venerdì 3 agosto 2012

Sintomatologia dell'alienazione dalla scuola

Insegnando nella secondaria mi trovo davanti al prodotto degli errori della scuola "precedente", che continuano però ad essere commessi per altri 5 anni.

La situazione è quella descritta da Margaret Donaldson: studenti demotivati, stanchi di fallire ripetutamente, costretti quindi a rimanere nella scuola vivendo di "espedienti".


Esistono contesti (classi) in cui sembra proprio che non ci sia niente che si possa fare per rimuovere una percezione diffusa negativa del proprio ruolo e delle proprie possibilità da parte degli studenti, che li porta a un senso di completa estraneità al sapere accademico e ad un atteggiamento di passività o distacco. A dire la verità, nella maggior parte dei casi, gli studenti non arrivano neppure a sospettare l'esistenza di un sapere accademico, esterno, perché sono ad essi presentate direttamente conoscenze nel formato "predigerito" della consuetudine scolastica, tale da esaurire la sua funzione nel processo lezione, ripetizione meccanica, verifica.

I ragazzi vivono inconsapevolmente immersi in questo modello di scuola pseudoreale, tradizionale e fallimentare, in un ruolo che li vede alieni sia dalle dinamiche concrete sia dal pensiero astratto (disembedded) di qualunque disciplina scolastica. 
Le conoscenze coltivate sistematicamente dagli alunni in settori culturali extrascolastici o extracurriculari costituiscono un fattore potenziale di ancoraggio della motivazione, ma troppo diversificato e in forte calo, per cui non possiamo affidarci ad esso. Anche la lettura è in calo. Sopravvivono alcuni interessi legati ad attività puramente pratiche e allo sport, dato che la cultura è in recessione nelle famiglie. Non credo che sia generalizzabile l'andare a raschiare il fondo di questo barile culturale per progettare moduli motivanti basati su pretesti-esca. Il costo dei messaggi del cellulare in matematica, i razzi in chimica, la detonazione in fisica, l'azione delle droghe in biochimica, la pianta della marijuana in scienze naturali, ecc. Se questi moduli servono da innesco ok, ma non potranno mai essere totalizzanti. Dobbiamo essere onesti e  restituire all'istruzione il suo compito basilare garantendo la sistematicità e autonomia ai linguaggi disciplinari, aggiungendo solo la dose possibile di pluridisciplinarità, quella commisurata alle consapevolezze e alle basi disciplinari che via via si vengono creando. I problemi complessi della società non si possono né affrontare né comprendere e neppure conoscere guardandoli in modo diretto senza basi interpretative e autonomia di pensiero concettuale. In mezzo, tra questi due diversi individui (quello che sa leggere, scrivere e trattare problemi semplici e complessi e quello che sta ancora lavorando all'acquisizione delle funzioni psichiche superiori), c'è proprio l'istruzione formale. Quindi torniamo ai problemi di questa.

L'auto-alienazione dall'offerta scolastica si verifica alle superiori in tre modi: 
a) con un senso di inferiorità  già da tempo consolidato (negandosi e negando all'esterno le proprie capacità di pensiero); 
b) con un senso di superiorità (la presunzione che con la propria capacità di pensiero si possa, quando ci si voglia concedere, affrontare estemporaneamente e senza vero coinvolgimento un qualunque compito, a prescindere dall'applicazione attiva e costante); 
c) con l'adattamento, per cui la soddisfazione estrinseca che si ricava dall'adesione al modello, cioè dal saper ripetere gesti, azioni e parole arbitrarie (senza consapevolezza e condivisione di significati) è premiata dal sistema e tramutata dall'allievo in una forma distorta di soddisfazione intrinseca. 

