giovedì 13 novembre 2014

Homo faber faber vs homo sapiens sapiens vs CICAP

Mi interessa il modo che il CICAP intende adottare per una campagna anti-pseudo-scientifica rivolta al PNL.

Ancora oggi, nella maggioranza dei corsi di laurea, specie quelli a cavallo tra scienza e tecnologia quali ingegneria, la tendenza normale della tradizione pedagogica è che le teorie siano "fornite" come "bagaglio culturale imprescindibile" per chi deve occuparsi di questioni tecniche che a tali teorie sono associate in un qualche modo, anche se a volte questa associazione è poco chiara e data per lo più per scontata. In questo modo le teorie sono "fossilizzate" e si trasmettono per tradizione e senza alcuna critica, anche quando ce ne sarebbe bisogno come nel caso della PNL. Dopodiché si passa a lavorare sulle applicazioni pratiche, che sono il vero fine di chi si prepara professionalmente, e dove entra in gioco la vera esperienza professionale di chi insegna. La teoria è giustamente dimenticata in questa seconda fase del training, la più rilevante anche in termini di tempo dedicato. Per cui si tende a perdonare la scorciatoia iniziale, tanto più quando la formazione sulle applicazioni ha risvolti estremamente utili per la società.

Il secondo aspetto, che secondo me entra in gioco in questa "campagna", è che le teorie cognitive, anche se pretendono di avere basi neuro-scientifiche, saranno sempre delle pseudo-teorie, suscettibili di critica del CICAP. Non posso dirlo con certezza per il futuro, ma certamente per quello che abbiamo oggi in circolazione in fatto di teorie cognitive, a cui sono estremamente interessato come insegnante, posso dire che siano tutte pseudo-scienze. Ogni teoria che riguarda le cosiddette scienze umane, sociologica, etologica ecc. ha oggi caratteristiche pseudo-scientifiche. Ma allora, se queste pseudoscienze dovessero "dare retta" al CICAP, come farebbero a progredire? Il fatto che siano "pseudo" non comporta automaticamente che siano inutili le applicazioni derivate.

Per far capire bene dove voglio arrivare (che non è negare la funzione del CICAP), faccio un esempio neutrale e innocuo tratto da un'applicazione pedagogica: le mappe mentali di Tony Buzan si baserebbero su una teoria di Tony Buzan degli anni 60 (era cenozoica in fatto di pseudo-scienze cognitive) che non ha alcun credito né risonanza tra i ricercatori di oggi (e in realtà nemmeno di allora). Però l'inventore della tecnica delle mappe mentali ha "dovuto" ammantare l'invenzione di conoscenze teoriche sulla specializzazione dei due emisferi per aumentare il "prestigio", così come la Roma imperiale "doveva" vantare origini nella Grecia antica. È la tecnica dell'autosuggestione dei venditori di pentole antiaderenti e materassi con memoria di forma, che il CICAP conosce bene. La stessa cosa in gran parte si può dire delle mappe concettuali di Novak basate in modo solo leggermente più trasparente sulla "pseudo-teoria" dell'apprendimento significativo di Ausubel.

La vera questione quindi è: "che cosa sta di fatto progredendo ed evolvendo?" oppure: "di cosa parliamo di fatto quando parliamo di quelle teorie?"

La risposta è semplice. Lo sviluppo delle tecniche ha una vita propria che prescinde in modo totale dalle pseudoteorie attraverso le quali le tecniche sono state originariamente giustificate. In questa evoluzione possono scaturire applicazioni utili per l'uomo, utili per la finanza, queste ultime non necessariamente benefiche per l'uomo in sé. Insomma, luci e ombre. I vari tipi di mappe, didatticamente parlando, hanno più luci che ombre. Per le pentole antiaderenti e i "materassi della NASA" c'è un bilancio tra luci e ombre.
Il PNL ha, rispetto alla iniziale (forse anche attuale) applicazione in psichiatria, uno stragrande eccesso di ombre. La teoria forse è sbagliata e da rivedere, ma la tecnica funziona eccome!!! viene utilizzata in talmente tanti casi, aventi in comune la manipolazione delle persone, che non possono esserci dubbi. Le aziende non spenderebbero i soldi che spendono in formazione dei suoi venditori se non funzionasse. Basta vedere come funziona la televisione, un notiziario, un format serale, per capire come questa tecnica per la circonvenzione delle persone sia progredita.

In conclusione, da socio CICAP, mi domando: a cosa serve in simili casi accanirsi sulla distinzione scienza - pseudoscienza?

Non possiamo mica negare che nella civiltà umana la tecnologia si sia sempre evoluta per conto proprio, e lo abbia fatto anche quando la scienza non esisteva! 

In questo caso il ruolo del CICAP e di qualunque persona saggia può essere solo critico e dialettico, non certo dicotomico.

E la società umana può essere tanto più idonea alla vita dell'uomo quanto più le scienze e insieme le pseudo-scienze insieme riescano a tenere sotto controllo lo sviluppo tecnico-legato alla finanza e quanto meno si verifichi il contrario. Come accadrebbe senza ricercatori "disinteressati", cioè interessati solo alla conoscenza e alla comprensione del mondo e dell'uomo, qualora cioè le teorie e le pseudo-teorie fossero lasciate nel dimenticatoio come fossili inutilizzati.

venerdì 5 settembre 2014

Concept change, SCIIS e giocare alle teorie scientifiche

Mentre cercavo delle fonti ancora acquistabili sul progetto SCIIS mi sono imbattuto in questo articolo di ricerca. http://files.eric.ed.gov/fulltext/ED242769.pdf 

La mia impressione generale è che le metodologie basate sulla scoperta e sui cicli di apprendimento abbiano cercato di correggere le concezioni alternative degli studenti con interventi ad hoc "dall'esterno", mentre i cambiamenti sono più spesso il risultato di adattamenti "interni" e graduali (come anche trovato da Smith e Lott). 

L'articolo è uno dei tanti che riconosce che, anche nel migliore insegnamento, questi interventi comportano una fatica immensa ma producono scarsi risultati. 

La limitazione non riguarda specificamente le metodologie costruttiviste, ma qualunque idea pedagogica che presuma di basare il suo intervento sulla conoscenza preliminare dettagliata delle cognizioni di uno specifico alunno isolatamente dal contesto sociale e indipendentemente dal livello di sviluppo delle sue strutture di generalizzazione (Vygotskij), dei sui tipi di lingua pedagogica e gesti mentali (De la Garanderie) o, in sintesi, del tipo di linguaggio e discorso interiore e della capacità del soggetto di passarlo in consapevolezza. 

Il metodo del conflitto cognitivo, ossia l'attacco diretto alle misconcezioni portato dall'esterno non è efficace perché alla sua base assume una dominanza di pensiero razionale che invece non c'è. 

La quota razionale, il pensiero per concetti "consapevole", può essere sviluppata nel periodo dell'adolescenza, ed è importante che ciò avvenga. Sviluppare un pensiero per concetti è il più importante degli obiettivi della scuola secondaria. 

Ma nel frattempo, e forse anche dopo, non sarà mai auspicabile né conveniente adottare processi o "rimedi" educativi razionali di "aggiustamento" per ottenere modificazioni stabili o "correzioni" del comportamento cognitivo su ciascuna specifica questione, su ciascuno studente, senza far nulla per modificare la quota spontanea, irrazionale ed emotiva. 

