lunedì 31 ottobre 2016

Risposta alla "lettera agli studenti di questo pianeta"

Lettera aperta sul futuro tecnologico dell'educazione (Di Curtis J. Bonk)

Risposta-commento (di Alfredo Tifi)

1. Non esiste una correlazione positiva tra quantità e facilità di accesso alle risorse e qualità dell'educazione. Mentre il caos dell'informazione può facilmente dare una correlazione negativa.
Sono la buona pedagogia assieme alle teorie dell'apprendimento a poter fare la differenza.

2. Le opportunità, le conoscenze scientifiche necessarie, le esigenze sociali per il cambiamento dalla lectio tradizionale formalizzata (fatta di programmi predeterminati, lezioni restitutive, studio non significativo individuale, e verifiche su prestazioni dichiarative e procedurali) a forme educative adeguate alle conoscenze e alla società, e addirittura migliorative della società (perché questo è il vero scopo dell'istruzione) potevano ben esserci anche se Internet non fosse mai venuto al mondo.

Sarei ben felice di utilizzare gli strumenti tecnologici per una didattica blended e certamente più veloce, soprattutto perché questa implica un moto di accesso alla conoscenza e alla comprensione da parte di allievi o gruppi di allievi; mentre nel sistema formalizzato, che di fatto li deresponsabilizza, è il docente la centrale emittente di tutto il sapere e persino il responsabile delle valutazioni insufficienti e del fatto che le lezioni siano/non siano efficaci, come se il contesto non contasse nulla.
MA c'è un piccolo problema: questi strumenti non raggiungono la totalità dell'utenza e il motivo è semplice: la disponibilità tecnologica e digitale sono abbandonate ai flutti dell'economia, mentre uno Stato intelligente dovrebbe garantirla al 100 % della popolazione scolastica. E i docenti usarla, così come quando a 6 anni io e tutti gli altri utilizzavamo semplici strumenti dell'epoca: il pennino e l'inchiostro di china. Ebbene sì caro Gianni Marconato. Il vero problema non è costruttivismo sì o costruttivismo no. Il vero problema è tagliare il cordone ombelicale dell'istruzione formalizzata e sostituirla con un sistema più flessibile e adeguato, e lo si può fare in un solo modo: eliminando, e non aggiungendo criteri metodologici incerti. Per seccare alla radice il sistema formal-restitutivo meritocratico, bisogna eliminare i programmi predefiniti, eliminare le verifiche periodiche basate sulle prestazioni e mettere solo prove diagnostiche tipo test OCSE-PISA a fine corso o addirittura all'inizio dell'anno successivo (per osservare cambiamenti reali sul lungo periodo), eliminando materie superflue e lasciando poche discipline fondamentali, creando un sistema di formazione pre-servizio e in-servizio degno di un paese civile. Dando nuovi strumenti, garantendone la funzionalità. Nessuna prescrizione per la nuova didattica tranne una: usare forme blended tali da comportare per l'alunno una riflessione sul compito, una rievocazione del contenuto della lezione, di qualunque tipo essa sia, anche al di fuori del tempo scolastico, per produrre consapevolezza (questo il valore aggiunto della classe capovolta). E il blended se interattivo e collaborativo implica lo strumento tecnologico. Ma bisogna fare attenzione a distinguere il fine pedagogico dal mezzo. E non sempre si fa questa distinzione, mi pare. Chiarito tutto ciò, il vuoto lasciato dell'istruzione formale sarà automaticamente riempito da forme intelligenti e varie, e più efficaci per restituire alla scuola il compito fondamentale di trasmettere le discipline (quelle "cose" che esistono anche senza Internet e che hanno reso possibile l'Internet e le TIC) che, in sostanza, costituiscono la cultura.

3. C'è una terza questione rilevante che sfugge al manifesto-lettera: il grave rischio della smaterializzazione. Gli umani, quelli che come giustamente precisato, avrebbero diritto di apprendere in modo naturale, sono soliti costruire concetti sempre più generali, ma che in ultima analisi sono significativi solo in quanto suscettibili di aggancio ai sensi, ai sentimenti, dotati di una "presa" sulla realtà. Questo semplice fatto è stato già dimenticato dall'istruzione formale, che dicendo "prima impara e dopo capirai", ha elevato l'astrazione priva di senso, tranne quello autoreferenziale, a valore (e persino a potere). Ma ora ci sono segnali, già attuali, del fatto che la realtà prevalente stia diventando quella dei device e dei dispositivi 2D. Il mondo reale rimane fatto di atomi e materia, non di pixel e bit. In tutta l'educazione preadolescenziale e anche in quella adolescenziale occorrerà garantire l'uso e la manipolazione della realtà, in tutti i sensi, compresa quella sociale e associativa, del contatto visivo, tattile, "face to face". Il modo "naturale" di apprendere, la costruzione dei concetti spazio-temporali, la sorgente stessa della sviluppo, nonostante le tecnologie, è data dal contatto diretto e manipolativo della realtà e i nostri geni non si sono già evoluti per vivere nel mondo astratto e virtuale, né ritengo che ciò possa essere una forma di adattamento utile a continuare a vivere su questo pianeta, che non è un videogioco.

sabato 29 ottobre 2016

Il pantano della valutazione (e come uscirne)

Ovvero perché non potremo mai dirci operatori culturali se non cambieremo questo sistema con uno più intelligente.


Questa mia analisi si basa sull’agito-percepito. Da come le cose stanno e non da come qualcuno dice (sognandosele) che sono, o vorrebbe che fossero. Il resto (circolari, teorie docimologiche ecc.) non serve che ad immergerci ancor più nel pantano in cui ci troviamo.

Graditi i commenti

I La valutazione sommativa con relativa verifica viene fatta:

1. perché è un obbligo ed un tutt’uno con lo svolgimento di un programma

2. perché chi ancora ci tiene che il suo operato di insegnante abbia un impatto sugli studenti crede che essa costituisca il migliore o l’unico incentivo disponibile allo studio (tanto che è sempre stato così). Infatti anche chi studia per il sapere e il saper fare (per desiderio di essere efficiente, per motivazione allo studio “per non rimanere indietro”) non gradisce essere identificato con chi “studia per il voto”, ma piuttosto ritiene, assieme ai suoi insegnanti, che:
2a) la qualità della prestazione, conquistata con fatica, il merito e il “voto” siano sinonimi, e
2b) saper studiare, saper apprendere, la padronanza dei concetti, l’approccio alla conoscenza, il problem solving, la competenza disciplinare e quella generale, siano tutte caratteristiche rilevabili e rilevate dall misura valutativa effettuata attraverso prestazioni scritte o colloqui orali.