Potrei fare i nomi e cognomi, tra i miei studenti, per ciascuna di queste "sintomatologie". Gli alunni che sfuggono a questa classificazione sono meno degli insegnanti che alle superiori cercano di attuare un modello scolastico che mira direttamente alla comprensione e che sfrutta, allo scopo, le risorse intellettuali in sviluppo degli stessi studenti. Non lo chiamo costruttivista non solo per non fare irritare personaggi come Giorgio Israel, ma anche perché non si tratta solo di questo. Si tratta di rimettere in campo e sviluppare le risorse intellettuali dei ragazzi (anche quelli che ritengono di aver già incontrato il loro presente o disegnato il loro futuro, rispetto ai quali Mastrocola toglierebbe il disturbo) e non solo, non necessariamente, di costruire nuova conoscenza con criteri più o meno induttivi. 
Il punto è piuttosto di capire di chi è la responsabilità del non vedere che le cose non stanno funzionando e poi nel non capire il nocciolo della problematica. E di come uscirne, come "liberare" gli studenti dai ruoli a), b), c) Come re-incentivare la soddisfazione intrinseca basata sul sano senso di curiosità, del tipo finalizzato al controllo della conoscenza e del proprio ambiente, caratteristica innata di H. sapiens sapiens ma non più della sottospecie H. s. s. scolasticus?

Le uniche due possibilità che mi vengono in mente sono: 

1. Una chiara manifestazione degli obiettivi e delle ragioni, finalizzata alla condivisione con gli alunni, ma anche con le famiglie, di un'azione pedagogico-didattica che richiede esplicitamente il riconoscimento e la messa in gioco delle risorse intellettuali degli alunni e la condivisione, spiegazione - ben comparata - col modello tradizionale vissuto, in modo da evidenziare gli aspetti innovativi e implicare una diversa forma di coinvolgimento, non facilmente accettata (i problemi sono due: mettersi in gioco, non facoltatività di determinate attività da svolgere con dedizione da casa, perché senza lavoro e riflessione autonoma, forzata o meno, non c'è metodo di insegnamento o modello educativo che tenga)

2. la conduzione diretta delle attività "potenzialmente motivanti", organizzando didatticamente il coinvolgimento per renderlo praticamente obbligato. Lo scopo è creare un clima o atmosfera costruttiva.

Con studenti più grandi si può iniziare da 1 e poi passare a 2 e progressivamente rilasciare il controllo che, come dice Margaret Donaldson, andrebbe presentato chiaramente come qualcosa che abbia la principale funzione di essere rilasciato, richiamando però di tanto in tanto le motivazioni e le comparazioni con i percorsi e criteri tradizionali che i poveri studenti continuano a seguire nelle altre materie in una scuola schizofrenica. Lo dico perché sento che gli stessi studenti più maturi possono essere gli unici nostri alleati che attualmente si intravedono all'orizzonte.
Con i più piccoli che concettualizzano poco o niente, abbiamo minori possibilità di arrivare ad una consapevolezza dell'esistenza di possibili scopi e ruoli diversi, e quindi di rimediare agli errori fatti fino al punto in cui sono (ebbene sì cari colleghi, sono stati fatti gravi errori), per cui occorre lavorare nella modalità 2, con qualche accenno di presa di coscienza, senza nessuna possibilità di comparazione tra le diverse modalità di lavoro che, al biennio, non sono distintamente riconoscibili nel marasma delle fin troppo numerose e nuove materie.

Purtroppo non esiste la bacchetta magica e la consapevolezza da parte dello studente del proprio cambio di ruolo è il fattore principale del successo della didattica inclusiva.

L'entusiasmo attivista da solo, anche se contagioso, non provocherà mai il cambio di ruolo e sfumerà di fronte alla prima difficoltà con il pensiero astratto e disciplinare.

L'unico entusiasmo che dobbiamo e possiamo sperare di creare, gradualmente, è quello diffuso nelle proprie capacità.

mercoledì 1 agosto 2012

Risposta a "Togliamo il Disturbo" di P. Mastrocola

Destinatari: Paola Mastrocola, A.Lalomia, Giorgio Israel.