Ciascuno di noi ha un mondo mentale di raffigurazioni e idee implicite della realtà, che gestisce secondo delle abitudini cognitive che si sviluppano lungo tutta la vita, senza peraltro mai arrivare a raggiungere non dico il 100% ma neppure, probabilmente, il 50% della consapevolezza. 

La quota spontanea, dunque maggioritaria per tutta la vita, può essere modificata "volontariamente" solo prendendo atto che oltre alla logica e alla razionalità esiste in noi un cervello che procede per tentativi ed errori, un "generatore di configurazioni casuali" zombico, poco intelligente, che accelera le procedure di associazione allo scopo di determinare o percepire, innanzitutto, se l'ambiente in cui si trova l'organismo è ostile o favorevole all'omeostasi. 

Allo scopo, la prima cosa che questa parte della nostra mente cerca di evitare, è la generalizzazione, perché "lei" "sa" benissimo che i fattori di rischio sono imprevedibili e incostanti, per cui il "fiuto", la "prima impressione" e il rapido e conseguente giudizio binario, meritano sempre di essere presi in considerazione al di là di ogni logica del "pensiero lento", razionale. 

Questa è una cattiva notizia perché, ad esempio, lo studente che effettua o osserva una dimostrazione sperimentale, non generalizzerà automaticamente le evidenze ad una classe di fenomeni simili, ad un principio. E non basteranno le parole dell'insegnante a garanzia. 

D'altra parte non possiamo realizzare tutte le esperienze possibili e sovraccaricare la sua mente di tutte le evidenze possibili e in principio necessarie a "dimostrare" qualcosa. 

Quindi non dovremmo aspettarci mai, o pretendere che un problema cognitivo specifico sia risolvibile una volta per tutte e che non debbano esserci "ricadute" verso concezioni alternative pregresse, in particolare cambiando contesto o venendo meno la presenza e la mediazione dell'insegnante

(a volte lo studente deve dire una cosa scorretta, aspettarsi la negazione dell'insegnante, per poi dire la cosa giusta. Questo è un fatto normale, un esempio di come il cervello sfrutti l'interazione sociale e non preferisca a priori la logica e la scansione degli archivi della memoria, per cui qualunque metodo è adatto per arrivare a delle previsioni corrette - vedi P.C. Rivoltella - L'uomo è un animale sociale e di solito si affida ai suoi conspecifici senza temere alcunché. In altre parole, l'evoluzione non ha favorito il tipo di intelligenza necessario a superare test individuali, e la nostra società, e tanto meno il sistema educativo, dovrebbe evitare nel modo più assoluto di attribuire meriti sulla base di tali test). 

Semplicemente come insegnanti dobbiamo smettere di considerare la "ricaduta" o la dimenticanza del singolo studente come un'esperienza frustrante e dobbiamo smettere di pensare che se il nostro programma segue uno sviluppo logico, intellegibile e razionale allora automaticamente ciò lo renderà digeribile e direttamente trasmissibile senza intoppi, in modo additivo e stratificabile, come mani di vernice. 

La buona notizia è che la quota spontanea o implicita del nostro pensare è costruita socialmente e culturalmente così come quella esplicita. Questo significa che essa è influenzabile attraverso le pratiche, le interazioni, il gioco, il linguaggio dialogico tra pari. Quindi la scuola, e certi suoi progetti, hanno una ragione di esistere. 

Un'altra cattiva notizia è che in tal caso è inutile o impossibile parlare di concept change di un singolo individuo; piuttosto la cosa acquista un senso all'interno di una comunità di apprendimento. Per quanto riguarda il singolo individuo il massimo che possiamo fare è avere un approccio "probabilistico". 

Anche la costruzione delle unità didattiche deve passare da un approccio basato sulla programmazione ad uno più "live" e quindi probabilistico, anche se ciò crea dei seri problemi ai sistemi di istruzione formali basati sui syllabus. 

Le conseguenze (pratiche) di queste semplici "rivelazioni" sulla natura del pensiero umano sul come si debba educare e porsi nei confronti dell'educazione mi sembrano quasi scontate. 

In particolare si evince che ciò che conta maggiormente è la quantità di attività che viene fatta, la capacità che essa abbia di suscitare manipolazione, dibattito e ascolto reciproco e di diventare via via sempre più sofisticata, mettendo in campo sempre più aspetti sistematici e concettuali del pensiero. 

In questo senso si possono inserire marchingegni e macchine operatrici ed altri esperimenti di investigazione scientifica anche a livelli di scuola molto diversi tra loro. Come metodologia per educare il pensiero implicito e immaginativo che servirà e si svilupperà per tutta la vita.

domenica 31 agosto 2014

Cargo Cult Education

Ho finalmente ritrovato con piacere dove avevo letto della "Cargo Cult Science" di Feynman.
L'argomento costituisce l'ultimo capitolo del classico "Sta scherzando, Mr. Feynman!", da 25 anni nella mia biblioteca.

La versione in inglese del capitolo si può leggere a questa pagina, mentre in italiano in questa.

Può essere interessante leggere questo articolo di Carlo Bernardini su "La Repubblica" del 1988, tanto per domandarsi cosa sia cambiato da quei tempi "non sospetti" ad oggi.

Per quanto riguarda la "Cargo Cult Science", altri riferimenti interessanti, anche a studi antropologici che volendo potrebbero dirla lunga sulla genesi di ogni religione, si possono reperire dalla pagina di wikipedia.

Ma ciò chi mi interessa lasciare inciso in questo post è quella che ritengo essere una forte analogia tra la Cargo Cult Education e la Cargo Cult Science.

La cargo-cult education è equivalente alla trickle-down education: il sapere si trasferisce per "percolazione", da chi sa molto a chi non sa nulla, così come i teorici dell'economia liberista sostengono che l'economia dei paesi ricchi lascia sempre cadere delle briciole, sotto al tavolo, dalle quali alla fine traggono beneficio anche quelli poveri. (Il termine "trickle down" deriva dall'economia politica, ed è stato utilizzato da quel genio di Dennett come metafora del creazionismo inteso come disegno intelligente indispensabile per spiegare tutto ciò che sembra essere intelligente o competente).


In realtà, così come le canoe polinesiane non si sono evolute grazie ad un disegno tecnico pervenuto in bottiglia dal futuro, ma in base all'azione delle forze della natura che hanno interferito con l'evoluzione dei relativi memi tecnico-culturali, nell'arco di secoli, così uno studente non arriva ad un pensiero concettuale per imitazione diretta di quello sotteso alle lezioni impartite dal docente, ma bensì per tentativi ed errori.

Il punto è che i tentativi e gli errori bisogna farli. Invece la scuola è impostata in modo tale da evitarli ed esecrarli, soprattutto perché il sistema delle valutazioni è fondato sulla performance e sulla prova uguale per tutti (due idiozie che potrebbero essere facilmente superate, ma che invece si danno per scontate come garanzie di merito ed equità). Ciò si verifica inoltre perché, culturalmente e tradizionalmente parlando, le società più avanzate non sono riuscite a superare l'istruzione come apprendistato, e si ritiene più sensato immaginare l'individuo come un prodotto industriale, per il quale il rispetto di uno standard è garanzia di qualità, e per il quale non ci si possono permettere rischi, come se gli studenti di una classe fossero una partita di pomodori da trasformare in conserva.