Trascurando la stragrande maggioranza degli studenti per i quali lo studio è “arrancare la sufficienza”, accessibile, come di norma accade, pur considerandosi e dichiarandosi (a volte con orgoglio, perfino condiviso dai propri docenti “amiconi”) “corpi estranei” alle stesse conoscenze e competenze che dovrebbero (sulla carta) fruttare tali “sufficienze”;
trascurando brutalmente, con tutto rispetto per il professor Ivan Pavlov, l’opinione di chi afferma (studenti e insegnanti) che senza il voto uno studente (e un genitore) non sarebbe in grado di rendersi conto “se sta facendo bene o male”,
il punto 2a) permette a tutti di pulirsi la coscienza, sostenendo che il voto in fondo non sia che un aspetto secondario dello studio finalizzato ad avere una buona “preparazione”, in un senso oggettivo (prima della verifica) od oggettivato (dalla stessa verifica).
In realtà anche la maggioranza degli studenti che hanno questa percezione dello studio, e sono pronti a dichiarare che la loro motivazione è intrinseca, si comportano inconsapevolmente come corpi estranei alla conoscenza. Conoscenza che fa solo da sfondo alle loro prestazioni. Su che base affermo cio? Molto semplicemente osservando che la curiosità sta a zero! Se resiste in qualcuno (compresi quelli che hanno firmato l’estraneità alla conoscenza) il camminare lungo un percorso indicato da uno stimolo esterno, una curiosità, viene vista non come una componente dell’istruzione, ma come una specie di “concessione” dell’insegnante, ancora un corpo di conoscenza estraneo. Se si insiste troppo, diventa una perdita di tempo, una distrazione dalle prestazioni (incluse quelle professionali) che saranno richieste. Non a caso, mi sembra nei fatti molto, molto raro scorgere una curiosità verso la conoscenza disciplinare nei colleghi docenti della mia disciplina che ho incontrato in tutta la mia carriera. Li vedo piuttosto “fermini” nelle loro conoscenze e convinzioni stantie. Questa scuola non spegne solo gli studenti.
Oltre ciò, si deve anche riconoscere, e non possono essere gli studenti stessi a farlo, che la maggior parte delle conoscenze che dovrebbero rientrare nelle competenze disciplinari e nella padronanza concettuale, non sono altro che conoscenza puramente procedurale di tipo meccanico e/o conoscenza dichiarativa, che l’anno dopo, a meno che non capiti un docente che si mette a fare scavi archeologici, si rivela completamente inerte.

In questo modo noi non stiamo educando. Stiamo condizionando delle persone ad un sistema completamente artificiale che non ha alcun attinenza con la natura e con i bisogni dell’uomo. Con il modo in cui gli esseri umani iniziano ad apprendere fin da quando si trovano nel grembo materno. Come diceva David Jonassen, facendo e pensando. Cicli di tentativi, errori, riflessioni, nelle quali poter in seguito infilare le parole di altri umani più esperti fino a farle proprie.

Questi studenti “bravi”, studiosi e diligenti, convinti di possedere motivazione intrinseche, convinti che la valutazione scolastica sia in grado di misurare la qualità e perfino l’utilità e la spendibilità dei loro apprendimenti, si sono solo adattati ad un sistema in cui la scuola è scandita in lezioni, studio autonomo e verifiche, sistema in cui il punto 2b sembra tanto necessario e vero, quanto nella realtà proprio il suo carattere illusorio impedisce che si educhino approcci naturali (umani) alla conoscenza, padronanza concettuale, competenza disciplinare e accademica.

Dobbiamo fermarci a riflettere e riconoscere che il punto 2b è totalmente falso. Questa è la principale ragione per cui il sistema scolastico che annaspa nella meritocrazia formale (senza neppure riuscire a renderla sostanziale) non potrà mai essere un sistema adeguato alle necessità della società attuale e quanto mai di quella futura.
La realtà è che i sistemi meritocratici a scuola sono causa di appiattimento, formalizzazione senza la “sostanza” degli apprendimenti, non solo per i destinatari di tali apprendimenti, ma anche per gli insegnanti stessi.

II Cosa significa valutazione formativa?

Questo termine, messo quasi per istinto a completamento della sommativa, è di fatto quasi sconosciuto nella scuola. Perché?
Un docente che deve fare un tot di verifiche obbligatorie “con voto” orali, scritte, pratiche per trimestre e pentamestre, che deve recuperarle se qualcuno è stato assente perché tutti, nessuno escluso e fiscalmente abbiano lo stesso numero minimo di voti (chiamati elegantemente “valutazioni”, e questo rigore frutterebbe la qualità totale a scuola), e che se non ha l’obbligo degli scritti, ma non vuole passare tutto il tempo soltanto a interrogare, e pensa che le interrogazioni di gruppo siano un’emerita presa in giro, deve assegnare anche dei test, difficilmente si sognerebbe di preparare anche “verifiche senza voto” (ebbene sì, le chiamano così, gli studenti reali, non lo sapevate? ma va!),  che poi vanno “corrette” come quelle “vere”. Non lo può fare. Non è per cattiveria, capite?

La verità è che si cerca di infilare il concetto di valutazione formativa, l’unico che ha diritto di esistenza a scuola almeno finché si ha a che fare con soggetti nell’età evolutiva, nel sistema dominante spiegazione-studio individuale-verifica. Perciò la valutazione formativa viene concepita solo all’interno dello stesso schema, come valutazione dell’esito di verifiche preparatorie a quelle prestazionali.

Non c’è abbastanza tempo per fare le “lezioni normali” in cui si “spiegano le cose”, poi le verifiche formative in cui gli studenti iniziano ad attrezzare i trucchi dell’efficienza per aggirare il dover pensare ai concetti, per trovare quegli automatismi che permettano di evitare i rischi connessi alla riflessione, in preparazione delle verifiche “vere”, solo per scoprire ogni volta che la classe non ha capito nulla dalla “lezione normale” per cui bisogna rifarla “meglio”, con l’unico risultato di annoiare e creare ancora maggiori automatismi procedurali, ecc. ecc.

L’errore è nel pensare che la funzione formativa della valutazione debba risiedere in apposite verifiche distinte dalle altre attività didattiche, per voler osservare tutte le stesse cose su tutti.

Consideriamo anche i test d’ingresso. Formativi? Diagnostici? Devono servire per riorientare le strategie didattiche? Dove insegno attualmente i test, i quesiti e le singole risposte, del primo anno non sono conosciuti. Essi attengono solo allo staff della qualità che li ha preparati e somministrati e non è politically correct richiederli. Se lo fai sei certamente un inquisitore (ecco come funzionano i sistemi formalizzati della qualità in un sistema diverso da una fabbrica di robiola: tutto è bene e procede bene). Tutto ciò che hai a disposizione è un voto per ogni materia. Cosa vuoi riorientare con i dati di questi test? L’indicazione per Pierino è “insufficiente in matematica”. Ma quale matematica? Quella del programma! Ma il programma è quella cosa che si può portare avanti anche se il 90% della classe pensa che 0,2 < 0,10 e che 1/5000 > ⅕. In cui si farà algebra e si spiegheranno formule e formule inverse in fisica e chimica anche se per il 100% della classe il concetto di variabile e di uguaglianza sono tali che se “nel posteggio per ciascuna auto (con A = n° di auto) ci sono 4 ruote (con R = numero complessivo di ruote) che toccano in terra” l’espressione equivalente è A = 4R. Questa è la realtà con cui fare i conti e non solo con Pierino, ma con quasi tutti. Questo è il destino delle poche verifiche “formative” che la scuola della qualità si autoimpone. Servono solo a dire negli audit che sono state fatte, senza che abbiano alcuna reale capacità di influenzare la didattica di classe e tantomeno individuale.

Quandanche i test d’ingresso non fossero solo un obbligo che serve a fare finta che la scuola è di qualità e fossero calibrati per evidenziare le carenze concettuali reali e non in riferimento a programmi svolti o da svolgere, e se ogni insegnante si mettesse a progettare un piano di riallineamento per ciascuna di queste carenze, con l’obiettivo, una volta riallineata la classe, di portare avanti il fatidico programma, quando si arriverebbe alla fine? Mai! Perché gli obiettivi e i mezzi per realizzare questo fantomatico riallineamento sarebbero gli stessi che hanno in precedenza contribuito ad accrescere le differenze e a connotarle solo negativamente.

