnologia, la mia opinione è che di ogni alternativa al gesso occorra 1. imparare a sfruttare i vantaggi fino all'ultimo, penso alla scrittura collaborativa con Google docs o a CmapTools che si autorinnovano e che uso da 14 anni, senza mai confondere l'uso del mezzo e gli artefatti prodotti con l'effettivo risultato pedagogico e 2. abbandonare se i vantaggi reali non ci sono e non solo per il gusto di entusiasmarsi nuovamente su un'altra ultima moda appena arrivata, come mi pare essere l'atteggiamento più diffuso tra i "geek" tecnologici e oggi tra gli oscuri ministeriali (vedi pensiero computazionale imposto all'improvviso alla scuola dopo aver largamente dimenticato tutte le esperienze positive pregresse della primaria e media e anche i docenti esperti che vi erano).

domenica 24 aprile 2016

Fuori gli avvocati dalla scuola

Dove sta scritto che le verifiche debbano essere per forza individuali, per forza sommative, per forza svolte a scuola, per forza cartacee, per essere legali? Invece di perdere tempo a cercare, riporto lo scritto di Adele Repola Boatto, tratto da questo documento, bello e completo dell'ispettore ministeriale prof. Ennio Monachesi.

http://www.edscuola.it/archivio/comprensivi/VALUTAZIONE.pdf

”Uno dei momenti determinanti e più produttivi della mia vita professionale è stato quello in cui mi sono chiesta perché i momenti di valutazione dovessero essere separati da quelli di apprendimento, insieme alla successiva scoperta che anche questa separatezza non era altro che una consuetudine, modificabile quindi in piena legalità. Avevo infatti verificato come fossero diversi i dati che su di sé uno stesso ragazzo forniva mentre collaborava alla costruzione del proprio sapere rispetto a quando doveva spuntare voti di rendimento, in situazioni esclusive per questo scopo….. Quando si afferma che il sapere, più che insegnato può [anche] (parola aggiunta da Monachesi) essere costruito in classe, che è importante aiutare i ragazzi a collaborare lealmente tra loro e ad essere responsabili verso la comune attività, si suscitano facilmente perplessità: chi non ci ha mai provato teme conseguenze di dispersività, disordine, scarsa produttività. Posso provare, dopo lunga esperienza, che è vero il contrario. L’apprendimento effettivo si ottiene se l’alunno partecipa attivamente alla sua elaborazione. Un ambiente-classe in cui questo è usuale offre elementi di valutazione molto più autentici e significativi…Si libera in tal modo molto tempo per l’apprendimento perché risultano superflue gran parte delle “interrogazioni”, supplizio di pochi, divagazioni per molti
la partecipazione alla costruzione degli argomenti attiva abilità, la pluralità delle situazioni offerte facilita i recuperi; si ottiene quindi, dopo una fase iniziale di adattamento, un progressivo miglioramento ed ampliamento delle generali possibilità di apprendimento… Ma come registrare questi elementi di valutazione? I numeri rivelano tutta la loro inadeguatezza e, del resto, con numeri pronti a scattare si blocca ogni effettiva partecipazione degli allievi.” 
(Adele Repola Boatto)

Nell'articolo di Monachesi c'è molto di più. 


Le verifiche scolastiche devono sempre avere carattere prevalentemente formativo. Perciò è necessario "defiscalizzare" la valutazione a scuola, anche per renderla più snella, più diagnostica e più capace di incentivare quei processi virtuosi di apprendimento che le valutazioni devono orientare e non disorientare. 

Il problema della docimologia, è che cerca di dire come avviene la valutazione, senza poter far nulla per aiutare a far capire, a chi ne adotta le tecniche, quale sia la funzione pedagogica della valutazione. 

Come dice la Boatto, non si può scorporare la valutazione dalla pedagogia. 