In effetti, per la specie umana il "sapere rituale" è il primo che si impara, è un elemento di socialità, il più facile da recepire e mettere in pratica. Quindi il più facile anche da insegnare. Quello che si deve dire, o quello che si deve fare è ciò che gli altri già dicono e gli altri già fanno. È consistente in ciò che l'insegnante ti dice di dire o fare. Non è implicata alcuna consapevolezza (né per l'uno, né per l'altro, purtroppo). Di fatto queste sono le prime condizioni per la sopravvivenza di un individuo che fa parte di una specie altamente sociale, e dove il gruppo ha capacità difensive da ogni minaccia esterna ben superiori a quelle possedute dal singolo, grazie al rispetto di questi rituali. Come ammette Dennett, non occorre "comprendere" ciò che si assorbe dalla società per essere competente ai livelli "basali". La comprensione concettuale disinteressata, la filosofia e le scienze sganciate da possibili applicazioni sono un "lusso" dal punto di vista della logica dell'evoluzione puramente biologica e allo stesso modo sono considerate anche della scuola di massa.

Se non andiamo oltre questo stadio, il risultato è ciò che osserviamo nelle nostre classi tutti i giorni: gli studenti studiano per sapere cosa si deve dire o cosa si deve fare. Dicono di aver capito quando sanno cosa devono ri-dire o ri-fare. L'insegnante si trova spesso nella stessa condizione di chi deve spiegare all'isolano che i due mezzi gusci di noce di cocco messe alle orecchie e le canne di bambù non possono funzionare come cuffie e antenne e far arrivare l'aereo che paracaduta beni e vettovaglie, come racconta Feynman. Non riesce a spiegarlo, perché non si può spiegare la differenza tra comprensione concettuale e "conoscenza rituale" a chi non possiede ancora un pensiero per concetti, più di quanto non si possa far capire agli isolani che c'è qualcos'altro oltre alla forma esteriore delle cose e che non sono i riti e la magia a causare gli eventi attesi, se essi sono persuasi del contrario dall'esperienza tramandata.

L'analogia si ritrova soprattutto in ciò che può e deve essere fatto di diverso per passare dall'apprendimento delle parole rituali al pensiero concettuale - oggettivante, che conduce ad un'approccio alla conoscenza che si fonda sia sulla cultura, sia - fortemente - sull'integrità intellettuale individuale. Ci si arriva per piccoli tentativi ed errori, impossibili da programmare secondo i criteri della qualità, ma che possono verificarsi in un contesto educativo - o condizioni di governance - in cui siano dati spazio, libertà e rilevanza allo studio dei casi e ad ogni analoga forma di Inquiry Based Learning. Spazio significa che almeno il 60% del tempo deve essere dedicato a queste attività; libertà significa che la valutazione non deve dipendere dalla performance o dalla maggiore o minore abilità individuale, fattori che disincentivano chi ha più bisogno di cimentarsi, e li fa regredire al più rassicurante studio dei puri rituali. La valutazione del "profitto" deve dipendere dalla quantità e qualità dell'impegno dedicate nel prendersi in carico i casi e nel collaborare al loro studio, mentre quella formativa deve restituire la consapevolezza del saper fare qualcosa in più, "misurata" sul singolo alunno. Rilevanza, infine, significa che questo contesto di socializzazione dei "rituali" disciplinari, e di spazi e libertà per attivare tentativi ed errori funzionali a connettere parole e simboli apparentemente arbitrari con la realtà,  sia organizzato a livello di scelta pedagogica di istituto, e non di qualche sparuto insegnante. In queste condizioni solo sarà possibile che uno studente, invece di approcciare la conoscenza con il "che cosa devo saper dire su questo argomento" si interroghi su "Cos'è questa cosa, di che si tratta, cosa significa, qual è la sua essenza, che implicazioni o interrogativi comporta". 

Il fatto che i tentativi ed errori non sono ciechi, ma guidati da principi di integrità, costituisce il "succo" del metodo-non metodo educativo, ciò che può essere insegnato con l'esempio e la pratica sul lungo periodo e all'età giusta. Questi principi li estraggo ed adatto dal discorso di Feynman.

Totale onestà: per esempio, quando si arriva a conoscere qualcosa, bisogna cercare di portare anche esempi o dettagli in cui la conoscenza non sia valida, altre cause che possono portare agli stessi risultati, diversi da quelli studiati, errori possibili. Non si deve soltanto portare acqua al proprio mulino.

Autocritica: portare tutti i fatti che contraddicono un argomento, e non solo quelli che lo supportano.

Disponibilità (popperiana) alle falsificazioni: una data spiegazione o interpretazione convince gli altri, e se stessi, se oltre a dar conto del fatto su cui la abbiamo costruita, riesce a inquadrare altri fatti che non avevamo considerato e che tuttavia sono verificabili. 

Ricercare e rivelare i meccanismi, le spiegazioni efficienti: se una cosa funziona, cioè se sappiamo fare bene qualcosa, non usiamola per fare bella figura, ma cerchiamo piuttosto di spiegare il suo meccanismo, perché ci siamo riusciti, o dire candidamente che in realtà non sappiamo il perché. La magia non esiste.

Rifiuto dell'autorità precostituita: 1° non controlliamo i possibili errori solo quando i risultati si allontanano da quanto ottenuto da qualcun altro, ma facciamolo in tutti i casi. 2° non facciamo una cosa che riteniamo errata, diventando disonesti verso noi stessi, solo per accontentare chi ce la richiede. 3° facciamoci in quattro per dimostrare dove crediamo di aver sbagliato anche se qualcun altro non ritiene necessario il nostro zelo. 4° ripetiamo e sottoponiamo a nuove prove, se possibile in contesti diversi, anche ciò che ci hanno detto che andava bene.

Principio di realtà: quando i fatti si dimostrano diversi da ciò che avevamo immaginato, non cambiamo i fatti.

Applicando questi principi di integrità come guida ai nostri tentativi ed errori di comprendere il vero significato delle "parole rituali" si può diventare, chi più chi meno, chi prima chi poi, pensatori indipendenti, capaci di comprendere che un concetto non è un rituale, un modo di dire, una convenzione, ma qualcosa che ha una relazione precisa con i fatti, che possiamo anche controllare e usare a  vantaggio nostro e di tutti. 
L'istruzione secondaria non ha nessun valore, in caso contrario, qualora non riesca a realizzare questo raccordo tra concetti astratti, scientifici e simbolismi con i concetti-oggetti della vita quotidiana, e lasci immutato nello studente il rapporto con i fatti del vissuto così come direttamente generato dall'esperienza, senza mediazione alcuna (sapere esclusivamente "pratico").

