mercoledì 18 maggio 2011

I test INVALSI: smascherato un maldestro cavallo di Troia

Non si possono liquidare così sommariamente (come enigmistica o idiozia di capacità generiche senza contenuti) le proposte di problem solving di varia natura, come fa Israel che è in tutta evidenza un negazionista delle istanze pedagogiche. Così come non è scontato il giudizio negativo verso il "teaching to the test". Infatti è innegabile che lavorando seriamente a dei test potenzialmente significativi si POSSONO (con un abile mediatore, dove abile = che sa innanzitutto dove vuole arrivare) sviluppare le capacità generali che hanno in mente i creatori del test e anche altre, e non solo diventare capace di fare test analoghi. Ciò che mi sento di contestare con forza è l'idea approssimativa di meritocrazia, un mito di fronte al quale tutte le opinioni sembrano arrestarsi. Sembra incontestabile che chi merita di più debba avere, meritare, di più. Invece no: è proprio questo il criterio antipedagogico da contestare. La pretesa dell'oggettività e il concetto di valore aggiunto di apprendimento sono solo dei derivati inventati ad hoc per inseguire il falso mito, la semplificazione della meritocrazia. Contesto l'idea stessa della meritocrazia, NON contrapponendo l'idea simmetricamente sbagliata del "buonismo". La scuola è fatta da insegnanti che devono 'fare il loro dovere nella maniera più professionale possibile' e non 'meritare' attraverso gli pseudomeriti dei propri alunni. Nell'insegnare può (dovrebbe) rientrarvi l'utilizzo di problemi di qualunque natura, in quanto compiti-strumenti di apprendimento. Dunque: gradite proposte. Vediamo gli obiettivi dell'OCSE con i suoi test PISA: comparare i sistemi educativi. Ben vengano. Sono fatti a campione; non ci costano, ci restituiscono indicazioni relative al contesto che poi vari manipolatori utilizzano per scopi demagogici. Ma qual è la ricaduta sugli insegnanti? nessuna. Non ci è dato di studiare i test, di comprenderne la portata pedagogica, imparare a usarli, avere un supporto pedagogico. Lo accettiamo, di ospitare l'OCSE senza trarne nessun vantaggio, perché quella è l'OCSE e il nostro paese ne è membro, ma anche perché quei test NON vanno a misurare cose balorde come i valori aggiunti di apprendimento. E sanno che i risultati sono i risultati delle culture, delle storie e dei contesti, con una "piccola interferenza" dovuta al particolare sistema educativo. Particolare sistema che non è fatto solamente dagli insegnanti. E' assurdo e anche sospetto che sia un ente ministeriale a mettersi a misurare pseudomeriti con l'intenzione di portare dentro la meritocrazia sui 'sottoposti' insegnanti senza fare nulla per riportare dentro la scuola un minimo supporto pedagogico sulle competenze, sulle capacità che si intende solo verificare senza far conoscere esplicitamente i parametri che fanno da sfondo e da motivazione dei test. Viene da dire: "ma perché almeno non ce li dite, che noi ci facciamo in quattro per realizzarli, questi obiettivi, come ci siamo sempre fatti in quattro per insegnare qualunque altra cosa, costruendoci anche da soli gli strumenti che ci sembrano più adatti? Non ce li date - lasciate fare da soli - perché non ci ritenete all'altezza? bene, allora perché ci volete valutare su ciò di cui non saremmo all'altezza?" Si dà il caso che il compito e la finalità educativa siano affidate a noi e non all'INVALSI. Quindi se il ministero o per lui l'INVALSI vuole farci migliorare la qualità dell'insegnamento, che ci dia formazione e supporto e, volendo, anche test. Ci faccia imparare anche a noi a farli. Ci faccia partecipare! Con l'obiettivo di migliorare la qualità dell'educazione e non di arrivare a "conoscere i meriti individuali" in base al mito liberista che l'inseguimento del merito incentivi il miglioramento della qualità. E' evidente che in questo caso il "Teaching to the Test" crescerebbe nella sua natura viziosa, arrivando ad intaccare la stessa dignità delle discipline e, di riflesso, quella dei relativi insegnanti.
Tocchiamo un altro aspetto che secondo me va ancor più al cuore della faccenda. I concetti di zona di sviluppo prossimale, di potenziale di apprendimento, di processo e quelli antitetici di merito, valutazione penalizzante/premiante, e cerchiamo di capire perché un laureato non riesce a superare i test d'ingresso ad una facoltà simile a quella in cui si è laureato a buoni voti o altri analoghi paradossi.