Vale per tutti l'esempio del Majorana di Brindisi, dove i docenti adottano tecnologie a tutto spiano, un test formativo veloce di autovalutazione in ogni lezione, e dove, per aver parlato anche di persona con i colleghi che lo fanno, ho visto che per loro il problema della fiscalità - legalità, ad esempio nell'acquisire informazioni valutative da un form online fatto a casa o a scuola in collaborazione, e trasformare in "voti sul registro" queste informazioni, semplicemente non esiste. Ho verificato che non hanno neppure sentito il bisogno di darsi una strategia comune per gestire la questione dei voti agli occhi delle famiglie. In poche parole ciascuno verifica e valuta come ritiene sia giusto (come dovrebbe essere per la libertà di insegnamento) e nessuno teme che qualcuno attacchi e invalidi i criteri e metodi formativi di valutazione perché potrebbero creare difficoltà ad alunni che volessero prepararsi in maniera tradizionale, ossia imparando e ripetendo ogni lezione in funzione della verifica e dimenticandola subito dopo, magari perché in quel modo hanno sempre 9 e 10 e non devono mai impattare in qualcosa di difficile, che richieda di mettere in gioco facoltà cognitive superiori, prevedendo errori e possibilità di rimediarvi facendo autentici passi avanti nell'imparare a imparare.  
Sarebbe assurdo che per asservire l'istanza di pochi ribelli e legulei del voto, che non hanno capito che a scuola si va a imparare e non a "prendere voti" (quello è il seminario vescovile), si possa rinunciare a fare tutto ciò che serve a costruire una comunità di apprendimento di qualità reale. La pretesa di oggettività, figlia della "logica meritocratica", non sa fare i conti con la realtà, che prevede differenze individuali, impossibilità dell'oggettività, fallibilità di singoli step educativi, una buona o cattiva qualità sul lungo termine non traducibile in voti o "medie", e soprattutto richiede buona fede reciproca, nel rispetto assoluto dell'azione docente. Prima o poi si dovrà capire che l'insegnamento-apprendimento scolastico è un processo profondamente umano. La libertà e l'autonomia di insegnamento sono l'aspetto centrale di questo processo di qualità reale
Un altro fattore importante è, ad esempio, che il  DS del Majorana, Salvatore Giuliano non è mai "ribelle" nei confronti dell'innovazione. Potrebbe esserci forse meno caos, però quella scuola non è certamente un "votificio di voti fasulli", ma un sistema di educazione realmente all'avanguardia. 

Dunque, perché quello che faccio dovrebbe andare bene in una scuola ed essere illegale in un'altra, secondo qualche azzeccagarbugli da strapazzo? Dove sta il rispetto della mia professionalità? Questa, pure, deve essere tutelata dalla legge. 

I requisiti formali della legalità delle prove di valutazione, come criterio fondamentale di validità di ogni atto scolastico, potranno essere ben applicati alle prove di certificazione ed ai concorsi pubblici (se le commissioni ne saranno capaci), non alla didattica di tutti i giorni.

venerdì 25 marzo 2016

Tutto o niente

Questo post è un commento di risposta ad un post di "IBSE e dintorni" in cui l'autrice lamenta la carenza di passione per l'esperimento di Eratostene della circonferenza terrestre.
Ciò che mi interessa realmente è riflettere sul nostro atteggiamento di fronte alla carenza di passione per la conoscenza. L'atteggiamento in classe e quello generale, come questi due interagiscono a nostro sfavore. Come possiamo opporre resistenza.
Per ora stenderei un velo pietoso sulla carenza di passione degli insegnanti di materie scientifiche (quante volte si sente parlare con passione di una conoscenza o scoperta scientifica in sala professori? mai!!! Se registrassi le più animate conversazioni, qualche ascoltatore le attriburirebbe probabilmente ad una parrucchieria).

Ecco il mio commento-riflessione

« Puoi fare anche di più: con il sito http://rcl-munich.informatik.unibw-muenchen.de/ puoi azionare cinque pendoli elettronici reali dislocati a cinque latitudini diverse nel mondo, osservarli mentre oscillano attraverso una webcam, determinare valori diversi della accelerazione di gravità a livello del mare, il che permette di ricavare la forma di ellissoide del pianeta. Puoi...

In generale capisco il tuo turbamento sul fatto che la conoscenza non fa audience e non fa curiosità. Ma qual è il nostro atteggiamento migliore come "mediatori della conoscenza scientifica"? Per me valgono tre regole fondamentali.

La prima regola è quella del realismo: non bisogna mai confondere l'entusiasmo e la comprensione dell'insegnante con quelle degli alunni. In altre parole non dobbiamo suonarcela e cantarcela da soli né dobbiamo illuderci che spiegazione significhi condivisione di significati, che interessamento di uno significhi comprensione di tutti. Tutto ciò è costantemente smentito nel 99% delle lezioni nella nostra scuola. Ciò che facciamo deve esigere un coinvolgimento attivo da noi strutturato, volente o nolente, da parte di tutti, e pertanto la nostra stessa presenza e "pretesa" devono necessariamente rappresentare un problema per l'alunno; un ostacolo non superabile se non giocando al gioco che decidiamo noi e con le regole volute da noi.