Feynman include, tra le false credenze, il nostro ritenere di conoscere un buon metodo per educare (sottinteso: attraverso i nostri interventi diretti). In effetti il metodo dell'onestà totale o dell'integrità chiarisce che questo metodo in sé non esiste, e che è solo attraverso piccoli errori e correzioni autonomamente fatte (quelle che Dennett chiama "dumb happenstance" o piccole fortuite combinazioni) che un alunno riesce ad educare se stesso, e che l'insegnante sia semplicemente tenuto a determinare le opportunità per far sì che ciò accada e a favorire il suo impegno costante, facendo sì che anch'egli diventi ugualmente consapevole e preoccupato della presenza di un effettivo rapporto tra certi "termini rituali" e la realtà; non si accontenti di sapere "ciò che deve dire". Sia, cioè, intellettualmente onesto.

Pessima sarebbe una società dove i cittadini dovessero scoprire solo dopo aver ricevuto l'istruzione formale, da adulti e solo dopo aver raggiunto una condizione autonoma e pienamente responsabile, che tra le parole rituali e gli eventi del mondo reale esiste una connessione causale di tipo concettuale, ma a questo punto soltanto limitatamente ai loro interessi personali, all'esperienza derivante dalla cosiddetta "scuola della vita".
Quello che otterremmo sarebbe... la moderna società egoista occidentale, la nostra! fondata sulla scuola dei rituali o "cargo cult education", in cui prima si spera che le noci di cocco e le canne di bambù facciano arrivare ancora gli aerei e i paracadute; che i contenuti ripetuti nelle interrogazioni e nelle verifiche, senza alcuna effettiva consapevolezza dei significati, possano un giorno essere utili fuori dalla scuola. E poi si scopre che l'integrità intellettuale, faticosamente e tardivamente conquistata, non va di moda, o è addirittura punita, e deve essere accuratamente celata nel profondo della coscienza.

PS1 Non sono convinto, tanto quanto lo è Dennett, che la "conscious awareness", la comprensione profonda, il limite estremo della capacità umana di oggettivazione della realtà attraverso il pensiero scientifico, siano semplici livelli di competenza più avanzati e qualitativamente analoghi al sapersi ben lisciare il pelo di un gatto. Anche se sono certo che siano il prodotto dell'evoluzione, non mi sento di poter facilmente liquidare John Searle, come fa Dennett, (Searle sostiene una differenza di fondo tra elaborazione sintattica e semantica, e che la "sort of intelligence" e i computer siano limitati, la prima evolutivamente e i secondi come evoluzione e come incarnazione biologica, quindi incapaci di elaborazione semantica come gli umani). Credo sia necessario lavorare di più su come il linguaggio influenza profondamente la realtà in cui viviamo, nonostante ciò vada evidentemente a minare il senso dell'oggettivazione e l'idealismo scientifico di Feynman.

PS2 Credo che la Cargo Cult Science sia qualcosa di molto più comune di quanto si pensi. Se è vero che essa consiste essenzialmente nell'illusione ingenua che a determinate configurazioni superficiali siano direttamente connessi determinati effetti pratici utili, in modo puramente "additivo", senza cognizione degli effettivi meccanismi esplicativi (rapporti di "implicazione", secondo Feynman), allora questo modo di concepire la noosfera è esattamente quanto ricreato dalle tecnologie, specie quelle delle "App". Per sfuggire a questa logica e restare umani basta ricordare che la nostra intelligenza si è evoluta proprio per riuscire a creare quelle connessioni tra configurazioni del pensiero e i vari applicativi "utili" finali, che la tecnocrazia ci vuole evitare nel venderci le app e l'illusione che la vita si possa migliorare attraverso la padronanza degli strumenti tecnologici. Ricordare che se ad una scimmia diamo canna da pesca, lenza, ami, galleggianti ed esche, essa non prenderà pesci, ma al più mangerà le esche. In questo senso, non sono neppure le "augmented realities" che ci fanno conoscere meglio e più in profondità.

giovedì 12 giugno 2014

Tanto per non perdere il vizio...

Caro blog... ti ho abbandonato da parecchio, ma ora devo trovare il tempo per parlarti di questa congiunzione astrale di eventi.

Ieri, mentre con i ragazzi del quinto CH simulavamo possibili domande stimolo e risposte sugli acidi nucleici, in preparazione all'esame, è venuto fuori, non senza imbarazzo da parte mia, che nessuno, me compreso, sapeva se il doppio filamento del DNA è unico oppure no, anche laddove ci sono 46 cromosomi, cioè "grovigli" o "matasse", "superavvolgimenti" di DNA, numerati e distinti dalle forme caratteristiche, a X, a Y, ecc... In altre parole, ci sono 23 coppie di molecole separate di DNA oppure una sola, comprendente porzioni di collegamento tra un cromosoma e l'altro, invisibili al microscopio? Se così fosse, il DNA sarebbe come una collana di cromosomi, ma non mi risulta di aver mai visto una rappresentazione di questo genere. I cromosomi, sempre considerati come entità separate, si formano dalla cromatina, rendendosi visibili solo durante la riproduzione cellulare, poi si "segregano", si aprono, si duplicano, si riavvolgono separati in due antipodi e infine in due nuclei distinti ecc. Tutto ciò sembra essere più compatibile con una visione a cromosomi separati che non tutti legati in una "singola collana".

Mentre pensavo tutto questo, mentre constatavo che per i ragazzi il DNA e i cromosomi abitavano su isole lontane del Pacifico e che, come sempre, nessun problema di connessione era anche solo lontanamente ravvisato, mi rendevo conto all'istante che questo tassello della conoscenza non ce l'avevo. Era importante, eppure non ce l'avevo. E non ce l'avevo perché da nessuna parte, tra i tanti testi che nel tempo mi è capitato di leggere, questa informazione era scritta in modo esplicito, o almeno con un enfasi tale da parlare non solo di come le cose della realtà stanno, ma anche di come potrebbero stare, ma non lo fanno (e magari anche dire perché non lo fanno).

Il problema è sempre lo stesso: i libri sono scritti da scienziati che hanno il focus dell'attenzione su questioni ben più complicate, e può capitare che ne dimentichino alcune che essi conoscono da sempre, senza esserne mai stati veramente consapevoli; oppure sono scritti da insegnanti che assemblano tutte le informazioni, le "conclusioni" del sapere più importanti, con il criterio del canone dei contenuti tradizionali, in cui la connessione tra grandi blocchi, o tra "superavvolgimenti della conoscenza", ha scarsa rilevanza. L'importante è che il docente che adotta quel libro trovi "le cose che gli alunni devono sapere", all'esame di stato o ai test di ammissione dell'università.

Se potessi veramente scegliere io, almeno con i più grandi, adotterei sempre i testi del primo tipo e fonti originali, perché la probabilità che una risposta ad una domanda sia trovabile leggendo nel dettaglio e tra le righe, quando non esplicitamente fornita, è consistente. In un testo dell'altro tipo il "tessuto" è ben diverso. È la riproduzione carnevalizia della tuta protettiva del motociclista famoso, dove tutti i logo degli sponsor sono perfettamente riportati, ma dove andando a vedere la trama, per tentare di capire la robustezza e la coerenza dell'insieme, non si riesce di trovare proprio nulla di più fine.

Ma, mi si dice, non si possono adottare o usare simili testi! Perché in questi manuali: "ci sono troppe cose che non si devono fare e altre che invece 'mancano' e potrebbero essere richieste, e poi perché un testo dove occorra studiare sistematicamente e 'ritrovarsi' è fondamentale, mentre l'informazione 'distribuita' crea caoticità e disorientamento. E sopratutto perché questi testi sono troppo difficili!"