Non si tratta solo del fatto che il carico di lavoro sarebbe insostenibile per un docente.
L’errore vero è prendere a riferimento una condizione iniziale teorica in cui tutti gli studenti siano ricondotti o riconducibili ad uno stesso livello dei cosiddetti “obiettivi minimi”, se non in ingresso, almeno in uscita. Questa condizione non è realizzabile, non è possibile e non è auspicabile. Gli adolescenti sono in piena età evolutiva e sono molto diversi tra loro.

E poi, insegnamento e apprendimento o sono liberi o non sono.

Chi ha bisogno ragionare in termini di allineamento? Serve per poter mettere tutti gli studenti sulla stessa linea di partenza e dire che la verifica prestazionale misurerà il merito e il “valore aggiunto” di quell’allunno, di quella classe, di quel docente e di quella scuola “di qualità”. Ed ecco che l’INVALSI prende l’idea di valutazione sbagliata, che i docenti si sono costruiti da soli reiterando acriticamente una cultura ereditata, e ce la restituisce come un’apoteosi. Se gli studenti dopo tre mesi di scuola, come evidente, ancora non staranno sulla linea di partenza, scatteranno tutti gli strumenti dispensativi, compensativi e “romantici” per i docenti e i fattori circostanziali e correttivi per tenere conto dei diversi contesti ambientali. Purché l’insegnante “scarso di suo” sia comunque evidenziabile rispetto alla media.

Questa idea invalsiana del valore aggiunto è un’idiozia oltre che una negazione della libertà costituzionale di insegnamento. E’ un’idiozia l’illudersi che sia possibile (e per di più a carico dell’insegnante) tenere conto di tutti i fattori circostanziali, il cercare di tener conto di tutte le possibili differenze qualitative capaci di giustificare ogni minima differenza di prestazione, affinché possa rimanere in vita un sistema scolastico basato sulla prestazione! Questa è follia pura! Io non voglio passare tutto il tempo a “giustificare”! A mettere i più e i meno! Io voglio aiutare i diversi ragazzi a conoscere e comprendere, ragazzi che hanno i loro centomila motivi per essere diversi e che rimarranno sempre diversi. Il mio compito è aiutarli a sviluppare potenzialità, a misurarsi con piccole e meno piccole sfide, a fornire loro stimoli, a far capire che la scuola può non essere artificiale e che non c’è nulla che si frapponga tra ciascuno di essi e la possibilità di conoscere, farli rendere conto che l’insegnante vuole collaborare, mediare conoscenze, favorire lo sviluppo cognitivo e della personalità, non controllare le loro prestazioni. Capire che conoscere è sia il processo e il mezzo che il “premio”. E veniamo dunque alla soluzione finale.

III Valutazione formativa insita nell’attività didattica

Brevi lezioni introduttive di 5 - 10 minuti al massimo sostituiscono le inutili spiegazioni e le lezioni-dettato.
Seguono problemi reali: studio di casi. A disposizione i concetti portanti, organizzati come mappa concettuale o costruiti in quei 5 - 10 minuti assieme ad esempi concreti. Quindi si assegna un caso dopo l’altro. Si supportano gli studenti e li si guidano a riprendere il contatto con la realtà che nella scuola avevano perduto, ma al tempo stesso riconducendoli a dei significati concettuali che ancora non possiedono o non padroneggiano. Si osserva ciò che fanno, anche sotto il profilo affettivo, come collaborano, quanto diventano autonomi, responsabili, consapevoli dei concetti che stanno apprendendo e di se stessi. Si produce un quadro descrittivo qualitativo ed evolutivo di ciascuno e si restituisce ad essi questa valutazione in termini semplici e qualitativi, adeguati all’età evolutiva.
Si elaborano strategie d’istituto (tipo restare al pomeriggio o al sabato a studiare con i consimili, come in questa scuola di Berlino) solo per quanti non capiscono che la musica è cambiata e vogliono nonostante tutto restare corpo estraneo alla scuola. E in tal caso hanno ciò che chiedono e che nonostante i fallimenti secolari è ancora considerato valido dalla società: l’insegnamento forzoso, formale e astratto dei contenuti.
Questi studenti si sottopongono a verifiche tradizionali per appurare se possiedono conoscenze dichiarative e procedurali, competenze della scuola tradizionale.

Tutto ciò senza inutili complicazioni, sofferenze per l’insegnante e forzature per lo studente.

Ci sono consistenti possibilità che le differenze e le “ignoranze patologiche” si riducano in un sistema che armonizza con la natura umana del conoscere. Ma ciò che è certo è che ciascuno, nelle proprie specificità, svilupperà vecchie e nuove doti e nuovi potenziali.

Concludo con un esempio concreto di valutazione formativa “embedded” o insita nel processo educativo centrato sullo studio dei casi con l’apporto costante delle discipline.


Per la seconda volta un gruppo di studenti del terzo anno del chimico-biologico si trova ad avere a che fare con una sostanza solida ed una liquida da caratterizzare strutturalmente in base ai suoi comportamenti osservati in diversi test sperimentali (il modulo è “indagini sul rapporto struttura vs proprietà”, evidentemente qualcosa che serve a dare una visione quasi a 360° della chimica, ma chissà perché nessuno ha mai pensato fosse importante realizzare estensivamente). Una ragazza effettua un test che prevede l’introduzione di un singolo granello di un solido marrone in due gocce del liquido sconosciuto e nell’osservare se il solido si scioglie determinando una colorazione verde, oppure no. Nel suo caso succede una terza cosa (un evento che nell’istruzione formale non si può mai verificare, escludendo alla radice possibilità di esperienze di apprendimento autentico): il solido marrone non si scioglie, ma diventa verde, mentre il liquido resta perfettamente immutato, limpido e incolore. Viene a chiedermi spiegazioni, animata prevalentemente dall’incertezza se considerare positivo o negativo il test di solubilità: in fondo qualcosa è successo. Le dico che probabilmente il liquido incognito conteneva tracce di acqua e che queste sono state assorbite dal sale di rame anidro, che è avido di acqua, determinandone il viraggio al colore che lo stesso sale ha quando è idrato. Ciò non significa però che il solido si sia sciolto, per cui il test è negativo. Mi dice che non ha capito bene e se potevo rispiegarle di nuovo. Mi rendo conto dagli occhi che ciò che le dicevo non era semplice e immediato come ciò che si aspettava e pure che questi concetti ascoltati le giravano tutti insieme dentro la testa senza riuscire a fermarsi in modo da formare una qualche proposizione comprensibile. Allora le faccio maggiori premesse sulla duplice natura del sale di rame usato, sul fatto che molti liquidi possono contenere piccole percentuali di acqua e le rispiego il fenomeno osservato in base a questa “teoria”. Non sembra molto soddisfatta. Dopo cinque minuti ritorna con il cellulare e il tubicino da saggio con le due gocce e il cristallo verde e mi chiede di rispiegare tutto mentre fa il video. Capisco al volo che lei aveva bisogno di risentire le mie parole (forse con qualcun altro) con calma, e senza la minima esitazione né obiezione le ripeto la spiegazione. Quello a cui avevo assistito era il suo battesimo con la realtà e con un modo per lei nuovo di conoscere qualcosa. Un punto di partenza importante, il portare il mondo reale dentro la scuola. Questa è una valutazione formativa incorporata nel processo e provocata dal processo, e diventerà evolutiva osservando (e incoraggiando) cambiamenti dell’atteggiamento della studentessa in diverse situazioni e in diversi contesti. Ero segretamente troppo soddisfatto per pensare di doverle subito restituire questa valutazione e a come farlo. Ma in futuro, se mi lasceranno procedere in questa maniera, l’unica maniera giusta, anche la restituzione e la registrazione degli eventi diventeranno ordinaria amministrazione.