La seconda regola è di rendere preziosa la conoscenza. Occorre entrare in classe mostrando di essere entusiasti di qualcosa, senza pretendere o voler implicare che ciò si trasmetta, anzi facendo desiderare la cosa rinviando eventuali dettagli a dopo la lezione programmata "se ci saranno il tempo e la richiesta". E' la legge del mercato: si fa aumentare il prezzo per far crescere la domanda e viceversa. Meglio non vendere nulla che svendersi. E' l'unico modo di rendere chiaro a chi non possiede, in massima parte, gli strumenti concettuali per farlo, che la conoscenza è una seria questione di scelta, di un tipo ben diverso dall'assistere come spettatore distratto ad uno "spettacolo". Quello che invece vedo costantemente sono sedicenti esperti di didattica e motivazione che si entusiasmano, fanno il loro spettacolo senza richiedere nulla di intellettualmente demanding, fanno i loro esempi trasgressivi che catturano l'attenzione di qualche leader per qualche istante, quindi se ne vanno lasciando la classe al povero docente, costretto a spiegare al 75% di distratti, dare compiti a casa a degli inadempienti, fare interrogazioni e verifiche al traino dei voti. Ed inviando un messaggio immaginario al motivatore: un "ti piace vincere facile? ma vieni a fare un programma qui in classe tutti i giorni, e insieme in altre 5 classi!"

La terza regola è della massima disponibilità con chi sale sul carro della conoscenza: occorre mostrarsi ed essere realmente curiosi delle istanze portate in classe dai ragazzi, anche quando essi pensano che si tratti di una cosa insignificante, si può mostrare che invece la cosa ha risvolti seri e rilevanti e soprattutto che è "conoscibile". Ma se è importante, complessa, implicante approfondimento o ricerca passa la voglia? Non è un nostro problema. Sviluppando queste istanze in modo sistematico e organizzato, anche in alternativa alla lezione programmata, si ottengono discreti risultati di apprendimento nonostante "non ci siano né programma né voto". Facendolo ci si accorge che per la maggior parte se non la totalità degli studenti, nella lezione successiva si saranno già completamente dimenticati della cosa, quando l'insegnante gliela ri-sfornerà arricchita e condita. Ma noi saremo lì a perseverare, dare l'esempio, essere imitabili. Non devono esserci alternative, possibilità di "corruzione" di quel professore che nella percezione dei ragazzi sembra essere "così distante da noi". La barriera e l'asimmetria ci sono, non possiamo fare finta di niente, attenuarle con sotterfugi. Sarà allora chiaro che i tre comportamenti dell'insegnante sono solo apparentemente contraddittori, che essi contengono un messaggio del tipo tutto o niente, di responsabilità, messaggio che con le sole parole non potrebbe mai arrivare a destinazione.

Queste sono la serietà e la coerenza che devono ripetutamente impattare su studenti abituati alla attenzione volontaria della durata massima di uno spot, alla deontologia dell'indifferenza e del resettaggio in tutti i tipi di società di cui fanno parte e che vedono al di fuori della scuola. La scuola non è e non deve essere uguale alla vita "normale": uno zapping continuo. L'insegnante non è e non deve essere un intrattenitore, un amico, o il chiacchierone psicologo comprensivo per il quale la lezione normale o quella alternativa sono sempre meno importanti di qualunque brufolo o impulso emotivo del giorno (è come buttare benzina sul fuoco con gli adolescenti), non un oratore entusiasta che non si rende nemmeno conto di cosa succede sotto i banchi o dietro gli zaini-paravento-poggiatesta, ma uno che fa lavorare usando il cervello e non dà tregua. Un negriero! Solo dall'interesse forzato potrà nascere domani quello autentico. Prima, infatti, bisogna sviluppare in qualche modo, per amore o per forza, funzioni cognitive diverse da quelle spontanee. Perché l'unica barriera concreta, ineliminabile, da superare, è quella delle funzioni del pensiero. La motivazione, non dà un pensiero con i concetti.

Queste sono le misure da adottare per lottare contro la situazione generale, che induce all'irresponsabilità e ostacola la nascita di ogni vocazione per il conoscere. Gli studenti non sono "se stessi allo stato puro". Sono condizionati dalla società virtuale ed effimera in cui sono immersi, in cui si possono fare molti soldi anche senza conoscenza, e in cui per avere più potere è senza dubbio meglio avere scarso amore per la conoscenza. Basta vedere quanta considerazione ha avuto la recente conferma delle onde gravitazionali. Zero impatto mediatico nonostante le numerose implicazioni e, tutto sommato, la facilità dell'esperimento (almeno in termini concettuali). I genitori si saranno chiesti "sì, ma a che serve?", i loro figli, i nostri studenti, nemmeno quello. 
Ecco perché a scuola non ci deve essere tentativo di seduzione, non ci deve essere compromesso né soluzione di continuità: o si sta sul carro della conoscenza o si sta fuori. Mi pare che don Milani fosse più che mai sincero e netto su questi aspetti della motivazione costruita dal discente come conseguente allo sviluppo e al sapere e non causa.