Ma difficili per chi? e cosa succede invece con quelli "facili"?

Si sta nascondendo sotto il tappeto il vero problema, cioè l'alfabetizzazione, che va di pari passo con lo sviluppo delle capacità di pensiero e che dovrebbe essere l'occupazione principale della scuola nell'età di transizione.

Chissà perché, chi fa affermazioni di questo tipo, sistematicamente imposta la lezione sul suo sapere, sul suo canone, sempre lo stesso dal primo all'ultimo anno di insegnamento, di solito lo stesso ricevuto nella sua formazione, sostanzialmente ignorando il contenuto dei libri. Anche perché deve essersi reso conto, da esperimenti di lettura in classe, che i ragazzi non comprendono tramite la lettura, nella lettura, mentre sembrano capire meglio il parlato, un linguaggio più ricco di intonazione ed espressione, meglio se semidialettale, che lo rende più facilmente recepibile e significativo. Perciò parlano, fanno lezioni frontali magistrali, si ritengono sufficientemente ricompensati dal fatto che i ragazzi riescono a ripetere brandelli di quella conoscenza fuori da ogni contesto, dal fatto che essi ripetono alcune delle loro stesse parole e da ciò, estrapolando indebitamente, deducono l'esistenza di una qualche comprensione concettuale.

Il tutto conquistato senza passare attraverso la scrittura, l'uso di segni, così difficile per quei "poveri ragazzi", con i loro zaini-poggiatesta, a proteggere i libri dall'apertura, durante le lezioni magistrali.

Quei poveri... semianalfabeti che - adesso, maggiorenni e appoggiati dagli stessi colleghi - pretendono (forse giustamente, a questo punto) che anche l'esame richieda loro di ripetere brandelli di conoscenza, e non di costruire un pensiero, di argomentare. Ragazzi per i quali, forse per il semplice fatto di esseri iscritti ad un istituto tecnico, è stato decretato tre o quattro anni prima che le loro facoltà mentali, sviluppate fino allo stadio preadolescenziale, potevano andare bene per affrontare con successo le fatiche dello studio, ed arrivare così immodificate fino all'età adulta.

Ma, tra tutte queste riflessioni che costituiscono il mio sfondo continuo, l'unica veramente emergente dal problema dei cromosomi, era solo di utilizzare l'occasione per insegnare, ancora adesso, dopo la fine dell'anno scolastico e dopo aver fallito in tre anni di inutili tentativi, ciò che veramente conta più di ogni altra cosa: insegnare la dedizione e l'umiltà per la conoscenza. E anche che il sapere è una cosa che ci si può costruire solo ponendosi domande, e non aspettandosi che ci sia qualcuno che ti riempie la testa delle "cose che dobbiamo sapere"... perciò ho ammesso il mio "non sapere", ed ho iniziato a cercare informazioni alle voci DNA e Cromosoma di Wikipedia. Dove ho trovato sempre riferimenti al singolare per "la" molecola del DNA e al plurale per "i" cromosomi delle cellule eucariote. Tutti ciò, insieme a un riferimento all'ordinamento dei cromosomi, sembrava suggerire una struttura a "collana", che in seguito ho smentito leggendo a casa, dal Lehninger (uno di quei testi scritti, almeno alle origini, da scienziati) che "ogni cromosoma contiene una sola, grande molecola di DNA a doppia catena". Nel frattempo ho lasciato i ragazzi con il dubbio e l'impegno ad approfondire, perché dalle pagine di Wikipedia e ancor meno dal loro testo, non potevano desumersi che degli "indizi", ma nessuna certezza.

Dopo di che, a casa, ho ripreso la lettura del libro "La scuola non serve a niente", di Bajani, trovando tra altre cose interessanti, questa lettera a La Repubblica di Massimo Recalcati, del 20/9/2013, e di cui riporto lo stralcio che maggiormente condivido:

"Agatone, l'allievo, si siede vicino al maestro coltivando l'illusione che il suo cervello sia un contenitore dentro il quale Socrate dovrebbe versare il liquido del suo divino sapere. È l'illusione che abita ogni scolastica dell'apprendimento. Essere un recipiente passivo che il sapere del maestro può riempire sino all'orlo. Ma Socrate si nega ad Agatone. Non accontenta la sua aspirazione ad essere "riempito". Negandosi alla domanda ingenua di Agatone - "travasa in me il tuo sapere" - Socrate cerca di mettere in movimento il suo allievo (transfert significa "trasporto", "sentirsi trasportati") distogliendolo dall'illusione che conoscere significa riempirsi passivamente il cervello di nozioni già esistenti e possedute da qualcuno. Il gesto di Socrate è controcorrente rispetto ad ogni idea scolastica del sapere ed è il motore di ogni forma di apprendimento autentico. Svuota il maestro di sapere affinché l'allievo si metta in movimento - si senta trasportato - verso il sapere, affinché nasca nell'allievo un desiderio autentico di sapere. Il gesto di Socrate è innanzitutto un gesto di sottrazione; anch'io non so quello che tu non sai, non perché sono ignorante, ma perché so che è impossibile possedere tutto il sapere, perché il sapere stesso non può mai costituire un tutto. Il compito di un insegnante è quello di generare amore, transfert erotico, sul sapere più che distribuire sapere (illusione cognitivista) o mettere tra parentesi il sapere occupandosi della vita privata degli allievi (illusione psicologista) perché l'alternativa tra la vita e il sapere è sempre sterile".

A quanto detto da Recalcati posso solo aggiungere che, "sottraendomi" costantemente, allo stesso modo, quando va bene si genera nello studente la curiosità per il mio approccio al sapere, ma mai la curiosità per il sapere in sé e, men che meno, per gli oggetti reali di cui il sapere stesso cerca di parlare, se questi oggetti non rientrano nell'esperienza quotidiana.

E purtroppo so anche il perché: agli adolescenti e pre-adolescenti interessano per istinto i comportamenti e le parole delle persone adulte, da seguire e mitizzare o da esecrare e vilipendere, senza vie di mezzo. Interessano le passioni ideali, magiche, trascendenti, e i relativi concetti, specie se questi facilitano l'aggregazione, l'identificazione nei loro gruppi sociali. È la natura evolutiva della specie umana che li ha dotati dell'istinto di saper individuare a chi conviene loro sottomettersi, perché dotato di maggior forza bruta e potere (che attenuiamo col termine "carisma", ma non coincide affatto con saggezza, professionalità, esperienza e intelligenza). Infatti i concetti degli adolescenti, più spesso pseudoconcetti, hanno funzioni simili o identiche a quelli adulti-scientifici, ma non sono usati allo stesso modo, nel ragionare: per migliorare i significati, per raggiungere una maggiore oggettività, per creare nuove connessioni nel sistema della conoscenza, per risolvere problemi. Sono utilizzati essenzialmente per entrare in una relazione sociale e comunicativa. Le questioni interpersonali e di amalgama nei gruppi sono infinitamente più importanti, e le prime da risolvere, per il corretto funzionamento delle società primitive, piuttosto che l'imparare a risolvere da soli problemi di natura scientifica o pratica, quando, nella stessa società, ci sono altri che insegneranno come risolvere. È questa la nostra eredità, che pure evolverà, ma non così, dall'oggi al domani. Perciò si ha sempre l'impressione che quando uno studente utilizza un concetto ne ha un'idea astratta, vaga, "campata per aria". In realtà i concetti gli servono solo per acquisire il linguaggio, per essere più partecipe e asservito all'adulto che a parer suo lo merita e per imparare a esercitare un potere basato sulla parola, o adeguarsi a chi lo ha assunto: ai mini-leader all'interno del suo branco, che si stanno esercitando, senza saperlo, a diventare i leader veri della società adulta, ancora simile per molti versi a quelle primitive.