domenica 23 ottobre 2016

Keep away from wrong kind of mastery of chemistry

Mastery-based learning
There are two meanings for "mastery" in Chemistry. 
Meaning 1 is "good skills and efficiency in manipulating its formal and symbolic apparatus". This is a sort of representation without the represented things (the objectivated concepts). For example, students say some agency is due to "elements" instead of "atoms". 
Meaning 2 is awareness of how the real world of atoms and substances actually are, how their behaviors are related. This awareness is what give us true appliable competencies, and the first kind of mastery is absolutely secondary in respect to the second. Khan Academy, one of the best guides to mastery learning on the web, can only affect the first kind of mastery, a kind that can be useless out of school life, cannot change the objectivating nature of concepts of learners. To achieve this result you need a true teacher who possesses that kind of awareness (of the same kind that researchers in chemistry must have), who foremost wants it to be transferred to the students, who has created strategies to do the right kind of mastery.

giovedì 30 giugno 2016

Legge di Ohm, un tipico bluff dell'insegnamento restitutivo



Il video (non incriminato, ma preso a campione per discutere) è un classico esempio di come sia uso comune dare importanza alle cose sbagliate nella scuola restitutiva. E anche di come le tecnologie siano per cambiare tutto senza cambiare nulla di ciò che va cambiato.

Non facendo esperimenti e misurazioni reali, il video dà o conferma l'idea comune di legge come dipendenza matematica esatta, e non la si chiama neppure "linearità", dipendenza o "andamento lineare". Per forza: l'obiettivo non è imparare a descrivere e comprendere il mondo, incuriosirsi dei suoi aspetti peculiari o anche semplici, e perciò belli, ma fare bene esercizi, quindi avere buoni voti imparando lo stretto necessario allo scopo.

Non si considera la tipologia di conduttore e si parla di "pezzo di materiale" quando nella realtà conduttori di materiali diversi potrebbero comportarsi in modi molto diversi tra loro.

Le alterazioni di temperatura e la dipendenza dalla temperatura della resistenza sono fattori (e fatti) fondamentali e non sono minimamente trattati. Essi spiegano parte della non linearità pratica della legge. In fondo si tratta di una legge che riguarda una classe di fenomeni dissipativi. Non di una formuletta matematica atta a risolvere una categoria di esercizietti.

Invece di insegnare a passare da una rappresentazione all'altra della stessa legge utilizzando i significati (ragionando) si insegna il "triangoletto", ossia ci si garantisce che l'applicazione in esercizi numerici fornisca con certezza risultati esatti anche in condizioni di stress da verifica sommativa (nelle quali l'efficienza non ammette riflessioni), laddove sarebbe facilissimo pensare dei quesiti qualitativi capaci di mostrare la non padronanza concettuale degli alunni (e persino degli insegnanti) anche in presenza di risultati corretti e in assenza di qualunque stress. Oltre tutto si vanifica quanto detto sul ruolo completamente asimmetrico di variabile indipendente (V), dipendente (I) e costante (R), diventando tutte e tre potenziali "incognite" in esercizi. Il risultato è che dopo qualche anno o forse un solo mese i ragazzi non ricorderebbero più se il triangolo avesse il vertice in alto o in basso e quale delle tre variabili V, R o I fosse da sola, sopra o sotto, nello stesso triangolo. Non saprebbero affrontare una questione minimamente problematica e non basata sulla pura memoria di V = R·I sull'argomento. Non saprebbero mai, senza una essenziale problematizzazione di carattere metrologico, perché la legge viene espressa come V = R·I e non, ad esempio, come I = V/R. Soprattutto avranno perso un'occasione importante per imparare a ragionare e a connettere evidenze sperimentali e modellizzazioni della realtà.

Non si chiarisce la connessione importante con le grandezze energetiche (energia e potenza).

Del rame non si coglie l'occasione per mostrare che il materiale è quello a resistività più bassa tra quelli della tabella o per dire semplicemente che quel filo è molto lungo per avere una resistenza, nonostante ciò, estremamente piccola. Sappiamo bene che per i ragazzi 350 metri o 35000 metri sono solo numeri privi di senso come altri. Se non lo diciamo noi che sono tre campi di calcio, loro restano nel mondo astratto e arbitrario della scuola, dei suoi esercizi finalizzati al voto.

Non si giustifica in alcun modo la dipendenza inversa dalla sezione, fornendo oltretutto misure già calcolate in millimetri quadrati, quando chiunque vada a comprare dei fili di rame sa benissimo che dovrebbe chiedere misure del diametro.

Le motivazioni per far tutto ciò le conosco bene: occorre presentare la lezioncina in forma pre-semplificata per andare direttamente all'applicazione "pratica", ma non pratica nel senso della realtà vera! Piuttosto, nella realtà virtuale che è quella funzionale a svolgere due tipologie di esercizi i quali a loro volta trovano giustificazione in base al fatto che si prestano a somministrare verifiche sommative, con singola risposta giusta, che autorizzeranno insegnante e alunno a illudersi di aver capito tutto sull'argomento.

Mentre Bruner ci ha lasciato ben altri criteri per stabilire cosa è possibile e bene insegnare ad ogni età.

sabato 18 giugno 2016




tocca tutta la mia esperienza di insegnamento ed ha ispirato queste mie riflessioni.


Non è la lezione frontale che va evitata, ma l'idea della lezione versativa, che considera l'esposizione sufficiente a mettere in condizione l'alunno di "riversare" o "restituire" quanto "insegnato". La lezione frontale trasmette entusiasmo e senso, se fatta con arte e soprattutto solida esperienza come ben descritto da Roberto Contu. Ma credo, e ne sono sicuro per le materie scientifiche che insegno, che questo sia solo l'inizio della comprensione. Quando ciò che c'è da capire non sono concetti rapportabili alla condizione umana e all'esperienza quotidiana, o facilmente traslabili nel tempo e nello spazio rispetto a questa, ma concetti astratti, è strettamente necessario un lavoro addizionale che coinvolga direttamente il singolo alunno in modo attivo e non passivo, lo stimoli a parlare e interagire con gli altri modificando così le proprie rappresentazioni. Quando alla fine di questo lavoro l'alunno riesce veramente a capire di cosa sta parlando, il risultato è simile a quello ottenuto dall'insegnamento frontale, ma il risultato non è affatto ottenibile con la semplice narrazione, per quanto sintetica e appassionata essa sia.

Ciò a cui assisto, purtroppo, è che l'insegnante dica: "io te l'ho spiegato, tu lo dovevi studiare (e aggiunge, per pararsi il culo, che stava da pagina x a pagina y del libro) quindi adesso lo dovevi sapere". Quelli che studiano, dunque, diventano quelli che "ripetono", l'istanza della comprensione diventa quanto mai indesiderata e non le è permesso di guastare la festa della didattica restitutiva.

Ciò a cui assisto, purtroppo, è che l'insegnante dica: "io te l'ho spiegato, tu lo dovevi studiare (e aggiunge, per pararsi il culo, che stava da pagina x a pagina y del libro) quindi adesso lo dovevi sapere". Quelli che studiano, dunque, diventano quelli che "ripetono", l'istanza della comprensione diventa quanto mai indesiderata e non le è permesso di guastare la festa della didattica restitutiva.