Ma potrebbe essere già tardi, perché i ragazzi di oggi cominciano a "fiutare" che per vivere bene (e non solo in senso materiale, ma anche per quanto riguarda il rispetto e la considerazione sociale) coltivare la conoscenza non basta. Sono lontani i tempi in cui da studenti vedevamo il docente come un imperscrutabile e inarrivabile figuro che formava un tutt'uno con il sapere e con la sua materia, un alieno che non aveva bisogno di altro. Oggi, come insegnanti, non siamo più credibili "di default". Figuriamoci poi se ci mettiamo a fare i sorrisetti, il buon viso a cattivo gioco, o gli animatori del villaggio turistico. »

Alfredo Tifi

giovedì 3 marzo 2016

Sa la materia, ma...


Le parole esatte erano: "ha detto: sa la materia, ma non la sa spiegare e non sa relazionarsi con gli alunni".Le ho ascoltate da una giovane ragazza, mentre le riferiva ad un ragazzo, parimenti sconosciuto, che camminava in coppia con lei e mi incrociava scendendo via don Bosco. Il tono era di verdetto emesso da una giuria o diagnosi prodotta da professionista esperto, ed era confermato dalla cupa serietà del ragazzo che ascoltava e completava così il quadro di una "situazione specifica di disagio scolastico".Chiaramente non si trattava di un'opinione della giovane, che avrà avuto 15-16 anni al massimo, ma di quanto le aveva detto o " confidato" un qualche adulto (Collega? Genitore? Psicologo-educatore?)
Quindi stiamo parlando di come la dignità del singolo insegnante e, più in generale, dell'insegnamento, sia oramai qualcosa da dare in pasto delle possibili dicerie e inconsapevoli calunnie di tutti i possibili inesperti e non-professionisti, colleghi compresi.
Se è vero che non tutti gli insegnanti sono rispettabili allo stesso modo, è altrettanto vero che il rispetto incondizionato per l'insegnante, prerequisito sociale per la costruzione di una qualunque relazione educativa valida, è una categoria morale oramai estinta.
Come in tutte le situazioni complesse, multifattoriali, non si può parlare di verità assoluta, come i due ragazzi e il loro referente adulto hanno fatto, se non nel quadro di una prospettiva dialettica. Ossia, non si può trascurare l'influenza che questo stato di cose diffuso ha nel determinare la qualità e le potenzialità effettive nelle singole situazioni della relazione educativa. La distruzione su scala sociale della asimmetria tra insegnante ed alunno fa sì che la relazione educativa sia gravata da pregiudizi e semplificazioni incontrollate. Spesso, infatti, contraddittorie tra loro nelle diverse opinioni circolanti. Si dissolve così l'essenza e l'unicità del singolo insegnante (e con essa anche quella di ciascuno studente), come se ciò che l'insegnante "sa" o "non sa" fosse una grandezza oggettiva, come se l'azione dello "spiegare" fosse una qualità valutabile e indipendente dal soggetto ricevente e dalla relazione, come l'avere una lama affilata per un coltello, come se la più bella delle orazioni non possa lasciare del tutto immutata una classe che crede di aver capito tutto dopo non aver fatto altro che ascoltare catturata, e come se la capacità di stabilire una relazione fosse indipendente dal dato studente e da quali preconcetti egli abbia in testa - o gli siano stati messi in testa dalla continua diffusione delle dicerie, dagli stereotipi degli "psicologi" che parlano di scuola. Si arriva presto ad un punto tale che neppure i fatti manifesti dell'azione educativa, i risultati dell'investimento e della passione dell'unico professionista, contano qualcosa. L'insegnante diventa lo stereotipo che gli è stato cucito addosso da qualche genitore e lavandaia della scuola. Questo stato di cose ha portato alla distorsione della stessa relazione educativa, che non è più da maestro ad allievo, ma da badante-intrattenitore - prete dell'oratorio - sempre pronto ad farsi gli affari degli studenti (quella sarebbe una buona relazione!!!) ma sempre meno cultore di una tensione e passione per la disciplina insegnata, a dei sedicenti fruitori di servizi che pretendono serietà, ma poi la rifiutano non appena vedono che tale serietà ritorna loro riflessa in termini di impegno e senso di responsabilità, protetti dai loro genitori e magari pure dal DS, per non far fronte ad una faccenda ineliminabile: la fatica-gioia dell'apprendimento. Fatica piuttosto difficile da sostenere se si basa su relazioni simmetriche con insegnante stile "uno di noi", sempre pronto a soprassedere sul compito, sul contenuto e sulla sua comprensione, o a sprecare il tempo col giocattolo tecnologico, o men che mai attraverso una pedagogia delle relazioni tra pari in cui il compito della mediazione è affidato agli alunni stessi. Si è evidentemente dimenticato che la relazione educativa è una categoria molto diversa dalle normali relazioni interpersonali, più simile a quella parentale che non al rapporto lavorativo o di fruitore di servizi e dell'animatore del villaggio turistico. Tale cioè che, in assenza di interferenze sul soggetto della mediazione, la relazione potrebbe essere ben efficace anche con un mediatore del sapere non particolarmente brillante e comunicativo. Una "semplice" relazione educativa tra due persone ugualmente mansuete, ma con due ruoli diversi, asimmetrici assegnati loro dalla cultura che entrano in azione persino se nessuno dei due ne è consapevole. La distruzione sociale dell'asimmetria fa sì che si annulli la condizione si mansuetudine e che la relazione educativa acquisti il carattere di "trattativa" (con tanto di "contratti formativi", "patti formativi" con i genitori e varie "controparti"), dove la parola mediatrice soccombe alla moneta di scambio ufficializzata del voto, l'oggetto finale e determinante delle "transazioni" dell'istruzione occidentale. Trattative con persone che non sanno affatto dove devono andare, ma che pretendono di esercitare un "potere contrattuale" paritario per il semplice motivo che tale potere è stato loro assegnato in modo astratto.
Una volta il "bravo insegnante" poteva "scegliere" se dare "del lei" ai suoi studenti o essere molto protettivo, dialogante amorevole e "comprensivo", quasi materno, senza che ciò predeterminasse significativamente la qualità effettiva della sua azione didattica. Oggi non può più nemmeno scegliere di stare in una via di mezzo, perché alla prima difficoltà incontrata col gruppetto sbagliato di studenti, tutte le banderuole cambieranno direzione e tutta la sua arte e maestria svaniranno nello stereotipo "sa la materia, ma non la sa spiegare", né sa relazionarsi con i propri presuntuosi ed autoeletti giudici.