Occuparsi della natura in sé del mitocondrio, o di un qualunque altro infimo frammento di materia nuda e cruda, in quanto tale, questa passione aberrante tipica dello scienziato (infatti notoriamente "asociale" e fuori dal mondo), è per loro insulso e insignificante, specialmente se il possesso della conoscenza non garantisce alcun privilegio perché non è più esclusivo dei pochi allievi di Socrate, ma alla portata anche dell'ultimo degli schiavi che vi si cimenti con passione e dedizione sufficienti. Per l'adolescente di oggi, il prof. socratico non ha mai abbastanza carisma, proprio perché non è lì per proteggere i quasi-adulti delle classi privilegiate, che hanno giustamente paura del mondo e dell'assenza di garanzie ed automatismi derivanti dal "titolo di studio", per difenderli dalla maledetta democrazia o meritocrazia e dagli schiavi che, non avendo nulla, si impegnano maggiormente e reclamano, giustamente, privilegi equivalenti. Gli adolescenti, sono evolutivamente, geneticamente e neurologicamente predisposti per cercare questo genere di protezione e garanzie in ben altri adulti di riferimento, che ai loro occhi sembrano più capaci di garantire la comoda - almeno intellettualmente parlando - posizione sdraiata, richiedendo pure meno sforzo. Le masse giovanili eterogenee, di oggi, non cercano dei Socrate che insegnino loro a ragionare sottraendosi, ma condottieri in cerca di adepti, che li seguano assumendosi le responsabilità al loro posto. La relazione Socrate-Agatone è più simile ad una relazione tra adulti-pari, caratterizzata solo da asimmetrie culturali di tipo quantitativo. Quella tra insegnante di successo e adolescenti è più simile ad una relazione generazionale, padre-figlio.

Se questa percezione della relazione è comprensibile, "naturale" dal lato studente, ci si aspetterebbe però che dal lato docente, pur sfruttando entro limiti fisiologici i vantaggi della "illusione paternalistica unilaterale", vi sia almeno una tendenza a ristabilire un dialogo pedagogico modificante, decentrato da sé, e centrato sulla capacità oggettivante e creatrice di significati del linguaggio, non sulla recitazione di formule vuote, sull'applicazione di formule cieche, utili solo a trasmettere un'idea di potere astratto della conoscenza che, per fortuna, non esiste più. Altrimenti i ragazzi non "cresceranno" mai.

E qui comincia la politica degenere della destra, qualcosa che, peggio della scuola, e anche tramite la scuola, è da sempre dedita a conservare le schematizzazioni delle società primitive e trarre vantaggi dalla legge del più forte, anziché cercare di migliorare la nostra civiltà.
Quella che sfrutta il fatto che tutta la società è, in realtà, arenata sullo stadio adolescenziale e preferisce affidarsi ai condottieri. Ecco che il personalismo politico non è più unilaterale, non è più "illusione" di paternalismo, ma mania di grandezza e di persecuzione reali, arroganza..., e da qui cominciano tutti i guai, cominciano a spuntare i "popolani" che litigano con i "populisti", ridimensionando e riducendo tutta la conquista democratica e civile al famoso detto "quando ci sono troppi galli a cantare non si fa mai giorno", sono votati i condottieri del momento, che costituiscono gradualmente la loro follia e la follia collettiva...

sabato 31 agosto 2013

La scuola non dovrebbe né premiare né punire, ma preparare alla vita

Preparare alla vita non significa abituare ad affrontare test aventi natura artificiale e congenere a quelli della scuola, cioè abituare ad una componente arbitraria della "vita reale'', creata ad hoc ed utile alla società umana solo come sistema di classificazione e "iniziazione" ereditato dalle società primitive, nonché strumento di esclusione e controllo forzoso dei dislivelli sociali.
Prepararsi alla vita significa abituarsi a conoscere, cioè osservare e interpretare la realtà tramite linguaggi più evoluti di quelli che forse si impiegheranno mai nella vita reale, e acquisirne una padronanza tale che questi riescano a costituire un "filtro" adeguato e uno "scudo" sufficientemente robusto da garantire, oltre allo sviluppo intellettuale ed affettivo, autonomia e libertà all'individuo. Per questo è necessario un ambiente speciale, protetto, una governance, e professionisti adeguati: esperti di quei linguaggi e della loro didattica e valutazione, con competenze affettive e passione adeguate, sia per l'insegnamento, sia per la disciplina d'insegnamento e per la conoscenza in generale.
Ciò è quanto rende necessaria l'esistenza della scuola. Per tutto il resto le pratiche della scuola non dovrebbero differire da quelle che regolano il funzionamento delle comunità che nella società generano pensieri, servizi e cose utili a garantire la sopravvivenza e possibilmente ad arricchire il genere umano e il suo ambiente.

Alla luce di questi principi, come si dovrebbe fare la valutazione scolastica? Con quale funzione? Per esempio, quale potrebbe essere un'impostazione utile per i cosiddetti esami di "riparazione"?

Per avere un apprendimento significativo occorre innanzitutto che l'insegnamento sia significativo

Qual è la differenza tra apprendimento significativo e non significativo? esiste qualche reale differenza? Almeno in un caso osservato penso di poter essere in grado di rispondere alla prima domanda e affermativamente alla seconda.

Come sempre dopo gli esami integrativi di agosto emergono profonde riflessioni sul senso di ciò che stiamo facendo a scuola.
Non chiedi di ripetere nessuna prassi consolidata, non pretendi nulla, ma proponi di parlare su "parole" molto semplici, che però sai che per qualcuno, o spesso, hanno costituito difficoltà e su cui, pertanto, hai lavorato durante l'anno. Alcuni di questi ragazzi (di quelli che sapevi già essere ad un diverso livello di sviluppo cognitivo) ti spiattellano risposte immediate, nonostante abbiano studiato altro o non si siano preparati affatto. Nella maggior parte dei casi, invece, ti rendi conto che concetti come "volume", "centesimo", "composto", "concentrazione", ecc. non sono posseduti: cioè i contesti non richiamano i termini, per quanti sforzi tu faccia, o i termini che proponi non richiamano azioni ed usi corretti, appropriati al contesto. Ti domandi perché tali apprendimenti siano stati scarsamente significativi, e la risposta e auto-giustificazione è evidente: "sto pensando a quei ragazzi che presentano le maggiori difficoltà e che si portano dietro anche lacune di base, che dipendono non solo dal mio insegnamento, ma anche da altri fattori".