Contu è troppo ottimista. Ho conosciuto insegnanti di Italiano considerati bravi e i cui alunni, miei alunni, superavano con successo gli esami; ma essi insegnavano solo gli stereotipi, occorreva CONOSCERE tutti e bene quegli stereotipi bignamici, per cui essi venivano richiesti, fatti recitare, continuamente. Vi assicuro che recitare sequenze di stereotipi non fa avanzare di un millimetro la consapevolezza, neanche di studenti diciottenni già maturi. Ho anche conosciuto insegnanti di Italiano come Contu, che appassionavano, pur essendo giovani e alle prime armi, quindi con una passione che derivava dai propri studi e non dall'esperienza d'insegnamento e forse i propri allievi non hanno fatto l'exploit all'esame, ma ne conosco almeno due che da periti chimici nella vita sono diventati collega di Italiano e filosofo. Qual è stato allora l'insegnante migliore? Il primo lo è solo nella logica autoreferenziale - che personalmente non posso soffrire - interna alla scuola, quella che va ad autolimitare, in realtà, la libertà di insegnamento e apprendimento.
È troppo ottimista anche quando afferma che "L’insegnante è per definizione un soggetto che accetta di passare la vita a studiare ininterrottamente e in modo forsennato..." e più avanti: "nonché sanare i propri buchi formativi". Nel mio settore di insegnamento questi casi sono l'eccezione rara. Se mai qualcuno dei miei colleghi legge un libro a soggetto disciplinare lo fa per proprio diletto personale, lungi da loro l'idea e il desiderio di adattare e trasmettere quel piacere nella lezione, adattandola. Se anche lo ritenessero possibile, ma non lo credono perché per loro gli studenti sono degli stupidi vasi vuoti da riempire, la logica restitutiva, la loro lezione versativa, hanno raggiunto uno standard di perfezione tale, e il programma fila come olio, che sarebbe follia cambiare.
Anche quando Contu afferma che "è esperienza di ogni docente quella di conoscere e accrescere le proprie carte vincenti e i propri argomenti a prova di classe", ciò acquista nella logica restitutiva un significato pernicioso: la pratica ed esperienza conseguita sono in effetti tale e tanta che l'insegnante "restitutivo" riesce perfino ad affascinare; i suoi ragazzi sono contenti perché riescono a rifare, ripetere, restituire tutto alla perfezione... quello sì che è un bravo docente... ma col piccolo problema che nessuno dei tanti in quella classe sa il senso di ciò che sta facendo: i concetti più sovraordinati, le rappresentazioni, sono completamente errate, basta una piccola e insulsa domanda proveniente da fuori il mondo chiuso della sua classe che questa come un'onda distrugge tutto il castello di sabbia. E a quel punto il cattivo della situazione è quello che vive la disciplina, la sua oggettività e il mondo reale, non il prof.
La sintesi è una gran bella cosa. Avrei potuto dire apoditticamente: "è impossibile eliminare la componente costruttiva dall'apprendimento, quindi nel buon insegnamento occorre una dose di lezione frontale, possibilmente il meno passiva e più interattiva possibile, e una componente di lezione con un ruolo attivo appositamente progettato per lo studente". Però DOVEVO sottolineare che la questione non è tecnica, ma psicologica. Quindi non condivido la conclusione di Contu, che quasi assolutizza il valore della conoscenza in sé, portando a sottovalutare proprio le tecniche necessarie a entrare 'anche' nella logica costruttivista. Ma queste tecniche devono essere psicologicamente informate, mentre troppo spesso sono solo tecnologicamente "mercificate". Per tornare dunque al topic del gesso vs tecnologia, la mia opinione è che di ogni alternativa al gesso occorra 1. imparare a sfruttare i vantaggi fino all'ultimo, penso alla scrittura collaborativa con Google docs o a CmapTools che si autorinnovano e che uso da 14 anni, senza mai confondere l'uso del mezzo e gli artefatti prodotti con l'effettivo risultato pedagogico e 2. abbandonare se i vantaggi reali non ci sono e non solo per il gusto di entusiasmarsi nuovamente su un'altra ultima moda appena arrivata, come mi pare essere l'atteggiamento più diffuso tra i "geek" tecnologici e oggi tra gli oscuri ministeriali (vedi pensiero computazionale imposto all'improvviso alla scuola dopo aver largamente dimenticato tutte le esperienze positive pregresse della primaria e media e anche i docenti esperti che vi erano).

Restitutivo vs costruttivista; gesso vs tecnologia




tocca tutta la mia esperienza di insegnamento ed ha ispirato queste mie riflessioni.


Non è la lezione frontale che va evitata, ma l'idea della lezione versativa, che considera l'esposizione sufficiente a mettere in condizione l'alunno di "riversare" o "restituire" quanto "insegnato". La lezione frontale trasmette entusiasmo e senso, se fatta con arte e soprattutto solida esperienza come ben descritto da Roberto Contu. Ma credo, e ne sono sicuro per le materie scientifiche che insegno, che questo sia solo l'inizio della comprensione. Quando ciò che c'è da capire non sono concetti rapportabili alla condizione umana e all'esperienza quotidiana, o facilmente traslabili nel tempo e nello spazio rispetto a questa, ma concetti astratti, è strettamente necessario un lavoro addizionale che coinvolga direttamente il singolo alunno in modo attivo e non passivo, lo stimoli a parlare e interagire con gli altri modificando così le proprie rappresentazioni. Quando alla fine di questo lavoro l'alunno riesce veramente a capire di cosa sta parlando, il risultato è simile a quello ottenuto dall'insegnamento frontale, ma il risultato non è affatto ottenibile con la semplice narrazione, per quanto sintetica e appassionata essa sia.

Ciò a cui assisto, purtroppo, è che l'insegnante dica: "io te l'ho spiegato, tu lo dovevi studiare (e aggiunge, per pararsi il culo, che stava da pagina x a pagina y del libro) quindi adesso lo dovevi sapere". Quelli che studiano, dunque, diventano quelli che "ripetono", l'istanza della comprensione diventa quanto mai indesiderata e non le è permesso di guastare la festa della didattica restitutiva.


Ciò a cui assisto, purtroppo, è che l'insegnante dica: "io te l'ho spiegato, tu lo dovevi studiare (e aggiunge, per pararsi il culo, che stava da pagina x a pagina y del libro) quindi adesso lo dovevi sapere". Quelli che studiano, dunque, diventano quelli che "ripetono", l'istanza della comprensione diventa quanto mai indesiderata e non le è permesso di guastare la festa della didattica restitutiva.