Per fortuna ho abbandonato l'idea di scrivere un "libro risposta" a Togliamo il Disturbo. Quella fu la prima reazione al malumore che mi ero portato dentro a lungo, dopo la lettura di quel libro e dei convincimenti esageratamente pessimistici, delle concezioni "fataliste" e anti-pedagogiche dell'autrice che, purtroppo, trovano tanti sostenitori tra i miei colleghi.

Così non solo ho evitato di perdere tempo in un'impresa senza speranza, ma ho anche trovato a casa mia, già scritto e pluripubblicato, il libro risposta perfetto, che avevo iniziato a leggere per la parte scientifica, ma non terminato nei capitoli conclusivi dove le risposte sono elaborate.

La mia risposta è "benvenuti nella nuova scuola", il titolo del libro che avrei voluto scrivere, ma è Margaret Donaldson a darla, con un bellissimo saggio-studio scritto moltissimi anni fa: Come Ragionano i Bambini, Springer-Italia 2010 (originale Children's Minds, University of Edimburgh, UK, 1978) . Un'opera elogiata nientemeno che da J. Bruner, ma che è sempre stata misconosciuta, nonostante due traduzioni ed edizioni in italiano.
Margaret Donaldson va alla questione centrale su cui si interroga Mastrocola: 

"La scuola, per quanto bene possa cominciare, si trasforma oggi in un'esperienza infelice per molti bambini e [che] c'è la massima urgenza di fare qualcosa per cambiare la situazione" (prime pagine e poi p.91).

Ma M.D. si interroga con competenza di psicologa evolutiva, di pedagoga, di ricercatrice e con visione positiva nonostante - a differenza di Mastrocola - ella comprenda appieno la natura del problema, indicando anche gli orientamenti generali, se non la "soluzione".

Stralcio alcuni brani dall'ultimo capitolo, augurandomi che i destinatari vogliano appurarne le solide ragioni con la lettura dei capitoli precedenti. 
Scrive M.D., a continuazione della citazione precedente (i grassetti sono miei):

"L'esperienza [educativa] oggi diventa infelice soprattutto perché è penoso essere costretti a fare una cosa in cui si continua a fallire. Spesso i bambini più grandi non soddisfano con successo le aspettative della scuola e sanno di essere liquidati come stupidi, per quanto energicamente possano tentare di difendersi da questa consapevolezza. 'Di solito ci si interessa alle cose in cui si riesce bene', per citare la semplice constatazione di Bruner su una verità fondamentale. Ecco perché tanti dei nostri ragazzi diventano sempre più annoiati e demoralizzati. 
Una direzione che sembra offrire una via d'uscita, come abbiamo visto, è che la scuola non insista a formulare le richieste che creano il problema. Se ci atteniamo a questo principio, per un certo periodo i bambini sono in grado di mostrare un comportamento abbastanza felice - e così lo scontento si manifesta spesso soltanto negli ultimi anni di scuola, quando le richieste della società in generale, riguardo all'alfabetizzazione, il far di conto, la comprensione delle scienze, e via dicendo, non possono più essere ignorate o negate.
Poiché queste richieste sorgono da considerazioni di valore sociale profondamente radicate, non sarà facile cambiarle. L'utilità pratica delle abilità intellettuali non è l'unica cosa coinvolta nei giudizi di valore, ma sarebbe sufficiente in se stessa. Che ci piaccia o meno, noi abbiamo bisogno di tali abilità e, collettivamente, lo sappiamo bene.
Il problema, allora, è se dobbiamo accettare come inevitabile il fatto che solo una piccola minoranza di persone possa svilupparsi intellettualmente fino a raggiungere un alto livello di competenza. Io credo che non dobbiamo accettarlo [qui Mastrocola si avvia nella direzione opposta]. Io credo che la natura della considerevole difficoltà che queste abilità rappresentano per la mente umana non sia stata adeguatamente riconosciuta [ma il suo libro le disamina e riconosce]. Pur sapendo da tanto tempo che il 'pensiero astratto' è difficile, ci è mancata una comprensione sufficientemente chiara - ed estesa - di ciò che comporta muoversi oltre i confini del senso comune [human sense] e imparare a manipolare il nostro stesso pensiero secondo nuovi modi svincolati [disembedded, inteso più o meno nel senso di 'formale'], liberi dai precedenti coinvolgimenti [involvements, precedenti qui col valorie di concreti, esperenziali], che al tempo stesso sostengono e ostacolano. Credo anche che, una volta che abbiamo riconosciuto queste cose, saremo in grado di aiutare tanti bambini a diventare capaci di pensare in maniera adeguata secondo queste nuove modalità, se scegliamo di farlo;..."