Uno di questi studenti, candidato per il secondo anno di chimica generale, ha cercato di prepararsi durante l'estate con un ragazzo diplomato con 95/100, un ottimo soggetto in tutti i sensi, che tra le altre cose gli ha insegnato a risolvere problemi sul pH così come lui sapeva fare ad un buon livello "professionale" in una delle materie della specializzazione. 
Essendo a conoscenza di tutto ciò, ho chiesto semplicemente al candidato se fosse più acida una soluzione acquosa a pH 1 o una a pH 8, specificando che non sapevamo cosa vi fosse sciolto e che non ci importasse saperlo. Il ragazzo ha cominciato a sfoderare a vanvera ipotesi sul contenuto di sali derivanti da acidi e basi forti e deboli e ad esibire una particolare procedura di calcolo arbitraria e facente uso del logaritmo (mai vista durante l'anno). 

Il mio pensiero, e il titolo del post, riguardano la qualità di quell'insegnamento: l'insegnamento ricevuto dallo studente diplomato quando, meglio di molti gli altri, aveva studiato quella materia.

Se gli studenti di chimica imparano e dimostrano di sapere che il pH è una particolare procedura di calcolo che si deve saper attuare, se la procedura di calcolo del pH conta più del valore aggiunto dato dalla conoscenza del pH, rispetto alle concentrazioni da cui deriva, qualora vi sia un tale valore aggiunto, se non si indagano i limiti del contesto di questa conoscenza (quando il pH non è affatto definibile e quando lo è), cioè se uno studente della secondaria si comporta con questo pezzo di sapere come si comporterebbe uno della primaria con la divisione in colonna (nonostante un concetto come il pH dovrebbe registrare livelli di consapevolezza ben diversi da quelli di un alunno della primaria), se, in definitiva, questo uso di una singola specifica procedura, si trova a rappresentare tutto ciò che di essenziale si conosce bene riguardo al concetto di pH, sapendo per esperienza che questo tipo di preparazione non costituisce un caso isolato, ma la totalità degli studenti e delle classi del triennio, tutto ciò ha una sola spiegazione possibile: 

l'insegnamento del pH non è stato significativo. 

C'è stato un insegnamento procedurale, non concettuale. 

E tra queste due cose c'è una bella differenza.

Ovviamente quel ragazzo saprebbe rispondere al quesito sulle due soluzioni, ma lo sa per esperienza, ne ha una consapevolezza di tipo pratico, esperienziale, che certamente comprende anche il legame con la procedura matematica a lui familiare. Ma probabilmente quel ragazzo non sarà consapevole di altre peculiarità fondamentali del concetto di pH, della sua natura e della sua essenza. Perché esso è stato "inventato", quando, e perché, da chi, a che serve, come e perché funzionano i metodi per determinarlo, direttamente o indirettamente, quando è definibile e quando no, se può essere o meno generalizzabile. Tutte operazioni che richiedono una padronanza concettuale che, mi par di sentire già, in una scuola tecnica non debba richiedersi (e insegnarsi). Invece è proprio quella necessaria per il "thinking out of the box", per affrontare problemi e questioni nuove, diverse dai problemi standardizzati che si è abituati a risolvere meccanicamente, anche apparentemente semplici, come ad esempio come fare a far capire la natura del pH ad una persona qualunque che non sa nulla di chimica.

Se nell'insegnamento non c'è mai una problematicità, e c'è solo proceduralità, come ci si può aspettare che i ragazzi sappiano fare qualcosa di diverso dall'applicare procedure, anche bene, ma in modo cieco? 

Come ci si può aspettare che essi capiscano che si parla di contesti reali, di esigenze che non nascono dalla scuola, ma da come è fatto il mondo?

E senza capire queste due cose, come pensiamo che essi - e le loro famiglie - possano comprendere il senso dell'aggettivo "superiore" della scuola secondaria?

Perché continuiamo a illudere noi stessi e gli altri che possa essere sufficiente essere bravi esecutori o applicatori di pratiche, magari con i canoni della Qualità Totale, che non occorra accorgersi che esiste anche un livello intellettuale in cui cominciare almeno a muovere i primi passi, e che chiunque in linea di principio possa sviluppare prima o poi le proprie doti intellettive anche in questo modello di scuola tecnica?

Io credo che si possa fare molto meglio.

lunedì 6 maggio 2013

Flipped evaluation


Gli scettici quando vedono applicata una strategia costruttivista, non tradizionale, dicono: "e i risultati?"

I risultati sono ciò che gli studenti fanno

Vieni e osserva.

Nel sistema di valutazione tradizionale si tende a identificare il risultato del test come indice di preparazione e di obiettivi raggiunti. Questa idea è completamente sballata (almeno nella scuola, forse non all'università). 

E' sballato il concetto di obiettivi raggiunti. Il concetto di "profitto scolastico" è un'IDIOZIA di cui liberarsi, assieme alla "meritocrazia" ad esso associata.

La scuola deve preparare la forma mentis base, la capacità dell'individuo di approcciarsi-re in modo corretto al-la conoscenza (cosa che non dovrebbe manifestarsi per magia all'università dopo che lo studente ha studiato lungo 10 anni per i voti, considerando corpo estraneo da sé il sapere scolastico), mentre gli obiettivi che la scuola deve misurare non si trovano nel passato ("raggiunti"), ma nel futuro (potenzialmente raggiungibili). 

Non esiste alcun test che permetta di rilevare gli obiettivi raggiunti da un singolo studente o da un insegnante come qualcosa di ben correlato con le potenzialità future dello studente. Se c'è una correlazione blanda, questa è un artefatto statistico che risulta essenzialmente dagli aspetti del clima culturale in cui l'alunno vive, dall'ambiente e dalle risorse che hanno forgiato le sue attitudini di partenza, su cui la scuola ha interferito parzialmente o addirittura in modo negativo cristallizzando lo status sociale e penalizzando le difficoltà di apprendimento. La correlazione non è affatto una dimostrazione di causa-effetto, ma dell'esistenza di una causa comune e preesistente per ciò che l'alunno fa a scuola oggi e ciò che continuerà a fare in futuro, tanto più quanto la valutazione scolastica tende a "cristallizzare" la persona sulle sue attitudini e risposte del momento. Si dice proprio: a "classificare". I voti sono delle "classificazioni". 
Questa lettura dei dati è nota dai tempi di Barbiana, sta riemergendo recentemente,  (e qualcuno pensa che siano esternazioni della sinistra che "ogni tanto deve pur dire qualcosa di sinistra") mentre la scuola degli insegnanti e dirigenti continua a fare finta di nulla, ad abbassare gli obiettivi, e a campare di illusioni, credere nel merito e nel valore dei suoi "votini" dati ad alunni diligentini che studiano le lezioncine per il giorno dopo. E pretende di dimostrare che i buoni risultati di uno studente nella vita dopo la scuola siano correlati al suo successo scolastico come misurato da questo tipo di valutazioni, ergo al presunto buon funzionamento della scuola. Questa è una grossolana falsità. Basta una persona che ricorda con piacere la scuola frequentata (chi non lo fa!), che ha avuto un certo successo nella vita, che tutta la scuola si sente tronfia di orgoglio. 

Gli anni di scuola devono servire per lavorare, per fare apprendistato cognitivo.