martedì 28 luglio 2015

Il pensiero computazionale tra Platone e Aristotele

Iacoboni (i neuroni specchio, Bollati Boringhieri) racconta che le scoperte sulla comunanza percettiva e motoria nelle aree F4 e F5 del "macaco nemestrino" compiute negli anni ottanta, le stesse aree dove di lì a poco si sarebbero scoperti i neuroni specchio, fu in qualche modo anticipata da Merleau-Ponty, con un approccio filosofico "fenomenologico". La corrente, a cui aderiva anche Martin Heidegger, proponeva di "tornare alle cose stesse". Iacoboni riconosce in questo atteggiamento filosofico un'attitudine di fatto aristotelica che contrappone a quella platonica del "subire la seduzione del Santo Graal", del voler cioè "scoprire l'essenza ultima dei fenomeni, finendo così con l'impantanarsi nella riflessione astratta".
Nel caso di Feynman per esempio è sempre prevalso l'atteggiamento fenomenologico che nel fisico americano comunque è sempre stato finalizzato a mettere a punto sistemi di descrizioni e spiegazioni alternativi e innovativi, mentre Einstein ha utilizzato entrambi gli approcci: quello fenomenologico per esempio nel caso di tutti i lavori del 1905, ma anche quello platonico nella ricerca della relatività generale e delle teorie di unificazione, dove si è, in effetti, "impantanato".
L'orientamento fenomenologico, prosegue Iacoboni, "suggeriva di concentrare l'attenzione sugli oggetti e sui fenomeni del mondo e sulla nostra esperienza interiore di quegli stessi oggetti e fenomeni." Dunque consiste in pratica nel liberarsi di schemi dominanti anche se questi sembrano molto naturali, come per esempio l'idea che esistano nel cervello compartimenti separati per il movimento, per le percezioni e per le elaborazioni. Il "concentrarsi sulle cose stesse" cioè sulla fenomenologia, effettivamente ci può aiutare a liberarci di paradigmi che spesso agiscono anche "a nostra insaputa". Questo approccio coincide praticamente con il newtoniano "ipotesi non fingo" e, se esso non scivola nello sperimentalismo fine a se stesso, è solo grazie al fatto che la mente umana, la mente del ricercatore, è naturalmente e spontaneamente predisposta ad elaborare spiegazioni a dare un senso ai dati sperimentali ed a costruire teorie. Iacoboni racconta che quel gruppo di ricerca, l'équipe di Rizzolatti, non sprecò anni nel "tentativo di formulare regole computazionali astratte e complesse allo scopo di spiegare le osservazioni apparentemente bizzarre che andavano accumulando".
Questa affermazione ci ricorda invece che i metodi computazionali servono soltanto quando si può confidare su dei meccanismi certi, che in quel caso, essendo costituiti da uno schema preconcetto erroneo, non avrebbero mai potuto approdare a qualcosa di utile. In altre parole i metodi computazionali non possono servire per avere idee nuove su come è fatta la realtà e neppure per rendersi conto che tali idee sono necessarie.