Contu è troppo ottimista. Ho conosciuto insegnanti di Italiano considerati bravi e i cui alunni, miei alunni, superavano con successo gli esami; ma essi insegnavano solo gli stereotipi, occorreva CONOSCERE tutti e bene quegli stereotipi bignamici, per cui essi venivano richiesti, fatti recitare, continuamente. Vi assicuro che recitare sequenze di stereotipi non fa avanzare di un millimetro la consapevolezza, neanche di studenti diciottenni già maturi. Ho anche conosciuto insegnanti di Italiano come Contu, che appassionavano, pur essendo giovani e alle prime armi, quindi con una passione che derivava dai propri studi e non dall'esperienza d'insegnamento e forse i propri allievi non hanno fatto l'exploit all'esame, ma ne conosco almeno due che da periti chimici nella vita sono diventati collega di Italiano e filosofo. Qual è stato allora l'insegnante migliore? Il primo lo è solo nella logica autoreferenziale - che personalmente non posso soffrire - interna alla scuola, quella che va ad autolimitare, in realtà, la libertà di insegnamento e apprendimento.
È troppo ottimista anche quando afferma che "L’insegnante è per definizione un soggetto che accetta di passare la vita a studiare ininterrottamente e in modo forsennato..." e più avanti: "nonché sanare i propri buchi formativi". Nel mio settore di insegnamento questi casi sono l'eccezione rara. Se mai qualcuno dei miei colleghi legge un libro a soggetto disciplinare lo fa per proprio diletto personale, lungi da loro l'idea e il desiderio di adattare e trasmettere quel piacere nella lezione, adattandola. Se anche lo ritenessero possibile, ma non lo credono perché per loro gli studenti sono degli stupidi vasi vuoti da riempire, la logica restitutiva, la loro lezione versativa, hanno raggiunto uno standard di perfezione tale, e il programma fila come olio, che sarebbe follia cambiare.
Anche quando Contu afferma che "è esperienza di ogni docente quella di conoscere e accrescere le proprie carte vincenti e i propri argomenti a prova di classe", ciò acquista nella logica restitutiva un significato pernicioso: la pratica ed esperienza conseguita sono in effetti tale e tanta che l'insegnante "restitutivo" riesce perfino ad affascinare; i suoi ragazzi sono contenti perché riescono a rifare, ripetere, restituire tutto alla perfezione... quello sì che è un bravo docente... ma col piccolo problema che nessuno dei tanti in quella classe sa il senso di ciò che sta facendo: i concetti più sovraordinati, le rappresentazioni, sono completamente errate, basta una piccola e insulsa domanda proveniente da fuori il mondo chiuso della sua classe che questa come un'onda distrugge tutto il castello di sabbia. E a quel punto il cattivo della situazione è quello che vive la disciplina, la sua oggettività e il mondo reale, non il prof.
La sintesi è una gran bella cosa. Avrei potuto dire apoditticamente: "è impossibile eliminare la componente costruttiva dall'apprendimento, quindi nel buon insegnamento occorre una dose di lezione frontale, possibilmente il meno passiva e più interattiva possibile, e una componente di lezione con un ruolo attivo appositamente progettato per lo studente". Però DOVEVO sottolineare che la questione non è tecnica, ma psicologica. Quindi non condivido la conclusione di Contu, che quasi assolutizza il valore della conoscenza in sé, portando a sottovalutare proprio le tecniche necessarie a entrare 'anche' nella logica costruttivista. Ma queste tecniche devono essere psicologicamente informate, mentre troppo spesso sono solo tecnologicamente "mercificate". Per tornare dunque al topic del gesso vs tecnologia, la mia opinione è che di ogni alternativa al gesso occorra 1. imparare a sfruttare i vantaggi fino all'ultimo, penso alla scrittura collaborativa con Google docs o a CmapTools che si autorinnovano e che uso da 14 anni, senza mai confondere l'uso del mezzo e gli artefatti prodotti con l'effettivo risultato pedagogico e 2. abbandonare se i vantaggi reali non ci sono e non solo per il gusto di entusiasmarsi nuovamente su un'altra ultima moda appena arrivata, come mi pare essere l'atteggiamento più diffuso tra i "geek" tecnologici e oggi tra gli oscuri ministeriali (vedi pensiero computazionale imposto all'improvviso alla scuola dopo aver largamente dimenticato tutte le esperienze positive pregresse della primaria e media e anche i docenti esperti che vi erano).

domenica 24 aprile 2016

Fuori gli avvocati dalla scuola

Dove sta scritto che le verifiche debbano essere per forza individuali, per forza sommative, per forza svolte a scuola, per forza cartacee, per essere legali? Invece di perdere tempo a cercare, riporto lo scritto di Adele Repola Boatto, tratto da questo documento, bello e completo dell'ispettore ministeriale prof. Ennio Monachesi.

http://www.edscuola.it/archivio/comprensivi/VALUTAZIONE.pdf

”Uno dei momenti determinanti e più produttivi della mia vita professionale è stato quello in cui mi sono chiesta perché i momenti di valutazione dovessero essere separati da quelli di apprendimento, insieme alla successiva scoperta che anche questa separatezza non era altro che una consuetudine, modificabile quindi in piena legalità. Avevo infatti verificato come fossero diversi i dati che su di sé uno stesso ragazzo forniva mentre collaborava alla costruzione del proprio sapere rispetto a quando doveva spuntare voti di rendimento, in situazioni esclusive per questo scopo….. Quando si afferma che il sapere, più che insegnato può [anche] (parola aggiunta da Monachesi) essere costruito in classe, che è importante aiutare i ragazzi a collaborare lealmente tra loro e ad essere responsabili verso la comune attività, si suscitano facilmente perplessità: chi non ci ha mai provato teme conseguenze di dispersività, disordine, scarsa produttività. Posso provare, dopo lunga esperienza, che è vero il contrario. L’apprendimento effettivo si ottiene se l’alunno partecipa attivamente alla sua elaborazione. Un ambiente-classe in cui questo è usuale offre elementi di valutazione molto più autentici e significativi…Si libera in tal modo molto tempo per l’apprendimento perché risultano superflue gran parte delle “interrogazioni”, supplizio di pochi, divagazioni per molti
la partecipazione alla costruzione degli argomenti attiva abilità, la pluralità delle situazioni offerte facilita i recuperi; si ottiene quindi, dopo una fase iniziale di adattamento, un progressivo miglioramento ed ampliamento delle generali possibilità di apprendimento… Ma come registrare questi elementi di valutazione? I numeri rivelano tutta la loro inadeguatezza e, del resto, con numeri pronti a scattare si blocca ogni effettiva partecipazione degli allievi.” 
(Adele Repola Boatto)

Nell'articolo di Monachesi c'è molto di più. 


Le verifiche scolastiche devono sempre avere carattere prevalentemente formativo. Perciò è necessario "defiscalizzare" la valutazione a scuola, anche per renderla più snella, più diagnostica e più capace di incentivare quei processi virtuosi di apprendimento che le valutazioni devono orientare e non disorientare. 

Il problema della docimologia, è che cerca di dire come avviene la valutazione, senza poter far nulla per aiutare a far capire, a chi ne adotta le tecniche, quale sia la funzione pedagogica della valutazione. 

Come dice la Boatto, non si può scorporare la valutazione dalla pedagogia. 

Vale per tutti l'esempio del Majorana di Brindisi, dove i docenti adottano tecnologie a tutto spiano, un test formativo veloce di autovalutazione in ogni lezione, e dove, per aver parlato anche di persona con i colleghi che lo fanno, ho visto che per loro il problema della fiscalità - legalità, ad esempio nell'acquisire informazioni valutative da un form online fatto a casa o a scuola in collaborazione, e trasformare in "voti sul registro" queste informazioni, semplicemente non esiste. Ho verificato che non hanno neppure sentito il bisogno di darsi una strategia comune per gestire la questione dei voti agli occhi delle famiglie. In poche parole ciascuno verifica e valuta come ritiene sia giusto (come dovrebbe essere per la libertà di insegnamento) e nessuno teme che qualcuno attacchi e invalidi i criteri e metodi formativi di valutazione perché potrebbero creare difficoltà ad alunni che volessero prepararsi in maniera tradizionale, ossia imparando e ripetendo ogni lezione in funzione della verifica e dimenticandola subito dopo, magari perché in quel modo hanno sempre 9 e 10 e non devono mai impattare in qualcosa di difficile, che richieda di mettere in gioco facoltà cognitive superiori, prevedendo errori e possibilità di rimediarvi facendo autentici passi avanti nell'imparare a imparare.  
Sarebbe assurdo che per asservire l'istanza di pochi ribelli e legulei del voto, che non hanno capito che a scuola si va a imparare e non a "prendere voti" (quello è il seminario vescovile), si possa rinunciare a fare tutto ciò che serve a costruire una comunità di apprendimento di qualità reale. La pretesa di oggettività, figlia della "logica meritocratica", non sa fare i conti con la realtà, che prevede differenze individuali, impossibilità dell'oggettività, fallibilità di singoli step educativi, una buona o cattiva qualità sul lungo termine non traducibile in voti o "medie", e soprattutto richiede buona fede reciproca, nel rispetto assoluto dell'azione docente. Prima o poi si dovrà capire che l'insegnamento-apprendimento scolastico è un processo profondamente umano. La libertà e l'autonomia di insegnamento sono l'aspetto centrale di questo processo di qualità reale
Un altro fattore importante è, ad esempio, che il  DS del Majorana, Salvatore Giuliano non è mai "ribelle" nei confronti dell'innovazione. Potrebbe esserci forse meno caos, però quella scuola non è certamente un "votificio di voti fasulli", ma un sistema di educazione realmente all'avanguardia. 