L'unica realtà osservabile e degna di essere valutata è la quantità di lavoro fatto, inteso come la quantità dei processi che si sono attivati pazientemente, costantemente, individualmente e collaborativamente in un clima "democrative" e stimolante l'interesse e l'intelletto. 
Questa è l'unica misura possibile che può pretendere di essere correlata ai processi attivabili o non attivabili nel tempo futuro

In questo senso il mio sistema di valutazione, che registra e stimola esclusivamente il lavoro fatto, altrimenti detto "impegno agito" o "dedizione", è "flipped" (capovolto).

Esaminiamo le cose dal punto di vista del sistema "vigente".

L'insegnante istruisce gli alunni sulle procedure da attuare (apprendistato pratico-cinestetico, a bassissima densità concettuale), assegna agli studenti dei lavori da fare, a scuola e a casa, per esercitarsi. Alla fine del processo fa dei test scritto-pratico-orali per "verificare" se le cose sono andate come avrebbero dovuto.
Nella maggior parte dei casi gli studenti non si sono esercitati come necessario e le cose non vanno come dovevano andare. 

Soltanto alla fine di un processo con scarsi feedback ci si rende conto dell'insuccesso. 

Senza contare che anche i casi di successo sono ugualmente di insuccesso, perché l'apprendimento che si realizza è comunque scarsamente significativo e concettualmente povero. 

Se l'insegnante considera valido il percorso che ha portato a così scarsi risultati, gli alunni dicono (dopo) che non capiscono nulla, che tutto è difficile. Gli stessi studenti capiscono molto meglio altre materie dove, grazie al fatto che le verifiche si adeguano al progressivo degrado della quantità, della qualità e della stessa possibilità di effettuare studio autonomo, e sono calibrate in modo da produrre comunque voti accettabili nella maggioranza degli alunni. 
Di fatto ciò produce un progressivo scadimento della qualità degli apprendimenti, senza cambiare la quantità di inutili verifiche da preparare e correggere ciecamente, senza capire che si è innescato un processo peggiorativo senza fine.

Sono convinto che la maggior parte dei miei colleghi sono talmente presi da questa frenetica attività valutativa, da non avere il tempo di tirare fuori la testa per rendersi conto di quanto sia assurda, o forse pensano semplicemente che non esistano altri diversi possibili ritmi e incentivi allo studio.

Occorre arretrare il momento della valutazione e posizionarlo sul punto debole del processo: il lavoro autonomo e quello collaborativo (quest'ultimo particolarmente penalizzato). E' una risposta ovvia.

Se i ragazzi non prendono mai atto e consapevolezza del compito di apprendimento in quanto tale, in alcuna fase del processo, resteremo sempre bloccati nel circolo vizioso del peggioramento continuo: meno studio, verifiche più facili, togliamo la necessità di interpretare testi scritti che creano difficoltà in ragazzi non abituati alla lettura, togliamo i problemi autentici, perché solo pochi ci sanno ragionare e anche quei pochi che ci riescono, durante le verifiche rischiano di perdersi se devono fronteggiare "indovinelli" in un tempo limitato, riduciamo i contenuti scritti a poche linee di testo o schemetti da imparare e ripetere all'orale o "rispostine" aperte, ecc. ecc. I prodotto di questo gioco al ribasso consiste negli stessi voti di sempre, ma con un peggioramento della qualità reale degli apprendimenti e della stessa gioia di frequentare la scuola.

Se invece noi, come sto facendo da un anno, valutassimo esclusivamente l'impegno, avremmo dei ragazzi costretti non a studiare il giorno prima della verifica, non a rendersi conto solo da questa di non aver imparato nulla o a illudersi di sapere qualcosa solo perché hanno ottenuto un buon voto, ma "costretti" a lavorare continuamente, a collaborare, a fare e a pensare su ciò che fanno.

E questo fare non è visto in funzione di un'ulteriore e successiva valutazione di tipo tradizionale, quella "vera". No. Non ci sarà alcuna valutazione successiva, sommativa, di fine percorso. Non ci sarà nessuna classificazione del profitto, ma solo una basata sula dedizione. Nessuna classificazione degli studenti, molto diversi tra loro, rispetto ad una stessa norma.

I processi del fare, pensare e riflettere preferibilmente in collaborazione, COSTITUISCONO l'obiettivo e l'elemento stesso della valutazione della possibilità che i processi acquisiti siano utilizzati anche in futuro.

La dedizione misura ed è linearmente correlata con l'incremento relativo delle potenzialità del singolo studente, il suo valore aggiunto e i suoi reali passi avanti, il differenziale entro certi limiti indipendentemente dal livello di partenza. Questo valore aggiunto non può essere misurato "ora", perché ora possiamo intravedere solo qualcosa che descrive il passato dello studente, mentre la parte migliore (e realmente utile) è quella che potrà manifestarsi in un futuro in cui lo studente si costruirà da solo le proprie "verifiche". E quanto questo futuro sarà roseo non può che dipendere da quanto lavoro lo studente attua e accumula, quanta esperienza di gesti mentali, quante volte sperimenta su se stesso e intimamente il successo di riuscire a portare un compito a compimento, quante volte riesce a spiegare ad altri compagni il significato di un termine o di una pratica, quante volte si trova in condizioni di dover far uso di un concetto e non di una procedura pre-assegnata per arrivare ad un risultato e, dunque, fa ciò. 

Tutte queste cose non si "verificano", ma avvengono, si fanno avvenire, si fanno fare

Evidentemente non tutti faranno tutto. Ci sono i pigri, gli amanti della tradizione in cui non devono necessariamente esprimere una determinata quantità di lavoro minima per avere una valutazione sufficiente. Quelli che presumono che se l'insegnante spiegasse normalmente e se loro dovessero ripetere il contenuto della spiegazione in esercizi di verifiche o interrogazione, potendo scegliere liberamente se lavorare a casa o meno, sarebbero già sufficientemente intelligenti per superare "con profitto" le verifiche, così come manifestamente riescono nelle altre verifiche (truccate).  Soprattutto ci sono quelli che non vogliono compromettersi con il sapere. Sono e vogliono rimanere "ben altra cosa" rispetto all'oggetto e alla metodologia della conoscenza. Per loro e per le loro famiglie la scuola è una specie di servizio militare, da ottemperare, non qualcosa di cui appassionarsi attraverso l'impegno e la dedizione. Se tutte le materie seguissero il criterio della valutazione dell'impegno tutti questi "scettici dello studio" capirebbero che dovrebbero fare qualcosa di diverso che scaldare banchi e se ne andrebbero spontaneamente, oppure cambierebbero atteggiamento. Tutti lo cambierebbero se la maggioranza studiasse in questo regime. I rispettivi insegnanti perderebbero meno tempo in inutili e squallide verifiche, e avrebbero modo di scoprire molte cose eccitanti della disciplina che insegnano.

Quando l'insegnante opera per far fare agli studenti tutto ciò è a sua volta costretto ad attuare una transizione da istruttore di pratiche prive di significato (almeno per gli studenti, ma a volte per l'istruttore stesso) a mediatore di apprendistato cognitivo.

In tal caso emerge il rovescio della medaglia. Quanti sono professionalmente pronti a questa transizione?