Iacoboni conclude così la narrazione del percorso dal suo punto di vista di filosofo-storico della Natura della Scienza: “furono invece capaci di applicare alla ricerca neurofisiologica un approccio nuovo, indice di una mente aperta, approccio che io definisco «fenomenologia neurofisiologica» solo grazie a questa loro attitudine innovativa fu possibile rendersi conto che nel cervello percezione e azione sono un processo unitario.” Qui la "mente aperta" è consistita essenzialmente nel dare il giusto peso alle evidenze sperimentali e a teorizzare quel tanto che bastasse per avere un quadro coerente dei fenomeni, senza condizionamenti teorici impliciti o espliciti, ossia l'aver "lasciato parlare gli esperimenti" che però, come sappiamo bene, non produce proprio nulla se la mente non è ben aperta e predisposta. D'altra parte il sostenere che percezione e azione sono un processo unitario, più che una teoria vera e propria è una descrizione di come deve essere fatto in grandi linee un dato sistema complesso, il che prelude e prepara ad una ricerca teorica più approfondita che abbia quella forma o caratteristica come precondizione ineliminabile. Possiamo parlare di " forma teorica".
Ciò non dimostra, però, che il metodo platonico che pone l'obiettivo in uno scopo teorico, come forma della teoria desiderata o come metodo generale per costruire spiegazioni, sia sempre scarsamente proficuo se assunto come punto di vista metodologico. Non lo è stato, inutile, né per Einstein né per Vygotskij.
A proposito di quest'ultimo è interessante il paragrafo "spiegazione contro descrizione" da "il processo cognitivo" di Vygotskij, Bollati Boringhieri pag 95, dove si mettono a confronto due approcci della ricerca psicologica: quello fenotipico cioè descrittivo, e quello genotipico, considerato esplicativo, cioè rivolto alla ricerca degli effettivi rapporti dinamico-causali che per Vygotskij coincidono con la prospettiva evolutiva. L'analisi oggettiva per Vygotskij comprende una spiegazione scientifica delle manifestazioni esterne (idiosincrasie fenotipiche) e del processo in esame. Vygotskij dice: «la nostra ricerca sul linguaggio dei bambini piccoli ci porta al principio fondamentale formulato da Lewin: due processi fenotipicamente identici o simili potrebbero essere radicalmente diversi tra loro nei loro aspetti dinamico-causali e viceversa; due processi che sono molto vicini nella loro natura dinamico-causale potrebbero essere molto differenti fenotipicamente. L'approccio fenotipico categorizza i processi secondo le loro somiglianze esteriori. Marx commentò l'approccio fenotipico in una forma più generale quando affermò che "se l'essenza degli oggetti coincidesse con la forma delle loro manifestazioni esterne allora ogni scienza sarebbe superflua".»

Posso concludere che la concezione platonica, che si può trovare estrapolando la corretta visione di Marx, e la concezione aristotelica, esemplificata dalla corrente fenomenologica di Merleau-Ponty, sono entrambe assunzioni metodologiche valide nella ricerca su sistemi particolarmente complessi e rese di fatto coincidenti dall'essenza stessa della scienza, che è la ricerca del senso, cioè di spiegazioni capaci di giustificare, come minimo descrivendo in un quadro unico e coerente, i diversi dati empirici in nostro possesso.

In questo senso il cosiddetto pensiero computazionale si riduce a mero strumento tecnologico, successivo all'ideazione teorica, utile allo sfruttamento pratico delle teorie della natura per risolvere problemi, o alla progettazione combinatoriale degli esperimenti da fare, e nel gestire informazioni " massive". Ma NON a fornire la comprensione della natura e neppure della natura dei problemi che è pur in grado di risolvere. 