Dunque, perché quello che faccio dovrebbe andare bene in una scuola ed essere illegale in un'altra, secondo qualche azzeccagarbugli da strapazzo? Dove sta il rispetto della mia professionalità? Questa, pure, deve essere tutelata dalla legge. 

I requisiti formali della legalità delle prove di valutazione, come criterio fondamentale di validità di ogni atto scolastico, potranno essere ben applicati alle prove di certificazione ed ai concorsi pubblici (se le commissioni ne saranno capaci), non alla didattica di tutti i giorni.

venerdì 25 marzo 2016

Tutto o niente

Questo post è un commento di risposta ad un post di "IBSE e dintorni" in cui l'autrice lamenta la carenza di passione per l'esperimento di Eratostene della circonferenza terrestre.
Ciò che mi interessa realmente è riflettere sul nostro atteggiamento di fronte alla carenza di passione per la conoscenza. L'atteggiamento in classe e quello generale, come questi due interagiscono a nostro sfavore. Come possiamo opporre resistenza.
Per ora stenderei un velo pietoso sulla carenza di passione degli insegnanti di materie scientifiche (quante volte si sente parlare con passione di una conoscenza o scoperta scientifica in sala professori? mai!!! Se registrassi le più animate conversazioni, qualche ascoltatore le attriburirebbe probabilmente ad una parrucchieria).

Ecco il mio commento-riflessione

« Puoi fare anche di più: con il sito http://rcl-munich.informatik.unibw-muenchen.de/ puoi azionare cinque pendoli elettronici reali dislocati a cinque latitudini diverse nel mondo, osservarli mentre oscillano attraverso una webcam, determinare valori diversi della accelerazione di gravità a livello del mare, il che permette di ricavare la forma di ellissoide del pianeta. Puoi...

In generale capisco il tuo turbamento sul fatto che la conoscenza non fa audience e non fa curiosità. Ma qual è il nostro atteggiamento migliore come "mediatori della conoscenza scientifica"? Per me valgono tre regole fondamentali.

La prima regola è quella del realismo: non bisogna mai confondere l'entusiasmo e la comprensione dell'insegnante con quelle degli alunni. In altre parole non dobbiamo suonarcela e cantarcela da soli né dobbiamo illuderci che spiegazione significhi condivisione di significati, che interessamento di uno significhi comprensione di tutti. Tutto ciò è costantemente smentito nel 99% delle lezioni nella nostra scuola. Ciò che facciamo deve esigere un coinvolgimento attivo da noi strutturato, volente o nolente, da parte di tutti, e pertanto la nostra stessa presenza e "pretesa" devono necessariamente rappresentare un problema per l'alunno; un ostacolo non superabile se non giocando al gioco che decidiamo noi e con le regole volute da noi.

La seconda regola è di rendere preziosa la conoscenza. Occorre entrare in classe mostrando di essere entusiasti di qualcosa, senza pretendere o voler implicare che ciò si trasmetta, anzi facendo desiderare la cosa rinviando eventuali dettagli a dopo la lezione programmata "se ci saranno il tempo e la richiesta". E' la legge del mercato: si fa aumentare il prezzo per far crescere la domanda e viceversa. Meglio non vendere nulla che svendersi. E' l'unico modo di rendere chiaro a chi non possiede, in massima parte, gli strumenti concettuali per farlo, che la conoscenza è una seria questione di scelta, di un tipo ben diverso dall'assistere come spettatore distratto ad uno "spettacolo". Quello che invece vedo costantemente sono sedicenti esperti di didattica e motivazione che si entusiasmano, fanno il loro spettacolo senza richiedere nulla di intellettualmente demanding, fanno i loro esempi trasgressivi che catturano l'attenzione di qualche leader per qualche istante, quindi se ne vanno lasciando la classe al povero docente, costretto a spiegare al 75% di distratti, dare compiti a casa a degli inadempienti, fare interrogazioni e verifiche al traino dei voti. Ed inviando un messaggio immaginario al motivatore: un "ti piace vincere facile? ma vieni a fare un programma qui in classe tutti i giorni, e insieme in altre 5 classi!"

La terza regola è della massima disponibilità con chi sale sul carro della conoscenza: occorre mostrarsi ed essere realmente curiosi delle istanze portate in classe dai ragazzi, anche quando essi pensano che si tratti di una cosa insignificante, si può mostrare che invece la cosa ha risvolti seri e rilevanti e soprattutto che è "conoscibile". Ma se è importante, complessa, implicante approfondimento o ricerca passa la voglia? Non è un nostro problema. Sviluppando queste istanze in modo sistematico e organizzato, anche in alternativa alla lezione programmata, si ottengono discreti risultati di apprendimento nonostante "non ci siano né programma né voto". Facendolo ci si accorge che per la maggior parte se non la totalità degli studenti, nella lezione successiva si saranno già completamente dimenticati della cosa, quando l'insegnante gliela ri-sfornerà arricchita e condita. Ma noi saremo lì a perseverare, dare l'esempio, essere imitabili. Non devono esserci alternative, possibilità di "corruzione" di quel professore che nella percezione dei ragazzi sembra essere "così distante da noi". La barriera e l'asimmetria ci sono, non possiamo fare finta di niente, attenuarle con sotterfugi. Sarà allora chiaro che i tre comportamenti dell'insegnante sono solo apparentemente contraddittori, che essi contengono un messaggio del tipo tutto o niente, di responsabilità, messaggio che con le sole parole non potrebbe mai arrivare a destinazione.

Queste sono la serietà e la coerenza che devono ripetutamente impattare su studenti abituati alla attenzione volontaria della durata massima di uno spot, alla deontologia dell'indifferenza e del resettaggio in tutti i tipi di società di cui fanno parte e che vedono al di fuori della scuola. La scuola non è e non deve essere uguale alla vita "normale": uno zapping continuo. L'insegnante non è e non deve essere un intrattenitore, un amico, o il chiacchierone psicologo comprensivo per il quale la lezione normale o quella alternativa sono sempre meno importanti di qualunque brufolo o impulso emotivo del giorno (è come buttare benzina sul fuoco con gli adolescenti), non un oratore entusiasta che non si rende nemmeno conto di cosa succede sotto i banchi o dietro gli zaini-paravento-poggiatesta, ma uno che fa lavorare usando il cervello e non dà tregua. Un negriero! Solo dall'interesse forzato potrà nascere domani quello autentico. Prima, infatti, bisogna sviluppare in qualche modo, per amore o per forza, funzioni cognitive diverse da quelle spontanee. Perché l'unica barriera concreta, ineliminabile, da superare, è quella delle funzioni del pensiero. La motivazione, non dà un pensiero con i concetti.