La scuola è GIÀ in gran parte basata sulla paura della punizione, cioè sui concetti di pena e premio, almeno la secondaria di 1° e 2° grado, e su questa base sta già funzionando al di sotto delle aspettative, al di sotto delle necessità sociali e, secondo me, anche al di sotto del suo potenziale complessivo. Inserendo i test INVALSI come incentivo al miglioramento della qualità, l'intelletto dei nostri strateghi dell'educazione si aspetterebbe una concatenazione di questo tipo: noi pretendiamo degli standard dai docenti, il mancato raggiungimento dei quali comporta qualche pena di qualche tipo (che non si sa ancora bene come comminare), la paura della quale spingerà gli insegnanti a pretendere standard maggiori dai propri studenti e i fannulloni a fare, ed entrambi ad aumentare la pressione della paura sui propri alunni e genitori che così, con la maggior paura dei voti più bassi (negativi?) produrranno quel valore aggiunto di apprendimento diffuso che coincide con il miglioramento della qualità dell'educazione. Non sto né estremizzando né ironizzando. Questa è la meritocrazia. Questa è la "buona vecchia scuola di una volta di quando si imparava veramente". Quando non c'erano inutili distinzioni tra ricordare, sapere, comprendere e saper comprendere: si sapeva e basta. Quando chi sapeva di più e ricordava più cose superava esami e test basati sulla conoscenza, quindi semplici e oggettivamente capaci di misurare impegno e merito. Per questo persino più democratici. E soprattutto superarli indicava indubbiamente l'avere attitudini per lo studio, per 'quel' particolare tipo di studio. E il non superarli era il chiaro segno di non essere adatti a quel settore di studio o professionale... o non adatto ad uno studio arbitrario ed autoreferenziale? ... o impossibilitati da condizioni socioculturali ad immergersi in questioni astratte che in assenza di interferenze esterne - e di valutazioni scolastiche penalizzanti l'intero individuo - sarebbero immediatamente elaborate?
L'alunno ha dei bisogni. Anzi, ha UN bisogno, di mediazione, e gli insegnanti sono i mediatori. La valutazione ha senso esclusivamente all'interno del rapporto di mediazione e deve essere reciproca e continua, come la stessa mediazione. Lavorare nella zona di sviluppo prossimo significa aiutare l'alunno a realizzare - imitando - dei compiti di apprendimento che non sarebbe - in quella specifica fase evolutiva - in grado di realizzare da solo, ma che invece fruttificano uno spostamento in avanti del potenziale di apprendimento anche se raggiunti con l'aiuto esperto (contrariamente a compiti troppo al di sopra della ZSP che non sono imitabili e, anche se realizzati con tutti i migliori aiuti e ripetizioni del mondo, non fruttano nulla di stabile, e contrariamente ai compiti che facilitano lo studio banalizzando la mediazione, pur di ottenere qualche risultato, che fruttano solo istupidimento). La buona mediazione è protesa anche all'autonomia dell'alunno dal mediatore, ma questo gran risultato deve passare per i tempi lunghi e per la comprensione reciproca dei processi, quindi per la costruzione di una buona metacognizione: controllo, consapevolezza, coscienza della consapevolezza. Certo, un percorso scolastico nel suo insieme dà un valore aggiunto alla persona studente, e non solo ai suoi apprendimenti, ma questo è il servizio da dare a tutti i cittadini che si chiama diritto allo studio. I frutti di questo servizio non sono staccati dalle persone come possono esserlo le prestazioni dei test d'ingresso. Essi si vedono (e la loro azione non si interrompe) nell'arco di tutta la vita. L'apporto del sistema di educazione basato su professionisti esperti (la scuola), consiste in una modificazione cognitiva ed emotiva a lento corso, che solo nei casi migliori diventa anche automodificazione, non è quantificabile né certificabile una volta all'anno, ma è un dovere della società verso l'individuo. Anche se può essere migliorato, questo sistema FUNZIONA ed è arduo immaginare le conseguenze di una sua assenza o snaturazione (testificazione?) E non funziona poco a causa di una somma di demeriti, ma a causa soprattutto di una scarsa consapevolezza della sua essenza, dei suoi scopi, metodi e finalità da parte di chi lo governa. Per questo i suoi principi, anche volendo, non potrebbero trasmettersi in alcun modo, meritocratico o no, ai suoi operatori: i docenti. Se i buoni principi circolano e si applicano, questo è grazie a pratiche tradizionali e/o consapevoli di buoni insegnanti sostanzialmente autodidatti, e se molti studenti diventano ottime persone, questo è un merito distribuito in modo insondabile in tutto il sistema formativo, nella cultura familiare e della società. Una volta assolto in modo consono il dovere governativo di scegliere la destinazione del sistema educativo, una volta usato il denaro pubblico per fornire supporto e coinvolgimento pedagogico-professionale e non per fare test aventi finalità promiscua e tendenziosa, chi ci governa potrebbe pretendere di mettersi a "controllare" che questi questi fannulloni e mascalzoncelli di insegnanti facciano il proprio dovere. Ma come? Semplicemente vedendo se e quanto si impegnano nella loro specifica professione e incentivandoli in questo. Non considerandoli come giunti meccanici da oliare in un meccanismo che produce buone risposte ai test. Altrimenti, che ci venissero loro a fare scuola. Il mio punto di vista consiste nello stabilire un rapporto alla pari di reciproca fiducia professionale. Il loro è quello basato sull'automatismo meritocratico: un'idiozia.