Trovo perciò veramente singolare che il " Computational Thinking", oggi pompato da Google come disciplina scolastica, sia subdolamente venduto come surrogato del pensiero critico e creativo scientifico e come tale accettato dalla miope e pessima scuola di Renzi (che ha tra l'altro avallato il taglio alle scienze sperimentali perpetrato dalle riforme precedenti). Si dovrebbe perlomeno considerare la lunga esperienza alla primaria con il LOGO e il secolare sforzo di Casadei dell'università di Bologna di integrare il pensiero computazionale a scuola (es. col prolog) con ben altre motivazioni e modalità (senza tagliare le scienze), competenze regolarmente ignorate dai riformatori occulti paraministeriali. 

Per questa ennesima supposta inflitta dall'alto al sistema educativo italiano esistono solo due spiegazioni possibili: la cecità, oppure il fatto che il calcolo computazionale nella nuvola o col device costa molto meno di laboratori e docenti che facciano praticare agli studenti il vero pensiero critico scientifico e la creatività controllata dalla realtà oggettiva, più difficile di quella virtuale; in più ci saranno già agenzie di formazione con la bava alla bocca, i soliti "amici del ministero", già pronte a guadagnarci, come fu per le LIM. Oppure, più probabilmente, ambedue le cose.

domenica 26 aprile 2015

Pensiero laterale e barometri

Stimolato da un post di FB sul pensiero laterale di deBono, associato a questa pagina "meme fasullo di Internet",
ho pensato di rivedere qualche vecchio ricordo su de Bono e di verificare la leggenda metropolitana su Bohr. Se fosse stato veramente Bohr, George Gamov avrebbe parlato copiosamente dell'episodio! 

Comunque quello studente così singolare, se ciò che racconta il prof. Calandra è vero, meriterebbe almeno un nome e cognome. Ma veniamo alla parte che mi interessa veramente.

De Bono ci ricorda che la scuola insegna solo a ricordare e riprodurre procedure. I nostri studenti dicono: "come si faceva questo?"
Li stiamo riducendo a riproduttori o " restitutori" di contenuti e procedure cieche (prive di significato).
Il pensiero laterale è invece un pensiero produttivo, che non è "ragionamento logico", ma sfrutta l'implicito, la mente viaggiante a ruota libera.
Innanzitutto è un grave errore pensare che i nostri studenti desiderino quel tipo di scuola che richiede di pensare liberamente e con la propria testa in ogni disciplina,  quando loro ritengono di saperlo fare a sufficienza per le loro questioni, per lo più non scolastiche, che li interessano. Dalla scuola si aspettano e preferiscono ricevere certezze, procedure da applicare ciecamente e senza coinvolgimento (a parte quello connesso con premi e punizioni), e si ribellano all'idea del rischio extra che sarebbe correlato alla sfida di un vero problema. Giustamente, considerano sufficiente il rischio di insuccesso che si corre nel riprodurre procedure certe. Punto di vista inevitabile e comprensibile, almeno finché il sistema di valutazione continuerà a premiare la quantità e la correttezza di risultati su prestazioni e non la qualità di processi, il coinvolgimento attivo, con percorsi e attività adeguati.
De Bono sottovaluta però l'aspetto evolutivo della mente. Il pensiero produttivo, o laterale, di un preadolescente creativo non è per niente lo stesso di quello di un adulto. I livelli di consapevolezza sono totalmente diversi se l'adulto ha sviluppato un pensiero per concetti. La consapevolezza, che permette di distanziarsi dalla propria creazione e riprodurla anche senza avere i pezzi sotto mano, e senza dovere ogni volta ricominciare tutto da capo, è data dal fatto di dare un nome alle cose, anche astratte, ossia dal pensiero per concetti. Sono i concetti che "catturano le intuizioni" e le mettono nella memoria semantica, rendendole accessibili al pensiero "verticale", logico che - come ammette lo stesso de Bono - è altrettanto importante di quello laterale. Sono sempre i concetti, le parole, a permettere di dare significato e trascendenza alle cose che la nostra mente produce in questo " spazio libero".

Ecco perché il problem solving e il metodo della scoperta puro e gran parte dell'ibse non funzionano.

Non fanno nulla per aiutare lo sviluppo del pensiero per concetti, che accompagna l'adolescenza se e solo se l'adolescente si trova nel l'adeguato contesto socioculturale. Non si tratta di sviluppare i concetti o insegnare i concetti, ma di sviluppare "strutture di generalizzazione" capaci di sistematizzazione a partire dalle strutture di generalizzazione che non ne sono capaci (pre-concettuali) e che si sono sviluppate precedentente. Una "strumentazione" mentale tanto nuova e diversa da quella del 12-enne quanto il pensiero che produce è diverso da quello che ri-produce. La scuola non è sufficientemente (concettualmente) consapevole delle differenze  tra stadi di sviluppo e tra le strutture di generalizzazione che sono state oggetto delle indagini sperimentali di Vygotskij, pluriconfermate da esperimenti successivi, e trasformate in una teoria socioculturale coerente. 