E a proposito del concetto di aiuto, sconosciuto nella scuola del "dono", del "grato sacrificio e passione allo studio" innati, M.D. scrive - (risolvendo la controversia lavoro intellettuale/manuale):

"Nella vita di un bambino, la gioia dell'immediato coinvolgimento del corpo in un'attività qualificata si manifesta presto e spontaneamente. Come abbiamo già visto non è una gioia priva di pensiero, ma non è riflessiva. Il successivo esercizio delle attività riflessive può anch'esso dare gioia - ma si tratta di una gioia che non si presenta da sola, senza aiuti. Più diventeremo esperti nel dare l'aiuto necessario per suscitarla, meno sentiremo il bisogno di ricorrere alla tecnica della Satira dei Mestieri come mezzo per far impegnare persone riluttanti in un duro lavoro accademico.
Perciò, se alla fine diventeremo davvero abili nell'aiutare un gran numero di persone a conoscere la soddisfazione intellettuale, avremo maggiore libertà di volgerci verso lo sviluppo di potenziali umani di altro genere. Allora non dovrebbe essere troppo difficile - né troppo pericoloso - ripristinare il lavoro manuale. E il probabile risultato sarebbe una vasta manifestazione di energia creativa."

La nostra missione e funzione, in una scuola inclusiva di massa, è esattamente di aiutare tutti a conoscere la soddisfazione intellettuale, riconoscendo gli errori dell'esposizione prematura ad apprendimenti forzosi di saperi formali, inconsapevoli, senza significato e generatori, essi sì, di differenze insanabili tra diversi studenti, cambiando la scuola per adattarla a ciò che sappiamo oggi sulla psicologia dell'età evolutiva. Il nostro compito non è, invece, l'essere propensi a lamentarci del modo di essere, di fare e vestire di giovani alquanto "distratti" e inconsapevoli, e proporre per i "meno dotati" percorsi d'istruzione diversificati con ridotto accesso al pensiero astratto, considerando, ancora nel terzo millennio, la testa dello studente come una specie di scatola nera sede di eventi predestinati da accogliere con naturalezza nelle arti e mestieri piuttosto che con rassegnazione o delusione. 

Il sistema che compie errori deve riconoscere i suoi errori, e a quel punto le reazioni di non contrastare le cosiddette "doti naturali", o  di mostrare rassegnazione e delusione, diventano simmetricamente ed equivalentemente insensate.

Il punto di vista del professore di liceo che al tempo stesso disconosce la ricerca della psicologia educativa e si lamenta dei "prodotti in arrivo" è limitato, incapace costituzionalmente di vedere un percorso educativo lungo una linea ontogenetica. 
Il punto di vista di M.D. che invece conosce tutte le fasi dello sviluppo e l'importanza dell'istruzione nel determinare le forme dell'intelligenza, della coscienza di sé, della coscienza, dell'autostima, e che specialmente riconosce gli errori che si fanno nel periodo preadolescenziale e adolescenziale, è il punto di vista più adatto per erigersi a proporre cosa cambiare nel sistema educativo. A conferma di ciò così conclude M.D.:

"... se non avremo la buona volontà di tentare e di continuare a tentare, alla luce delle conoscenze raggiunte, di aiutare i nostri bambini a soddisfare le richieste che imponiamo loro, allora non dovremo chiamarli stupidi. Dovremmo piuttosto definire noi stessi indifferenti o paurosi."

Io aggiungerei: incompetenti.