Queste sono le misure da adottare per lottare contro la situazione generale, che induce all'irresponsabilità e ostacola la nascita di ogni vocazione per il conoscere. Gli studenti non sono "se stessi allo stato puro". Sono condizionati dalla società virtuale ed effimera in cui sono immersi, in cui si possono fare molti soldi anche senza conoscenza, e in cui per avere più potere è senza dubbio meglio avere scarso amore per la conoscenza. Basta vedere quanta considerazione ha avuto la recente conferma delle onde gravitazionali. Zero impatto mediatico nonostante le numerose implicazioni e, tutto sommato, la facilità dell'esperimento (almeno in termini concettuali). I genitori si saranno chiesti "sì, ma a che serve?", i loro figli, i nostri studenti, nemmeno quello. 
Ecco perché a scuola non ci deve essere tentativo di seduzione, non ci deve essere compromesso né soluzione di continuità: o si sta sul carro della conoscenza o si sta fuori. Mi pare che don Milani fosse più che mai sincero e netto su questi aspetti della motivazione costruita dal discente come conseguente allo sviluppo e al sapere e non causa.

Ma potrebbe essere già tardi, perché i ragazzi di oggi cominciano a "fiutare" che per vivere bene (e non solo in senso materiale, ma anche per quanto riguarda il rispetto e la considerazione sociale) coltivare la conoscenza non basta. Sono lontani i tempi in cui da studenti vedevamo il docente come un imperscrutabile e inarrivabile figuro che formava un tutt'uno con il sapere e con la sua materia, un alieno che non aveva bisogno di altro. Oggi, come insegnanti, non siamo più credibili "di default". Figuriamoci poi se ci mettiamo a fare i sorrisetti, il buon viso a cattivo gioco, o gli animatori del villaggio turistico. »

Alfredo Tifi

giovedì 3 marzo 2016

Sa la materia, ma...


Le parole esatte erano: "ha detto: sa la materia, ma non la sa spiegare e non sa relazionarsi con gli alunni".Le ho ascoltate da una giovane ragazza, mentre le riferiva ad un ragazzo, parimenti sconosciuto, che camminava in coppia con lei e mi incrociava scendendo via don Bosco. Il tono era di verdetto emesso da una giuria o diagnosi prodotta da professionista esperto, ed era confermato dalla cupa serietà del ragazzo che ascoltava e completava così il quadro di una "situazione specifica di disagio scolastico".Chiaramente non si trattava di un'opinione della giovane, che avrà avuto 15-16 anni al massimo, ma di quanto le aveva detto o " confidato" un qualche adulto (Collega? Genitore? Psicologo-educatore?)
Quindi stiamo parlando di come la dignità del singolo insegnante e, più in generale, dell'insegnamento, sia oramai qualcosa da dare in pasto delle possibili dicerie e inconsapevoli calunnie di tutti i possibili inesperti e non-professionisti, colleghi compresi.
Se è vero che non tutti gli insegnanti sono rispettabili allo stesso modo, è altrettanto vero che il rispetto incondizionato per l'insegnante, prerequisito sociale per la costruzione di una qualunque relazione educativa valida, è una categoria morale oramai estinta.
Come in tutte le situazioni complesse, multifattoriali, non si può parlare di verità assoluta, come i due ragazzi e il loro referente adulto hanno fatto, se non nel quadro di una prospettiva dialettica. Ossia, non si può trascurare l'influenza che questo stato di cose diffuso ha nel determinare la qualità e le potenzialità effettive nelle singole situazioni della relazione educativa. La distruzione su scala sociale della asimmetria tra insegnante ed alunno fa sì che la relazione educativa sia gravata da pregiudizi e semplificazioni incontrollate. Spesso, infatti, contraddittorie tra loro nelle diverse opinioni circolanti. Si dissolve così l'essenza e l'unicità del singolo insegnante (e con essa anche quella di ciascuno studente), come se ciò che l'insegnante "sa" o "non sa" fosse una grandezza oggettiva, come se l'azione dello "spiegare" fosse una qualità valutabile e indipendente dal soggetto ricevente e dalla relazione, come l'avere una lama affilata per un coltello, come se la più bella delle orazioni non possa lasciare del tutto immutata una classe che crede di aver capito tutto dopo non aver fatto altro che ascoltare catturata, e come se la capacità di stabilire una relazione fosse indipendente dal dato studente e da quali preconcetti egli abbia in testa - o gli siano stati messi in testa dalla continua diffusione delle dicerie, dagli stereotipi degli "psicologi" che parlano di scuola. Si arriva presto ad un punto tale che neppure i fatti manifesti dell'azione educativa, i risultati dell'investimento e della passione dell'unico professionista, contano qualcosa. L'insegnante diventa lo stereotipo che gli è stato cucito addosso da qualche genitore e lavandaia della scuola. Questo stato di cose ha portato alla distorsione della stessa relazione educativa, che non è più da maestro ad allievo, ma da badante-intrattenitore - prete dell'oratorio - sempre pronto ad farsi gli affari degli studenti (quella sarebbe una buona relazione!!!) ma sempre meno cultore di una tensione e passione per la disciplina insegnata, a dei sedicenti fruitori di servizi che pretendono serietà, ma poi la rifiutano non appena vedono che tale serietà ritorna loro riflessa in termini di impegno e senso di responsabilità, protetti dai loro genitori e magari pure dal DS, per non far fronte ad una faccenda ineliminabile: la fatica-gioia dell'apprendimento. Fatica piuttosto difficile da sostenere se si basa su relazioni simmetriche con insegnante stile "uno di noi", sempre pronto a soprassedere sul compito, sul contenuto e sulla sua comprensione, o a sprecare il tempo col giocattolo tecnologico, o men che mai attraverso una pedagogia delle relazioni tra pari in cui il compito della mediazione è affidato agli alunni stessi. Si è evidentemente dimenticato che la relazione educativa è una categoria molto diversa dalle normali relazioni interpersonali, più simile a quella parentale che non al rapporto lavorativo o di fruitore di servizi e dell'animatore del villaggio turistico. Tale cioè che, in assenza di interferenze sul soggetto della mediazione, la relazione potrebbe essere ben efficace anche con un mediatore del sapere non particolarmente brillante e comunicativo. Una "semplice" relazione educativa tra due persone ugualmente mansuete, ma con due ruoli diversi, asimmetrici assegnati loro dalla cultura che entrano in azione persino se nessuno dei due ne è consapevole. La distruzione sociale dell'asimmetria fa sì che si annulli la condizione si mansuetudine e che la relazione educativa acquisti il carattere di "trattativa" (con tanto di "contratti formativi", "patti formativi" con i genitori e varie "controparti"), dove la parola mediatrice soccombe alla moneta di scambio ufficializzata del voto, l'oggetto finale e determinante delle "transazioni" dell'istruzione occidentale. Trattative con persone che non sanno affatto dove devono andare, ma che pretendono di esercitare un "potere contrattuale" paritario per il semplice motivo che tale potere è stato loro assegnato in modo astratto.
Una volta il "bravo insegnante" poteva "scegliere" se dare "del lei" ai suoi studenti o essere molto protettivo, dialogante amorevole e "comprensivo", quasi materno, senza che ciò predeterminasse significativamente la qualità effettiva della sua azione didattica. Oggi non può più nemmeno scegliere di stare in una via di mezzo, perché alla prima difficoltà incontrata col gruppetto sbagliato di studenti, tutte le banderuole cambieranno direzione e tutta la sua arte e maestria svaniranno nello stereotipo "sa la materia, ma non la sa spiegare", né sa relazionarsi con i propri presuntuosi ed autoeletti giudici.