La scuola va avanti ancora per tentativi ed errori, più che altro è brava a lamentarsi, con insegnanti che si basano esclusivamente sulla propria esperienza, costruita per lo più tutta su una stessa fascia d'età, dove invece la teoria socioculturale fornisce oggi il necessario quadro teorico per non considerare tutti gli studenti dell'istruzione secondaria così come si considerano essi stessi: "sempre uguali nel tempo" a dispetto di ogni evidenza o, peggio, "uguali all'insegnante", dato che "la logica è logica, ed è uguale per tutti" (come pensa la maggior parte dei colleghi di matematica).

Quindi attenzione ad appoggiarsi troppo sull'affermazione finale del ragazzo: "ne ho abbastanza dei professori che vogliono insegnarmi come pensare". Molti colleghi saranno già pronti a prenderlo come alibi per non fare nulla e degradare la conoscenza della psicologia dell'età evolutiva a sterile " psicologismo". È nostro compito invece costruire una didattica per l'apprendistato cognitivo e insegnare proprio a pensare meglio, costruire teste ben fatte, e non "rispettare" la presupponenza di una minoranza di studenti giustificabile solo in presenza di professori che ottusamente "pretendono 'LA' risposta "giusta" (quella da loro conosciuta e che ne esclude altre), ossia misurare la pressione al livello stradale e in cima al grattacielo e poi applicare la formula giusta.

POST SCRIPTUM: collaborazione analogico - verbale
Durante la mia 2R domenicale (running reflection) mi sono reso conto che con questo post rischio di dare l'impressione che il quadro teorico di Vygotskij costituisca un punto d'arrivo definitivo. Niente di tutto ciò. La descrizione di V. si riferisce allo sviluppo dei concetti nel contesto del pensiero verbale. Ho pensato infatti che molto si potrà ancora fare per avere una descrizione valida integrando la teoria di V. con concetti più moderni. Il fenomeno della transizione dalla struttura di generalizzazione per pseudo-concetti (complessi) a quella per concetti propri, in particolare, è sempre una progressione lenta e non qualcosa che "scatta" all'improvviso da una modalità all'altra. Se vediamo una persona creativa preadolescente come una persona che ha buone capacità di rievocare pezzi della propria memoria episodica (completa al livello percettivo ed emotivo, piena di senso ma non prettamente verbale, e scarsamente consapevole), rilevando analogie (pensiero analogico) sull'oggetto problematico e di riflessione, e se consideriamo che lo stesso soggetto, qualche anno dopo potrebbe aver sviluppato un gran bagaglio di conoscenze dichiarative senza che queste abbiano alcuna capacità di interagire con le prime, allora non è possibile che il tipo di sviluppo descritto da V. non sia altro che l'avvio di una sorta di "collaborazione" tra il pensiero verbale e quello analogico, ricco di immagini e percezioni statiche? Il pensiero verbale immette degli statement di conoscenza dichiarativa, accademica, in loop fonologici della memoria di lavoro, prolungandone in tal modo il tempo di permanenza, mentre il pensiero analogico, implicito, che lavora in parallelo e persino quando non siamo del tutto coscienti, si dà da fare a provare associazioni e testarle fino a riuscire a "sovrapporle" alle parole, come nubi che finalmente riescono a radunarsi e dar luogo alla pioggia fertilizzatrice.
Credo che questo processo, che richiede aiuto, tempi lunghi ed esperienze di successo, corrisponda con quanto V. fa avvenire nella zona di sviluppo prossimale. In altre parole il pensiero creativo di un adulto che ha una buona padronanza nell'uso evocativo di concetti astratti estende di molto il campo di esperienza da cui attingere, le possibilità di controllo reciproco tra le due modalità di pensiero, aumentando la creatività vera (che non è quella artistica, ma quella permette di riconoscere e risolvere problemi inediti). Questa "collaborazione", una volta divenuta in qualche modo consapevole, permette anche di approcciare in modo diverso lo studio di questioni teoriche astratte, perché lo studente non si accontenta più di relazioni puramente logiche o gerarchiche, o di definizioni, tra i concetti, ma pretende di ricostruire lo stesso senso concreto che caratterizza altri concetti di cui ha esperienza più diretta. Passa cioè dalla conoscenza puramente dichiarativa a quella per lui significativa.